venerdì 11 ottobre 2019

"The Last Samurai" (2003) - "L'ultimo samurai"

 "The Last Samurai" (2003), in Italia "L'ultimo samurai", è un film avventuroso e drammatico, diretto da Edward Zwick e scritto da John Logan, che rielabora a piacere, modifica e riunifica almeno due eventi storici recenti del Giappone, rileggendoli in chiave fortemente romanticizzata e idealizzata.

Scheda di "The Last Samurai" su wikipedia

 L'ampia libertà nel reimmaginare la Storia nipponica accomuna questo film agli stessi Giapponesi, che fanno altrettanto con lo stesso tema, la Guerra Boshin degli anni 1868-1869. E, considerando la grandissima attenzione all'estetica e alla dinamica del Giappone dei samurai, contesto questo che è accuratamente ricostruito nel film anche in termini di correttezza linguistica, non sembra sia esattamente un caso che anche la narrazione, come la regia, imiti la narrativa giapponese (a noi ben nota grazie a cartoni animati e fumetti, importati in massa dal paese del Sol Levante per decenni).


 Chi è abbastanza vecchio da ricordarsi un anime come "L'invincibile shogun" ("Manga Mitokomon") del 1981, ambientato in un Giappone medievale dove un potente nobile e i suoi valorosi guerrieri portano la giustizia nei villaggi dove l'assenza della legge ha permesso ai signorotti locali di spadroneggiare, capisce subito quale sia la filosofia su cui si basa "L'ultimo samurai": mitizzando il Giappone agricolo e contadino, che qui viene descritto come totalmente pacifico e guidato da samurai tanto giusti quanto saggi e onorevoli, esso mette in scena l'eterno conflitto tra il nuovo che avanza, caratterizzato immancabilmente da un'arroganza tecnologica, disumananamente guidata dal profitto e dall'interesse personale, e il vecchio che arranca, incapace di ammettere la propria obsolescenza e di cessare di esistere, pur avendo perso di vista i motivi e gli scopi per cui esiste.
 E' forse sotto questo aspetto che il film, probabilmente influenzato un po' troppo dalle fisime del produttore e protagonista Tom Cruise, incespica, fallendo nello spiegarci esattamente cosa i samurai difendano, oltre al generico onore e a una vita contadina che è eccessivamente idealizzata e felice, per essere credibile. Dopotutto, se erano necessari i samurai e le armi bianche, significa che anche quella vita era esposta a violenze e brutalità e guerra; quindi, cosa cambia se si impone una legge che cerca di "civilizzare" questo mondo? E' vero che non è facile dare una risposta, ma il film evita un po' troppo smaccatamente l'argomento, e così facendo genera nello spettatore un senso di irritata incompletezza, specialmente considerando la durata di due ore e trentaquattro minuti e l'indulgenza di "cassetta" nelle numerose scene romantiche tra il protagonista Nathan e la bella vedova Taka (a cui Nathan ha onorevolmente ammazzato il marito in guerra, salvo poi entrare ferito nella vita di lei, per farsi curare, farsi accettare dalla famiglia, divenire un secondo padre per i due pargoli e un secondo marito per lei; e sì, tutto è narrato col rigoroso e fiero pudore nipponico che non manca mai di spremere una lacrimuccia agli appassionati di anime e manga, ma che comunque non basta per compensare le altre lacune).
 Di questa incompletezza, lo spettatore soffre quando cerca di dare un senso all'ostinazione del samurai Katsumoto (interpretato fieramente da Ken Watanabe) nell'ancorarsi al rituale e all'usanza, fino al punto di causare la rovina propria e dei propri soldati, quando basterebbe una sua parola per spingere l'Imperatore a rigettare il trattato con gli Stati Uniti: per cosa combatta Katsumoto, oltre che per l'onore e ciò in cui credevano gli avi e un generico "bene del popolo", il film non lo spiega chiaramente. E ciò finisce col far sorgere nello spettatore cinico ogni genere di pensiero maligno sull'effettiva saggezza di questo samurai e influente maestro imperiale, del tutto incapace di staccarsi dai suoi vecchi metodi, ma anche felice di accogliere tra le sue fila il capitano Nathan Algren come uomo capace di conciliare il vecchio e il nuovo.

  Il capitano Algren (Tom Cruise) è l'altro punto debole del film, probabilmente perchè concentra in sè troppi stereotipi: questo "Tigrotto" (così preannunciato da una visione avuta dall'ultimo samurai), dopo aver servito sotto quell'esaltato del Generale Custer, e aver contribuito al massacro di una tribù di pellerossa innocenti che gli gravano sulla coscienza, si ritrova a dover sterminare un'altra minoranza (il villaggio del samurai), ma finisce invece per vivere con loro e apprenderne cultura e filosofia fino a schierarsi dalla loro parte, superando anche i demoni dell'alcolismo e del senso di colpa per il proprio passato. Il tema in questione, cioè la caduta in disgrazia col successivo riscatto ottenuto da una redenzione che sfiora la morte eroica, è assai ricorrente nella narrativa avventurosa, e in questo caso è declinato secondo tutti i crismi della narrativa giapponese (per fare un parallelo, quelo zuccone del capitano Algren che si rifiuta di restare a terra nonostante nelle battaglie le prenda di santa ragione, e venga bastonato, preso a calci, infilzato, dissanguato, fucilato, massacrato eccetera, non è forse esattamente ciò che fa in ogni battaglia l'ostinatissimo Seiya di Pegaso della serie "Saint Seiya"?); il problema sta però nell'attore, in quanto Tom Cruise non riesce a convincerci pienamente della sua fibra di eroe sovraumano che riesce sempre a rialzarsi e a guarire da qualunque cosa (compreso l'alcolismo); per non dire di quanto poco sia credibile nella pur strepitosa sequenza in cui, tornato a Tokyo dopo la lunga prigionia nel villaggio del samurai, affronta e sconfigge spettacolarmente un gruppo di sicari spadaccini, dimostrando di aver assimilato tutte le lezioni sull'arte della spada (e sulla filosofia di vita) apprese dai samurai, e di padroneggiare alla perfezione non solo il corpo, ma anche la mente. E' vero che stiamo guardando un film dichiaratamente di fantasia, ma la sospensione dell'incredulità ha un limite, davanti a certe libertà: per andare oltre, bisogna ogni volta ricordarsi che gli autori mirano a ricostruire lo stile estremo della narrazione giapponese (animata o meno), e in quest'ottica va letta anche la capigliatura di Cruise, qui lunga e fluente, che in ogni scena risulta sempre perfettamente acconciata in impeccabili onde che ricadono ai lati, il capello pulito e luminoso come se fosse appena stato dal barbiere anche dopo una feroce battaglia terminata in sangue e fango (e nonostante il dialogo insista sul suo bisogno di farsi un bagno perchè puzza). Non è forse così che funzionano anche i capelli negli anime, e basta citare i Saint di "Saint Seiya" che anche dopo la peggiore delle battaglie sono sempre pettinatissimi?

  Come quello di Cruise è un personaggio le cui motivazioni e azioni risultano abbastanza prevedibili (e infatti capiamo nei primi 20 minuti che si schiererà a favore del samurai ribelle), così molti altri personaggi di contorno risultano tagliati con l'accetta, specialmente sul versante dei cattivi modernisti, affaristi e tecnologici (cosa che comunque mi trova d'accordo, dato che accade in ogni epoca, la nostra compresa, che i fautori del progresso se lo godano in quanto privilegiati, infischiandosene del prezzo che pagano coloro che invece vengono sfruttati e travolti da questo presunto "avanzamento" della società).

 A compensare queste carenze, nonchè una trama piuttosto esile e lineare (specialmente per 2 ore e 34 minuti di film), interviene la competenza del regista, che ci regala una splendida fotografia di ambienti rurali e urbani, numerose e generose sequenze di battaglie di massa mozzafiato, suggestioni naturali e misticheggianti di vario tipo (come la sequenza in cui i samurai a cavallo compaiono tra le nebbie del bosco), e un'accortezza nipponica (giustamente) nel dirigere le scene più intime e personali.

  Come la regia, anche la colonna sonora si concentra totalmente sull'aspetto eroico-romantico di questa epopea di fantasia, e raggiunge il culmine dell'efficacia nella disperata e straziante battaglia finale, dove le striminzite e forze ribelli, armate solo di spade e freccie e strategia, affrontano il debordante esercito imperiale, dotato di cannoni e mitragliatrici e un numero sterminato di soldati: tra un atto di valoroso sacrificio e l'altro dei ribelli, mentre il passaggio di consegne tra Katsumoto e Algren (che da nemici sono divenuti prima alleati e poi fratelli) si consuma nella sublime catarsi del gesto di intimità definitiva (il seppuku, la morte onorevole), l'intensità musicale raggiunge il massimo del lirismo, e la sua eco si protrae anche nella consolatoria scena finale in cui Algren, sopravvissuto alla battaglia, porta la spada e le parole di Katsumoto all'imperatore, facendogli finalmente trovare la forza per svolgere il proprio ruolo (e pensare al bene del popolo?), come dimostra il loro scambio di battute finale ("Dimmi come è morto", "Vi dirò come ha vissuto").

E così, invece del crepuscolo degli dei, oggi si è svolto il crepuscolo dei samurai, e la fine dolente di un'epoca è irrevocabilmente avvenuta, anche se almeno per il momento la gente comune ne sarà risparmiata: tutti noi sappiamo cosa ne è stato del Giappone in seguito, e non abbiamo quindi dubbi che si tratti solo di un rinvio, ma ci resta il dubbio che il film non ci ha aiutato a definire... quale dei due mondi avremmo scelto, tra lo spietato e profittevole progresso con tutti i suoi agi, e la semplice ma mendacemente idilliaca vita contadina in cui si muore in battaglia per un onore che non sappiamo definire?

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