giovedì 30 gennaio 2020

"Alexander" (2004)

 "Alexander" (2004), è un film storico e drammatico scritto e diretto da Oliver Stone.

Scheda di "Alexander" su wikipedia

 Alessandro III, figlio di Filippo II di Macedonia, gli succede al trono e inizia la sua campagna di conquiste dell'Egitto, della Persia e dell'India, diffonendo l'ellenismo in una vastità di culture e popolazioni, fino a essere eliminato dai suoi stessi generali, ansiosi di porre un freno al suo idealismo e di spartirsi il potere di quel colossale ma fragile impero.

 Ambizioso e molto schietto, il regista Oliver Stone fa poche concessioni al gusto del pubblico statunitense, e va apertamente controcorrente nel modo di raccontare la vita e le imprese di Alessandro Magno, insistendo sulla sua umanità e sulla conflittualità delle sue pulsioni, della sua psicologia, della sua sessualità e delle diverse influenze educative dei suoi genitori. La scelta di Stone di evidenziare la componente omosessuale degli amori di Alessandro (da Efestione allo schiavo persiano Baoga) è probabilmente ciò che ha ingenerato l'alzata di scudi del pubblico statunitense, scandalizzato dalla scarsa "moralità" di Stone e deluso dalla mancata edulcorazione in stile soapoperistico della materia, come invece era accaduto con il castrato film "Troy" (che narra proprio le gesta di Achille, sulla cui mitica figura Alessandro Magno modellò la propria esistenza, al punto di recare sempre con sè una copia dell'Iliade).

 Emotivamente tormentato fino all'ultimo, Alessandro insegue un ideale senza mai raggiungerlo, e più corre, più ha bisogno di correre, senza rendersi conto del prezzo che richiede al proprio esercito, formato da persone comuni incapaci di condividere la sua grandiosa visione. Perennemente "tradito" da chi lo circonda, andando dalla spietata madre Olimpiade ai suoi generali dell'esercito Macedone, fino alla moglie Rossane che non riesce a concepire un figlio, Alessandro è dipinto da Stone non come un invincibile e perfetto conquistatore semi-divino, ma come un uomo, con tutte le sue fragilità, incertezze e debolezze, con i conflitti affettivi irrisolti, con speranze che lo spingono avanti e delusioni che lo sconfortano. E' un ritratto sfaccettato in stile moderno, ma non dozzinale, che può deludere chi si aspettava un'epica celebrativamente fracassona e facilona.
 Paradossalmente, però, questa ambiziosa ricercatezza di introspezione si scontra con una certa inaccuratezza nella cornice, e cioè nella ricostruzione storica di alcuni aspetti visivamente cruciali della vicenda, come l'abbigliamento e l'organizzazione dell'esercito persiano di Dario III, ma anche l'improbabile etnia africana della prima moglie di Alessandro, Rossane (interpretata da Rosario Dawson), che era invece figlia del satrapo di Battriana (nell'odierno Afghanistan). Lo stesso Stone ha dichiarato di aver volutamente fuso le battaglie di Isso e del Granico nella battaglia di Gaugamela, per semplificare questo aspetto della narrazione, ed è difficile contestare questa scelta, considerando che anche così il film ha l'incredibile durata di 214 minuti nella versione "finale".

 Colossale e dispendioso nella ricostruzione delle due battaglie cruciali della saga (la già citata Gaugamela e quella del fiume Idaspe, contro il re indiano Poro) come anche nelle ambientazioni della Persia (da Babilonia alle montagne dell'Hindu Kush), il film è abile e incisivo nel rendere la dimensione epica dell'epopea dell'esercito macedone che, armato di convinzioni sul mondo destinate a essere riscritte, parte dalla piccola Macedonia all'esplorazione e conquista di territori remotissimi e popolati da civiltà e animali impensabili. E' la stessa dimensione che raggiunge la componente mitologica del film, con Alessandro che sin da giovane è iniziato sia dal padre che dalla madre ai volti misterici della religione greca: i Titani sepolti nel Tartaro, Zeus che uccide del genitore Crono, Medea e il sacrificio dei figli, la leggenda della paternità divina dello stesso Alessandro. Ben diverso è lo spessore degli insegnamenti del padre Filippo (il rito di passaggio all'età adulta simboleggiato dai miti più cruenti) e della madre Olimpiade (perennemente attorniata dai suoi amati serpenti, afferma di aver concepito Alessandro da Zeus, e per tutta la vita ne manipola le emozioni per mantenerlo sempre sotto il proprio controllo, impedendogli di giungere quindi a una vera maturità).

 La narrazione è strutturata su tre diversi livelli: nel presente, un anziano Tolomeo rievoca i propri giorni al fianco di Alessandro, in una narrazione degli eventi bellici che si alterna a flashback sulla giovinezza dello stesso Alessandro (i quali a Tolomeo non possono essere noti); in questi ultimi, sono  le voci di Filippo II e del filosofo Aristotele (precettore di Alessandro) a fare da ulteriore filtro narrativo, dopo quella di Tolomeo: lo scopo è quello di fornire allo spettatore gli strumenti per una comprensione completa della figura di Alessandro, dal versante militare a quello culturale, psicologico e introspettivo.

 Oltre che per le scelte narrative oneste e commercialmente impopolari, il film paga anche la presenza di un attore protagonista come Colin Farrell, un piccoletto irlandese e moro che poco si addice alla figura di Alessandro Magno che si è radicata nell'immaginario collettivo. Paradosalmente, però, Farrell è invece una scelta storicamente accurata, in modo quasi inquietante: basso, tozzo, con occhi di colore diverso e capelli rossicci che tingeva di biondo, il vero Alessandro Magno era ben diverso dallo stereotipo dell'eroe greco, biondo e atletico, e aveva in comune con Colin Farrell persino la voce aspra. Con la sua aria da cane bastonato, qui adeguatamente attenuata ma sempre presente, Farrell consegue perfettamente gli obiettivi di umanizzazione del mito che Stone si prefigge di conseguire, ma ha così scontentato il pubblico più grossolano.
 Nei panni dell'ambiziosa e intrigante Olimpiade, principessa dell'Epiro e presunta strega, Angelina Jolie incarna con gelida intensità il personaggio di una madre tanto spietatamente ambiziosa quanto morbososamente attaccata al figlio, sempre enigmatica nelle sue vere intenzioni, celate da un'espressione di bellezza indecifrabile che ben si addice al personaggio storico. La nomea di strega di Olimpiade è probabilmente il motivo per cui si è scelto di far invecchiare il personaggio solo con tocchi cosmetici secondari, senza appesantire il volto di Jolie con un pesante uso di trucco e protesi, rafforzandone l'aura enigmatica e misterica (non solo misteriosa). Jolie recita la propria parte con un bizzarro accento, scelto per sottolineare come Olimpiade sia una straniera, rispetto ai Macedoni di cui ha sposato il re; lo stesso dettaglio si ritrova nella parlata dei personaggi persiani, di Rossane, dell'eunuco Bagoas, per rendere in inglese l'effettiva commistione di lingue che Alessandro Magno e il suo esercito si trovò ad affrontare nel viaggio in Persia e India. Da notare anche il trucco delle lettere scritte da Olimpiade non in greco, ma in inglese, con un tipo di carattere che imita la spigolosità degli alfabeti antichi.
 Poco utilizzato, Anthony Hopkins interpreta il vecchio Tolomeo, che fu fra i successori di Alessandro e regnò sull'Egitto: il suo ruolo è quello di fornire una cornice narrativa che guidi lo spettatore lungo la vita di Alessandro, sottolineando quale sia la disponibilità di fonti oggettive su quell'epoca, oltre all'aspetto culturale che Alessandro portò con sè nel mondo (ogni città di  Alessandria da lui fatta costruire fu dotata di una biblioteca, la più famosa delle quali è proprio quella di Alessandria d'Egitto).

  Era dal 1980 che il cinema non proponeva la propria versione dell'epopea di Alessandro Magno, mentre l'animazione nipponica aveva proposto nel 1999 l'esoterica interpretazione di Alexander - Cronache di guerra di Alessandro il Grande, serie in cui certe scene mostrano una suggestiva  affinità con quelle del film di Stone (la cerimonia dell'apoteosi di Filippo come tredicesimo dio olimpico, l'ingresso a Persepoli, e la danza dell'esotica ballerina davanti alla corte di Alessandro).




lunedì 13 gennaio 2020

"mother!" (2017) - "madre!"

"mother!" (2017), in Italia "madre!", rigorosamente con la emme minuscola,  scritto e diretto da Darren Aronofsky, è un film in bilico tra il surreale, il drammatico e l'orrore, fortemente metaforico e visionario, che farà impazzire lo spettatore nel tentativo di decifrare il vero significato degli eventi che si dispiegano e dei simboli che lo intridono.

Scheda di "madre!" su wikipedia

 La giovane compagna di uno scrittore in crisi creativa, più anziano di lei, ha ricostruito da zero la casa di campagna di lui, distrutta da un incendio. Ciò che la giovane non sa, però, è che tutto il suo mondo, situato nel mezzo di una natura vergine, è scaturito letteralmente dalle ceneri, come anche lei, per opera di un misterioso cristallo pulsante che lo scrittore custodisce gelosamente nel proprio studio.
 La comparsa di un enigmatico estraneo, dai modi volgari e aggressivi, a lei molto sgradito ma inspiegabilmente accolto con calore da lui, altera il loro idillio solitario. Il visitatore viene raggiunto dalla moglie, che si rivela persino più maleducata e insolente di lui, e insieme i due violano la volontà dello scrittore, prendendo il suo prezioso cristallo e mandandolo accidentalmente in frantumi.
 Da quel momento, le visite di estranei si susseguono: prima, persone in visita per il lutto di uno dei due figli maschi della coppia di zoticoni; poi, i seguaci adoranti della nuova, bellissima fatica letteraria dello scrittore, interpretata da ognuno in modo diverso. Infine, il caos di gruppi politici, campi di sterminio, eserciti in guerra. Nella devastazione della casa ormai annichilita dalla pazzia di queste genti che transitano come maree inarrestabili, la giovane protagonista, dopo aver sopportato tutto stoicamente per amore del compagno, perde il figlio appena partorito e scatena una terribile reazione.

 E' quasi impossibile commentare questo film senza svelare gli intenti visionari e metaforici del regista: per più di un terzo della pellicola, Aronofsky ci fa credere di essere davanti a un thriller psicologico dai tocchi orrorifici, a metà tra Misery e Rosemary's Baby, con la protagonista incapace di comprendere il complotto che gli altri stanno tessendo alle sue spalle; poi, gli eventi precipitano in modo apertamente surreale e travolgente, assumendo una dimensione colossalmente storica ma circoscritta alle mura della casa, costringendo lo spettatore a interpretare attraverso un'altra ottica gli indizi finora raccolti, e a chiedersi se sia il caso di cercare un senso tradizionale per vicenda.
 Infatti, l'intera narrazione ha un tono fortemente onirico, e la logica dei sogni la fa pesantemente (e mirabilmente) da padrona, basti pensare a quando la giovane protagonista assiste a scene che per gli altri  non sono accadute, o quando le persone giungono alla sua casa in mezzo al verde senza traccia di veicoli (o di strade), o quando la casa in questione viene invasa continuamente da orde di estranei che ne dispongono come credono, anche con violenza, ignorando le proteste della padrona di casa, o quando la stessa casa si altera in maniera organica, quasi fosse il corpo di un essere vivente, nell'indifferenza di tutti.

 Ma alla fine, gli elementi significativi si separano da quelli squisitamente narrativi e deliberatamente fuorvianti, e le valenze dell'affresco concepito da questo allucinato regista si chiariscono: lo scrittore in crisi è il dio delle religioni abramitiche; la casa nel mezzo della natura verdeggiante è l'Eden; il primo visitatore è Adamo, raggiunto dalla moglie Eva con cui vìola il comandamento divino del "frutto proibito", rompendo il cristallo che non dovevano toccare; i due figli maschi sono Caino e Abele, col primo che uccide il secondo; l'opera dello scrittore è il testo sacro della religione rivelata; le folle di appassionati dello scrittore sono i fedeli di dette religioni; i disordini che seguono rappresentano il fanatismo religioso, il comunismo, il capitalismo, le grandi guerre, le pulizie etniche e ogni altro possibile eccesso dell'umanità; il bambino partorito da Gea, e offerto alla folla adorante che finisce per ucciderlo, è Gesù Cristo.
 E la giovane donna? La giovane donna è Gea (o la Terra, che lo scrittore chiama "mia dea" e che il film identifica come "madre" nel senso più globale di "madre Terra"), disperatamente tesa a tenere insieme un fragile ecosistema e a tollerare la brutalità e i danni che l'uomo, nel suo sterminato parassitismo, le infligge per il proprio capriccio egocentrico e individualista.

 Il film è stato sia celebrato sia disprezzato, dando origine a una netta divisione tra chi lo ha odiato visceralmente e chi lo ha adorato: fischi alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, candidature ai Razzie Awards, inclusione nella classifica dei 25 migliori film dell'anno dalla rivista Sight & Sound, recensioni professionali positive sui siti specializzati in critica cinematografica, pagine di Wikipedia che ne dicono apertamente bene in inglese e subdolamente male in italiano, e così via.
 Gli attori protagonisiti Jennifer Lawrence e Javier Bardem sono stati a loro volta lodati o stroncati con ferocia, spesso e volentieri per colpire non la loro recitazione, coerente e professionale, ma il contenuto dell'opera.

 E noi cosa ne diciamo?
Tecnicamente il film è di ottima fattura, con fotografia limpida, regia accurata nell'esporre solo il punto di vista esclusivo della frastornata Gea, narrazione che bilancia le sequenze di caos e violenza con i momenti lenti e introspettivi, dialoghi surreali quanto l'impostazione favolosamente onirica dell'intera vicenda, tematiche accuratamente mescolate, occhio attento alla moda del momento di presentare il patriarca come la causa di tutti i mali e la donna come vittima, conclusione con rivelazione del "mistero" allegorico che non viene fornita apertamente nel finale ma lasciata quasi tutta allo spettatore.
 Dal punto di vista complessivo, il film è una sfida difficile e frustrante, ma anche un'esperienza illuminante e trascinante, che costringe lo spettatore a immergersi nel punto di vista della protagonista, pur conoscendo un dettaglio cruciale che lei ignora (la scena iniziale della rigenerazione di tutto) e che in seguito viene apparentemente relegato a semplice fantasia (Adamo rompe il cristallo, ma non accade nulla, quindi forse la scena iniziale era solo un sogno). Come interpretare, quindi, la realtà contraddittoria e onirica in cui Gea è immersa? Come non cadere vittima dell'angoscia che la attanaglia, prigioniera com'è di un microcosmo da cui non sa come uscire, dato che ogni via logica le viene preclusa dalla follia degli altri? E, infine, come non esaltarsi nel momento in cui la rivelazione della colossale e frastornante allegoria ci coglie, trasformandoci in invasati adoranti (esattamente come gli appassionati dello scrittore) e spingendoci a riesaminare e interpretare tutti i momenti chiave della pellicola sotto una nuova luce?
 Lo scopo non è accettare il messaggio, che purtroppo è quello che ogni persona razionale ha già da tempo conseguito in autonomia esaminando spassionatamente la storia dell'umanità e i risultati a cui è giunta. Lo scopo è decifrarlo fino in fondo e vincere così la sfida lanciata dal regista.
 E ovviamente, in seguito, bisogna anche trovare la risposta alla domanda cruciale: stiamo parlando di una revisone della tesi gnostica?
 Il dio di questa narrazione, incapace di capire il dolore che il suo operato d'amore genera, è Ialdabaoth, cioè un essere incapace e quasi malvagio, corrotto dalla materia, creatore di un universo dolorosamente imperfetto e fallimentare, il quale deve continuamente essere azzerato nel fuoco perchè nulla funziona come il dio aveva progettato?
 E la presenza di Gea come divinità sua pari, e non come sua creazione, è un ritorno alle radici del politeismo babilonese cui la Bibbia ebraica attinge sin dall'inizio, con la dualità tra Yhaweh e l'Oscurità (Marduk e Tiamat nella mitologia babilonese)?

giovedì 9 gennaio 2020

"Primer" (2004)

 "Primer" (2004), scritto, diretto e interpretato da di Shane Carruth, è un film indipendente di vera fantascienza dei viaggi nel tempo, come mai se ne sono visti prima; una produzione modesta, a basso costo,  ma dotata dell'incommensurabile valore di coinvolgere intellettivamente, intrigare, far ragionare e farsi ricordare.

Scheda di "Primer" su wikipedia

Abe e Aaron sono due ingegneri legati da grande amicizia, che nel tempo libero lavorano con i colleghi in un'autorimessa-laboratorio in cui sperano di realizzare l'invenzione che li renderà ricchi. L'idea più audace di Abe, un generatore di campo che nega in parte la gravità, ha un effetto collaterale imprevisto: può spostare un oggetto in un anello temporale che va dal momento di attivazione a quello di spegnimento del generatore. L'oggetto, privo di volontà, riemerge sempre dall'anello al momento dello spegnimento. Ma che accadrebbe se nel campo entrasse un essere umano capace di decidere quando uscirne?
Un bel giorno, sotto gli occhi stupefatti di Aaron, Abe gli rivela di essere giunto dal futuro con questa tecnica, e gli mostra il "se stesso" del presente che si appresta proprio a entrare nella macchina che lo riporterà a sei ore prima. La logica causa-effetto è rispettata, a quanto pare: basta evitare di interagire col proprio doppio. E la strada alle manipolazioni del passato recente è aperta...

  Ovviamente mai presentato in Italia, questo film indipendente a basso costo brilla per originalità e atipicità, che gli conferiscono la forza e il fascino di un prodotto unico e irresistibile nella sua natura contemporaneamente grezza (dal punto di vista tecnico, volutamente semi-amatoriale)  e criptica (dal punto di vista dell'esposizione narrativa, volutamente realistica e di complessa decifrazione).

 Il tema è quello della scoperta della scienza/tecnologia dei viaggi nel tempo, raccontata con lo stile di un documentario, e incentrata sullo scenario estremamente realistico dell'effettiva genesi delle invenzioni rivoluzionarie, che nel mondo reale è stata più volte conseguita in un'autorimessa trasformata in laboratorio economico. A contribuire al "verismo" della vicenda vanno anche i dialoghi tra gli ingegneri, volutamente formulati in gergo tecnico, sincopati e non esplicativi, perchè si svolgono tra addetti ai lavori che non hanno bisogno di spiegazione; ma, soprattutto, è l'accuratezza realistica dell'idea del meccanismo del balzo temporale, corredata con varie regole e accortezze pratiche per riuscire a utilizzarlo in maniera adeguata (e senza morire), a convincere lo spettatore che la vicenda potrebbe accadere davvero.

 Girato con uno stile quasi dilettantesco, fatto di immagini sfocate, telecamera in movimento, sonoro a volte indecifrabile, il film è fortemente parlato, e deliberatamente involuto nel raccontare la parabola della scoperta scientifica in questione, con la successiva attuazione della stessa, in un crescendo di scene apparentemente quotidiane, ma tutte basate su spostamenti all'indietro nel tempo che producono un intreccio sempre più cerebrale e difficile da districare.

Schema esplicativo "definitivo" dei balzi temporali di "Primer"
 Questi "viaggi nel tempo" sono vincolati da una logica e da limiti ben precisi, e risultano quindi atipici per la fantascienza cinematografica (realizzata a uso e consumo del grande pubblico, non esattamente composto da gente brillante). Non a caso, i due protagonisti sono anche e soprattutto ingegneri, e possiedono quindi la metodicità necessaria per affrontare sotto tutti gli aspetti una faccenda così rivoluzionaria, non solo comprenendone empiricamente la fisica che lo sostiene, ma soprattutto  capendo come utilizzarlo (senza restarci secchi) al riparo di paradossi temporali, e prevedendo soluzioni alternative a qualunque eventualità che possa andare storta.
 Ma ognuno dei due personaggi agisce anche segretamente nei confronti dell'altro, e quindi le cautele prese da entrambi danno vita a una serie di colpi di scena e a un crescente accavallarsi di divergenze temporali (del tutto personali) che li spinge a prendere il posto dei loro "doppi" del passato per migliorare la linea temporale o correggerei cambiamenti da loro stessi indotti.
 Ad aumentare il realismo di questa narrazione di una vicenda dal tono così prosaicamente pionieristico, intervengono fattori incontrollabili, come le alterazioni biologiche e neurali che i loro corpi subiscono a causa della grezza tecnologia temporale utilizzata, gli improvvisi arrivi di "doppi" da un futuro ancora sconosciuto, e le incomprensioni caratteriali che li trasformano radicalmente, portando il primo a voler impedire la nascita della tecnologia temporale, e il secondo a volerla realizzare su grande scala.

Lo scarso capitale a bilancio e la produzione indipendente, causa della breve durata del film, sono probabilmente ciò che spinge il regista a condensare e riassumere oralmente troppi eventi della parte finale del film, quando emergono i segreti dei due protagonisti e la quantità di viaggi all'indietro nel tempo cresce esponenzialmente, ma resta monca delle motivazioni che hanno spinto i due personaggi non solo al viaggio, ma anche a tenere certi comportamenti: il risultato è di effetto, per lo sconcerto dello spettatore che deve reinterpretare certi indizi sotto una luce nuova, ma c'è anche l'inevitabile insoddisfazione della mancata spiegazione che è un requisito fondamentale per il tipo di spettatore che il regista ha scientemente selezionato con le sue scelte narrative.

 E' impossibile non trovare affinità con il nipponico Steins; Gate, altra intrigante e originale esperienza narrativa multimediatica che racconta analogamente la scoperta e l'uso privato della tecnologia dei viaggi nel tempo, con il conseguente generarsi di divergenze temporali in cui diverse
iterazioni degli stessi personaggi intervengono per modificare o rettificare gli eventi storici recenti.
 Le possibili parentele, però, si fermano qui, perchè il film, della durata di soli 75 minuti, non ha modo di sviluppare nel dettaglio le numerose ramificazioni che i viaggi nel tempo paralleli possono causare, e sceglie quindi di condensarle tramite l'artifizio di una voce narrante registrata su audiocassetta di uno dei protagonisti, che registra ogni conversazione per poterla poi replicare con la certezza di non introdurre variazioni nel flusso temporale: il risultato è che, mentre la trama diventa finalmente comprensibile, la narrazione degli eventi si condensa e accelera, ritornando a mettere alla prova la prontezza mentale dello spettatore che si è finalmente rilassato, costringedolo a tenere la mente vigile e partecipe fino all'ultimo secondo della pellicola.

martedì 7 gennaio 2020

"Maryland" (2015) - "Disorder - La guardia del corpo"

"Maryland" (2015), in Italia "Disorder - La guardia del corpo", diretto da Alice Vinocour e scritto da lei con Jean-Stéphane Bron, è un film belgo-francese in bilico tra nero, lo psicologico e il sociologico, nascosti dietro la facciata del thriller senza azione.


 Vincent, soldato dei corpi speciali francesi, soffre di disturbi post-traumatici che spingono i medici a negargli di partecipare ad altre missioni. Impiegatosi contro voglia sulla Costa Azzurra, come guardia del corpo della moglie di un ricco affarista libanese, si ritrova a fronteggiare una serie di tentativi di rapire la donna, mentre tiene a bada i crescenti disturbi che lo affliggono.

 Tecnicamente ben eseguito per la distaccata regia e la limpida fotografia, il film è diretto e scritto da una regista che mostra una certa ambizione stilistica nel voler costruire un'algida e impersonale narrazione incentrata quasi esclusivamente sulle immagini, trattando in modo quasi documentaristico il tema del disordine mentale nella vita "civile" dei soldati reduci.

 Ansiosa di raccontare la psicologia di un uomo come la racconterebbe un uomo, ma nello stesso tempo decisa a evitare tutti gli stereotipi hollywoodiani del film d'azione (azione che, infatti, è fortuntamente assente se non in pochissime scene di crudo realismo), la regista mette in scena il classico personaggio del colosso forte, silenzioso e un po' cupo, che affronta i propri problemi da solo, senza mai farne parola con anima viva, sforzandosi di tenerli sotto controllo con la medicina e la volontà: questo stereotipo, sebbene trattato senza giungere agli sviluppi più ovvi e beceri (il soldato che impazzisce e fa una strage), insieme a una sceneggiatura apparentemente un po' lenta, e alla suddetta regia fredda e lontana, finisce per respingere lo spettatore più impaziente, che non riesce a capire dove voglia andare a parare il film.
 La risposta a questa domanda non è immediata neppure per chi invece ne accetta la tecnica narrativa, e si lascia conquistare dalla sottile ma costante tensione visiva che si innerva per tutta la pellicola con la forza tipica del "non detto", e scorre letteralmente sotto la pelle del protagonista, il quale sembra sempre sul punto di cedere alle pressioni psicofisiche della sua malattia e a dare sfogo a una follia terribile su coloro che dovrebbero proteggere.
 Questo percorso si sviluppa in parallelo a quello professionale di Vincent, che svolge il proprio lavoro con ammirevole efficacia, a volte vittima di allucinazioni e trattato con scetticismo dai colleghi, più spesso costretto a da affrontare stoicamente individui mascherati in carne e ossa, che tentano di rapire la donna da lui protetta, e sempre senza mai un gemito di dolore nonostante le ferite e le batoste riportate.
 Credibile nella sua violenza cruda e non compiaciuta, credibile nelle tattiche adottate e nella prontezza di riflessi, credibile nelle conseguenze fisiche e psicologiche dei suoi disturbi, Vincent risulta caratterizzato in modo esagerato e sopra le righe solamente per via del suo ostinato silenzio, che va ben oltre la difficoltà di comunicare di un reduce militare.
 E' comunque questa sua situazione a portare alla catarsi finale; una catarsi introspettiva, fortemente anticlimatica, che mette in difficoltà gli spettatori in attesa di sviluppi più clamorosi: sempre arroccato nella sua solitudine, Vincent diventa consapevole che i suoi amici sanno della situazione che lui cerca di occultare, e tragicamente è costretto a rendersi conto di non poterla controllare, quando cede a una violenza sfrenata proprio davanti alla donna con cui sognava di iniziare una vita, proteggendo lei e il figlio.
 Ed è su questa amarissima nota di consapevolezza/illuminazione che si chiude il film, con Vincent che sceglie di restare solo con le proprie allucinazioni, ancora una volta senza chiedere aiuto, per il bene della donna (che pure sembrava finalmente voler quasi ricambiare) e del figlio di lei.

 Matthias Schoenaerts si cala con convincente intensità nel ruolo del nerboruto soldato silenzioso (ma sensibile), soggetto ad allucinazioni e dipendente da ansiolitici, prono a ira inconsulta ma nello stesso tempo affidabile e protettivo. Come da intenti della regia, Schoenaerts si muove sul filo del rasoio, dando l'impressione che il suo personaggio potrebbe in ogni momento rivolgersi contro gli stessi che vuole proteggere, ma rivelando anche il timido e impacciato desiderio di relazionarsi con gli altri (attratto dalla donna che protegge, ma sempre rigorosamente rispettoso; paterno con il figlio di lei, ma a volte troppo autoritario, come se emergesse il ricordo di una figura paterna scomparsa troppo presto).
 Diane Kruger, nel ruolo della bella moglie (oggetto?) del ricco libanese (decisamente pià anziano di lei), interpreta con fatica (e lesinando i dialoghi) un personaggio confuso e contraddittorio, che forse neanche lei sa come gestire, perchè sembra quasi cucito su misura per indurre certe reazioni nel protagonista: bella, giovane, moglie di un magnate, è inspiegabilmente senza amici, inutilmente fredda od ostile, incapace di godersi il benessere in cui è immersa, priva delle ambizioni che ci si aspetta in una donna arrivata a quel livello sociale, a volte ingenuamente ignara della situazione in cui si trova e a volte palesemente complice dei traffici criminali del marito (un mercante d'armi, si scopre in seguito) ma del tutto priva di motivazioni per una simile scelta.
 Gli altri attori interpretano tutti ruoli  minori, conferendo ancora una volta un aspetto anomalo di particolare interesse a questo film che riesce a raccontare la propria storia con un numero di attori da pezzo teatrale.

 Come la regia, anche la colonna sonora è minimale e si concentra a sua volta sul solo protagonista, escludendo tutti gli altri punti di vista: le musiche e i suoni sono quelli ambientali, o quelli metaforici che risuonano nella sua mente quando si scatenano le sue presunte turbe psichiche, e che confondono lo spettatore stesso, impedendogli di distinguere tra paranoia ed effettivo pericolo, finchè non è troppo tardi.

Il "Maryland" del titolo originale è il nome della villa sulla Costa Azzurra dove si svolge gran parte del film. La versione italiana è il solito affastellamento ridicolo di tutte tematiche del film in inglese e in italiano, per far capire agli spettatori tutto subito.

lunedì 6 gennaio 2020

"The Recruit" (2003) - "La regola del sospetto"

 "The Recruit" (2003), in Italia "La regola del sospetto", diretto da Roger Donaldson su soggetto di Roger Towne, Kurt Wimmer e Mitch Glazer, è un film di spionaggio divertentemente paranoico con l'immancabile venatura romantica.

Scheda di "The Recruit" su wikipedia

 Un giovane e brillante informatico viene notato da un reclutatore della CIA e si sottopone a lunghi giorni di duro addestramento in cui gli viene insegnato in ogni modo che le apparenze ingannano. Quando fallisce un test che gli causa l'espulsione, e si sente raccontare che la compagna di corso di cui si è invaghito è un doppio agente, il giovane sceglie di rientrare in gioco come NOC (agente sotto copertura non ufficiale) per individuare i suoi mandanti.

 Film di puro intrattenimento, senza nessuna pretesa di realismo, "The Recruit" si lascia vedere soprattutto per il divertente e continuo gioco di capovolgimento della situazione, come ben fa capire la versione italiana del titolo: ogni volta che il protagonista agisce secondo l'istinto (e gli ormoni), scopre di essere stato messo alla prova, e lo sconforto che lo assale è enorme, soprattutto visto il grande concetto che ha di se stesso. Ma cosa succede quando non c'è più la rete di sicurezza del corso dell'Agenzia, a salvarlo da errori fatali? Fino a che punto dobbiamo, noi spettatori, applicare la paranoia che il corso della CIA ha insegnato al protagonista? E' questa gara non dichiarata con il regista a mantenere viva l'attenzione per 115 minuti, con lo spettatore che cerca ossessivamente di interpretare ogni indizio e di costruire ipotesi alternative alla versione ufficiale dei fatti che anticipino il prossimo colpo di scena.
 E, alla fine, ovviamente, lo spettatore è appagato perchè i suoi sospetti sono stati tutti confermati. Questo semplice dettaglio dovrebbe confermarci che, in generale, questo film è di qualità non eccelsa, ma l'aspetto ludico continua ad avere la meglio e a farcelo comunque apprezzare per quell'enorme giocattolo cerebrale che è (e la cui stesura palesemente ha divertito moltissimo gli sceneggiatori). A ciò contribuiscono anche le colossali esagerazioni informatiche di software come Spartan o Ice-9, capaci di diffondersi attraverso la rete elettica o di accedere a qualunque computer senza neppure una tecnologia "bluetooth", tutte legittimate dalle continue citazioni a Kurt Vonnegut (scrittore famoso proprio per la sua fantascienza satirica).

 All'interpretazione volenterosa di Colin Farrell, la cui eterna espressione da cane bastonato triste è qui più azzeccata e necessaria che mai, si affianca la classica istrionia di Al Pacino, che delinea con la solita perizia un verboso istruttore della CIA capace di incarnare una figura paterna insieme a quella di un freddo docente e di un folle spietato e manipolatore.

 Regia e colonna sonora sono all'altezza degli obiettivi del film, onestamente coerenti e scrupolose, più interessate a creare un'atmosfera che a ricorrere agli effetti speciali o al sensazionalismo.

 Il ritmo della narrazione non perde colpi nel costruire la storia del protagonista e assemblare i tasselli di tutti gli inganni tessuti, e i dialoghi risultano credibili, definendo una caratterizzazione dei personaggi che (escludendo il protagonista, il cui punto di vista è quello più onesto della pellicola) appare convenzionale ma riesce a trarre in inganno lo spettatore quando serve.

Per quanto un impiegato della CIA, recensendo questo film, lo abbia definito "ridicolo" agli occhi suoi e di tutti i suoi colleghi, la sensazione che rimane dopo la visione del film è la stessa descritta da Morando Morandini, e cioè che la sceneggiatura abbia accontentato parecchie richieste provenienti da funzionari governativi.



venerdì 3 gennaio 2020

"The Informant!" (2009)

 "The Informant!" (2009), diretto da Steven Soderbergh e scritto da Scott. Z.Burns, è l'adattamento cinematografico del saggio di Kurt Eichenwald, che racconta la vera storia di Mark Whitacre, un dirigente aziendale che divenne segnalatore di illeciti (whistleblower) per conto dell'FBI. Raccontato con il ritmo di un giallo legale, assume però frequentemente i toni della commedia nera, e sviluppa parallelamente anche una componente biografica, indagando a fondo sulla contorta personalità del protagonista per portare avanti una critica socioeconomica di più ampio respiro.

Scheda di "The Informant!" su wikipedia

 Negli anni 1990, Mark Withacre, dirigente della multinazionale Archer Daniels Midland, decide di non poter più tacere sul cartello occulto delle multinazionali alimentari per aumentare il prezzo della lisina, e diventa un informatore dell'FBI. Ma, con un certo stupore degli agenti dell'FBI, la facciata etica dell'ingenuo Withacre cela un abisso di menzogne, peculato, paranoia e probabile disturbo della personalità.

 Con una regia e una fotografia curate e raffinate, che conferiscono studiatamente un'atmosfera da anni 1970 a questa vicenda ambientata negli anni 1990, il regista Steven Soderbergh sceglie dichiaratamente la strada dell'ironia (ma non della leggerezza) nel raccontare un dramma procedurale il cui protagonista parla, agisce e pensa come un idiota funzionale.
 Il contrasto tra la gravità della vicenda trattata (lo scandalo del cartello multinazionale per aumentare il prezzo della lisina a danno degli acquirenti di tutto il mondo) e la dabbenaggine del protagonista è però solo apparente: a Soderbergh interessa infatti non solo denunciare il prodotto finale del capitalismo che è alla base del sistema economico statunitense, ma soprattutto i risultati che esso ha comportato nel rovinare intere generazioni.
 Mark Whitacre incarna lo statunitense medio, il prodotto inevitabile di una società individualista che pone l'interesse della persona al di sopra di tutto: economicamente benestante, ma incapace di accontentarsi, è un divoratore bulimico di status symbol che nemmeno usa, ma che pur di ottenere è disposto a tutto; mentire su se stesso e sugli altri, intascare sistematicamente bustarelle, manipolare chiunque gli capiti a tiro con informazioni distorte, creare false prove documentali e via dicendo. Whitacre è incapace di vedere le proprie azioni come crimini, e le considera scusabili, perchè fatte nel sacro interesse della sua persona; come spiega più volte allo spettatore e ai coprotagonisti, lui è l'eroe della vicenda, il "cavaliere senza macchia" che combatte il male compiendo enormi sacrifici, e si aspetta quindi di essere ricompensato, festeggiato e ringraziato, alla fine; il fatto che i suoi crimini lo facciano diventare un indagato e che l'FBI si rivolga contro di lui gli risulta incomprensibile, un'inspiegabile negazione del suo cosmo narcisistico ed egocentrico in cui l'unico punto di vista che conta è il suo, ed è impensabile che qualcun altro possa adottarne uno diverso.

 Il film non è facile, proprio perchè il suo manifesto va progressivamente decifrato col procedere della narrazione, ricavando un significato da questa insolita commistione di generi e di toni, la quale può lasciare lo spettatore medio spiazzato. Allo stesso modo, va decifrato anche il protagonista: all'inizio, Whitacre risulta quasi rispettabile, nel suo essere ingenuotto ma onesto; sarà anche vacuo e ossessivamente consumista, ma dopotutto sta agendo in  modo retto e responsabile. Purtroppo, le prime crepe nella sua facciata si allargano in fretta, fino a far crollare il castello di bugie su cui l'intera esistenza di Whitacre è costruita, trascinandoci in un vortice di rettifiche che celanp altre menzogne, fino a cancellare il confine tra ciò che è vero e ciò che è falso.
 Soderbergh analizza vicenda e personaggi con metodo, drammatizzando liberamente ma coerentemente le parti più introspettive, e ci fornisce un ritratto spaventoso del frutto del "sogno americano", pur conferendo a ogni rivelazione un tono scherzoso (soprattutto tramite il commento sonoro, che diventa giocosamente beffardo o anche apertamente festoso, quando ormai qualunque spettatore ha smesso di cadere nel tranello delle contrite scuse di Whitacre, e sa che il dirigente sta ancora tacendo cose persino più inconfessabili). Per certi versi, il tono grottesco della pellicola ricorda quello di fratelli Cohen, ma senza essere fine a se stesso, più abile nell'ironia sottesa e soprattutto con la capacità di portare fino in fondo, senza ridondanze e sbavature, un effettivo discorso critico.

 Con un film così a tesi e rigorosamente pianificato, c'è forse poco spazio per il contributo degli attori, e infatti il cast è formato da nomi poco noti, con l'ovvia eccezione del protagonista. Matt Damon, ingrassato e con i baffi, e infine calvo, è una curiosa scelta per il ruolo di Whitacre, forse perchè molto distante dai suoi abituali personaggi, ma la sua interpretazione ne rende fin troppo bene l'animo meschino, egoista e querulo, e cattura alla perfezione lo spirito critico del film.
 Scott Bakula è l'unico altro attore noto, e la sua espressione eternamente tonta è anche quella che esprime nel modo migliore lo sconcerto dello spettatore nel sentirsi dire che la realtà in cui vive è fondata su questo genere di persone: dirigenti arraffoni ed egocentrici, e tutori della legge ben intenzionati ma sostanzialmente impreparati a gestire il livello di psicopatia che è ormai un requisito obbligatorio per i dirigenti delle multinazionali.