"12 Monkeys" (1995), in Italia "L'esercito delle dodici scimmie", è un film di fantascienza diretto da Terry Gilliam e basato su un cortometraggio di Chris Marker.
Visivamente
ancora convincente dopo 24 anni, è un divertente e ritmato prodotto dalla narrativa solida,
che riesce a ribaltare il becero stereotipo della definizione di
"fumettone", solitamente applicata dalla critica a quei film che ritiene scadenti, e quindi confezionati secondo i criteri poveri e
semplicistici della non-arte dei fumetti (e complimenti per lo snobismo e l'ignoranza in merito). Se c'è una cosa in cui il
cinema di fantascienza raramente riesce a convincere, infatti, è proprio
il tema del viaggio nel tempo, che per motivazioni di vario tipo viene gestito in maniera
particolarmente ignorante e contraddittoria (i motivi vanno dall'ingerenza semplificatrice dei produttori, solitamente troppo attenti al botteghino,
fino alla storpiante esigenza di farsi capire da una platea molto vasta e
variegata, che solitamente cerca un intrattenimento immediato, e non
gode della capacità analitica, logica e di approfondimento che tipica invece dei poveracci che
leggono i fumetti). Ecco invece che "L'esercito delle dodici scimmie"
è costruito così bene, e soprattutto funziona così fluidamente, da potersi dignitosamente paragonare a un classico fumetto
Marvel, o a un bel racconto di fantascienza dell'epoca d'oro
statunitense, incentrato sui viaggi nel tempo: col suo canovaccio è infatti difficile non pensare a certe
epopee dei Vendicatori o dei Fantastici Quattro degli anni 1970-1980,
per non parlare di romanzi come "La fine dell'eternità" di Isaac Asimov.
Tra gli elementi più intriganti del meccanismo narrativo, c'è il
concetto della "storia" che avviene comunque, a prescindere
dall'influenza esercitata dai viaggiatori temporali. Siamo quindi molto
distanti da "A Sound of Thunder" di Ray Bradbury (a prescindere che
abbiate letto il racconto, visto il film del 2005 o guardato il relativo
ed esilarante episodio di "Treehouse Of Horror" di "The Simpsons"): i
viaggiatori temporali non causano scompensi che si propagano come onde
in uno stagno, ma sono invece travolti e annullati loro stessi dalla
complessità della storia in cui piombano, cosa che il regista sottolinea
ripetutamente e con grande logica (non ci vuole nulla a sbagliare
"mira" nel viaggio temporale, considerando banalmente che la Terra si
muove, ed ecco quindi che un viaggiatore può essere internato in un
manicomio, oppure trovarsi nel mezzo delle trincee francesi della Prima
Guerra mondiale, incapace di parlare la lingua locale, oppure diventare
un profeta medievale che preannuncia eventi con troppo anticipo, e così
via). Notevole è l'ultima telefonata che il protagonista Cole fa al
numero dell'azienda di pulizie: apparentemente, essa non era parte del
flusso temporale esistente (e infatti nel futuro gli scienziati la
ricevono "dopo", come dice il viaggiatore temporale Josè), ma la sua
presenza viene comunque metabolizzata dalla "Storia" e trasformata da
potenziale fattore destabilizzante in fattore neutralizzante (è a causa
sua che Cole muore e la "Storia" può proseguire nel suo drammatico
percorso). Va notato inoltre che il ricordo d'infanzia del protagonista,
che egli rivive in sogno come leitmotiv della storia, è a sua volta
oggetto di alterazione: all'incirca al trentottesimo minuto, nel ricordo
compare un uomo in fuga con valigia, il quale ha il volto di Brad Pitt;
invece nel finale, quando la sequenza ha finalmente luogo "in diretta",
l'uomo in fuga è abbigliato e pettinato allo stesso modo, ma è un altro
personaggio della storia: si tratta quindi di una ulteriore alterazione
indotta dalla presenza di Cole, oppure solo di una confusione tra
ricordo e sogno?
Per una discreta parte della pellicola, il regista
gioca inoltre a farci credere che questo sia un film sul paradosso della
predestinazione (che però forse all'epoca non era così di moda), salvo
poi sbeffeggiarci nel finale, dove invece anche questa trappola viene
evitata (a meno che non siate Asimov, difficilmente riuscirete a essere
credibili nell'adottare questa soluzione), chiudendo la vicenda in
termini malinconicamente fatalisti: sarà proprio per la filosofia di
accettare con rassegnata calma una vita che non possiamo controllare,
che il tono drammatico della pellicola viene improvvisamente alleggerito
da situazioni ironiche più o meno esplicite ("You went to a party?") o
da una colonna sonora agrodolce come può essere uno scherzoso brano di
fisarmonica sovrapposto a momenti cruciali dello sviluppo della trama?
A dare spessore alla (coerente) mutevolezza umorale di questa
narrazione contribuiscono anche i tre attori principali, che dimostrano
di aver ben compreso le intenzioni del regista: Bruce Willis passa in
modo convincente da viaggiatore ossessionato dalla missione a poveraccio
con la mente così obnubilata da credere (o voler credere) che tutta la
vicenda sia solo frutto della sua psiche malata; Madeleine Stowe espone
efficacemente la parabola di una scettica psichiatra che, davanti alle
crescenti prove di una verità ben diversa dalle sue teorie, si fa
progressivamente coinvolgere dalle presunte fantasie del suo paziente,
fino a prendere le redini del comando per fare attivamente fronte alla
situazione (sebbene uno spettatore smaliziato non possa evitare di porsi
la classica domanda: ma questa non ha mai letto fumetti o romanzi di
fantascienza, nè visto film del genere? O anche: possibile che nei film
dell'orrore siano tutti così stupidi da non scappare alla prima
occasione?); Brad Pitt è il più istrionico di tutti, nel mettere in
scena un ricco, squilibrato e viziato giovinastro che è anche un fautore
di ogni possibile teoria del complotto (e probabilmente si merita un
applauso solo per aver memorizzato gli allucinanti e onnicomprensivi
monologhi che snocciola a tutta velocità, sciorinando interpretazioni capaci di affermare tutto e il
contrario di tutto).
Il regista utilizza il personaggio di Pitt
per mettere in ridicolo ciò che lui stesso invece probabilmente
propugna: infatti, la paranoica voce fuori campo che guida il povero
Cole non viene mai spiegata completamente, ma, guarda caso, essa
dimostra di aver ragione proprio quando sostiene una delle più
futuristiche teorie del complotto (gli impianti di sorveglianza dei
viaggiatori temporali sono nascosti nei loro denti), teoria
anticipatrice che non è difficile associare a ciò che accade al giorno
d'oggi a ognuno di noi quando incorporiamo ogni genere di tecnologia
indossabile, per soddisfare un falso bisogno indotto dalla pubblicità,
così condizionati da farlo anche a costo di sacrificare una crescente
parte dei nostri stessi diritti (ma ovviamente ciò vale solo per il
mondo "civilizzato" che può permettersi certi lussi, pagati sulla pelle
di altri che invece non ne vedranno mai neppure l'ombra per tutta la
loro miserabile vita).
Visivamente, oltre all'idea liberatoria
dell'eliminazione di cinque miliardi di esseri umani e alla pulizia
della superficie planetaria, sono da segnalare i suggestivi e desolati
panorami urbani spopolato del futuro, gli orripilanti formicai
sotterranei in cui sopravvivono i superstiti, e gli altrettanto
squallidi panorami urbani odierni in cui vive la fetta povera della
popolazione (c'è poi davvero tanta differenza tra i due mondi descritti
in questo film, si chiede Gilliam? L'umanità è solo capace di dividersi
in una classe dirigente che vive irresponsabilmente e arrogantemente nel
benessere, e una classe lavoratrice da sfruttare e brutalizzare?).
Per l'angolo finale della citazioni: a parte l'omaggio esplicito e ben
scritto a Alfred Hitchcock (di cui vediamo addirittura sequenze di "Vertigo" e
"Gli uccelli"), a noi spettatori italiani sfugge invece la citazione di
una delle Quartine del matematico arabo Omar Khayyam, tradotte e
adattate in inglese da Edward Fitzgerald nel 1800, autore che le ha rese
una parte fondamentale della letteratura britannica:
"Yesterday this day's madnessdid prepare...tomorrow's silenttriumph of despair.Drink, for you know notDrink, for you know notwhy you go, nor where. "
(Non è difficile scorgere in queste parole proprio la trama e la filosofia del film!)
Chiosa finale: come osserva Morando Morandini, il titolo è una falsa pista, cosa assai rara nella storia del cinema.
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