venerdì 18 ottobre 2019

"12 Monkeys" (1995) - "L'esercito delle dodici scimmie"

 "12 Monkeys" (1995), in Italia "L'esercito delle dodici scimmie", è un film di fantascienza diretto da Terry Gilliam e basato su un cortometraggio di Chris Marker.


 Visivamente ancora convincente dopo 24 anni, è un divertente e ritmato prodotto dalla narrativa solida, che riesce a ribaltare il becero stereotipo della definizione di "fumettone", solitamente applicata dalla critica a quei film che ritiene scadenti, e quindi confezionati secondo i criteri poveri e semplicistici della non-arte dei fumetti (e complimenti per lo snobismo e l'ignoranza in merito). Se c'è una cosa in cui il cinema di fantascienza raramente riesce a convincere, infatti, è proprio il tema del viaggio nel tempo, che per motivazioni di vario tipo  viene gestito in maniera particolarmente ignorante e contraddittoria (i motivi vanno dall'ingerenza semplificatrice dei produttori, solitamente troppo attenti al botteghino, fino alla storpiante esigenza di farsi capire da una platea molto vasta e variegata, che solitamente cerca un intrattenimento immediato, e non gode della capacità analitica, logica e di approfondimento che tipica invece dei poveracci che leggono i fumetti). Ecco invece che "L'esercito delle dodici scimmie" è costruito così bene, e soprattutto funziona così fluidamente, da potersi dignitosamente paragonare a un classico fumetto Marvel, o a un bel racconto di fantascienza dell'epoca d'oro statunitense, incentrato sui viaggi nel tempo: col suo canovaccio è infatti difficile non pensare a certe epopee dei Vendicatori o dei Fantastici Quattro degli anni 1970-1980, per non parlare di romanzi come "La fine dell'eternità" di Isaac Asimov.

 Tra gli elementi più intriganti del meccanismo narrativo, c'è il concetto della "storia" che avviene comunque, a prescindere dall'influenza esercitata dai viaggiatori temporali. Siamo quindi molto distanti da "A Sound of Thunder" di Ray Bradbury (a prescindere che abbiate letto il racconto, visto il film del 2005 o guardato il relativo ed esilarante episodio di "Treehouse Of Horror" di "The Simpsons"): i viaggiatori temporali non causano scompensi che si propagano come onde in uno stagno, ma sono invece travolti e annullati loro stessi dalla complessità della storia in cui piombano, cosa che il regista sottolinea ripetutamente e con grande logica (non ci vuole nulla a sbagliare "mira" nel viaggio temporale, considerando banalmente che la Terra si muove, ed ecco quindi che un viaggiatore può essere internato in un manicomio, oppure trovarsi nel mezzo delle trincee francesi della Prima Guerra mondiale, incapace di parlare la lingua locale, oppure diventare un profeta medievale che preannuncia eventi con troppo anticipo, e così via). Notevole è l'ultima telefonata che il protagonista Cole fa al numero dell'azienda di pulizie: apparentemente, essa non era parte del flusso temporale esistente (e infatti nel futuro gli scienziati la ricevono "dopo", come dice il viaggiatore temporale Josè), ma la sua presenza viene comunque metabolizzata dalla "Storia" e trasformata da potenziale fattore destabilizzante in fattore neutralizzante (è a causa sua che Cole muore e la "Storia" può proseguire nel suo drammatico percorso). Va notato inoltre che il ricordo d'infanzia del protagonista, che egli rivive in sogno come leitmotiv della storia, è a sua volta oggetto di alterazione: all'incirca al trentottesimo minuto, nel ricordo compare un uomo in fuga con valigia, il quale ha il volto di Brad Pitt; invece nel finale, quando la sequenza ha finalmente luogo "in diretta", l'uomo in fuga è abbigliato e pettinato allo stesso modo, ma è un altro personaggio della storia: si tratta quindi di una ulteriore alterazione indotta dalla presenza di Cole, oppure solo di una confusione tra ricordo e sogno?

 Per una discreta parte della pellicola, il regista gioca inoltre a farci credere che questo sia un film sul paradosso della predestinazione (che però forse all'epoca non era così di moda), salvo poi sbeffeggiarci nel finale, dove invece anche questa trappola viene evitata (a meno che non siate Asimov, difficilmente riuscirete a essere credibili nell'adottare questa soluzione), chiudendo la vicenda in termini malinconicamente fatalisti: sarà proprio per la filosofia di accettare con rassegnata calma una vita che non possiamo controllare, che il tono drammatico della pellicola viene improvvisamente alleggerito da situazioni ironiche più o meno esplicite ("You went to a party?") o da una colonna sonora agrodolce come può essere uno scherzoso brano di fisarmonica sovrapposto a momenti cruciali dello sviluppo della trama?

 A dare spessore alla (coerente) mutevolezza umorale di questa narrazione contribuiscono anche i tre attori principali, che dimostrano di aver ben compreso le intenzioni del regista: Bruce Willis passa in modo convincente da viaggiatore ossessionato dalla missione a poveraccio con la mente così obnubilata da credere (o voler credere) che tutta la vicenda sia solo frutto della sua psiche malata; Madeleine Stowe espone efficacemente la parabola di una scettica psichiatra che, davanti alle crescenti prove di una verità ben diversa dalle sue teorie, si fa progressivamente coinvolgere dalle presunte fantasie del suo paziente, fino a prendere le redini del comando per fare attivamente fronte alla situazione (sebbene uno spettatore smaliziato non possa evitare di porsi la classica domanda: ma questa non ha mai letto fumetti o romanzi di fantascienza, nè visto film del genere? O anche: possibile che nei film dell'orrore siano tutti così stupidi da non scappare alla prima occasione?); Brad Pitt è il più istrionico di tutti, nel mettere in scena un ricco, squilibrato e viziato giovinastro che è anche un fautore di ogni possibile teoria del complotto (e probabilmente si merita un applauso solo per aver memorizzato gli allucinanti e onnicomprensivi monologhi che snocciola a tutta velocità, sciorinando interpretazioni capaci di affermare tutto e il contrario di tutto). 

 Il regista utilizza il personaggio di Pitt per mettere in ridicolo ciò che lui stesso invece probabilmente propugna: infatti, la paranoica voce fuori campo che guida il povero Cole non viene mai spiegata completamente, ma, guarda caso, essa dimostra di aver ragione proprio quando sostiene una delle più futuristiche teorie del complotto (gli impianti di sorveglianza dei viaggiatori temporali sono nascosti nei loro denti), teoria anticipatrice che non è difficile associare a ciò che accade al giorno d'oggi a ognuno di noi quando incorporiamo ogni genere di tecnologia indossabile, per soddisfare un falso bisogno indotto dalla pubblicità, così condizionati da farlo anche a costo di sacrificare una crescente parte dei nostri stessi diritti (ma ovviamente ciò vale solo per il mondo "civilizzato" che può permettersi certi lussi, pagati sulla pelle di altri che invece non ne vedranno mai neppure l'ombra per tutta la loro miserabile vita).

 Visivamente, oltre all'idea liberatoria dell'eliminazione di cinque miliardi di esseri umani e alla pulizia della superficie planetaria, sono da segnalare i suggestivi e desolati panorami urbani spopolato del futuro, gli orripilanti formicai sotterranei in cui sopravvivono i superstiti, e gli altrettanto squallidi panorami urbani odierni in cui vive la fetta povera della popolazione (c'è poi davvero tanta differenza tra i due mondi descritti in questo film, si chiede Gilliam? L'umanità è solo capace di dividersi in una classe dirigente che vive irresponsabilmente e arrogantemente nel benessere, e una classe lavoratrice da sfruttare e brutalizzare?).

 Per l'angolo finale della citazioni: a parte l'omaggio esplicito e ben scritto a Alfred Hitchcock (di cui vediamo addirittura sequenze di "Vertigo" e "Gli uccelli"), a noi spettatori italiani sfugge invece la citazione di una delle Quartine del matematico arabo Omar Khayyam, tradotte e adattate in inglese da Edward Fitzgerald nel 1800, autore che le ha rese una parte fondamentale della letteratura britannica:
"Yesterday this day's madness
did prepare...
tomorrow's silent
triumph of despair.
Drink, for you know not
Drink, for you know not
why you go, nor where. "
(Non è difficile scorgere in queste parole proprio la trama e la filosofia del film!)

Chiosa finale: come osserva Morando Morandini, il titolo è una falsa pista, cosa assai rara nella storia del cinema.

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