mercoledì 14 dicembre 2022

The Nice Guys (2016)

 The Nice Guys (2016), diretto da Shane Black e scritto da Anthony Bagarozzi e dallo stesso Shane Black, è una commedia nera statunitense in cui si intrecciano azione, giallo e umorismo.

E' il 1977, e a Los Angeles l'investigatore privato Holland March (Ryan Gosling) e il picchiatore Jackson Healy (Russel Crowe) si scontrano casualmente, mentre il primo indaga sulla scomparsa della pornoattrice Misty Mountain e il secondo deve spaventare chi si è messo sulla pista di una tale Amelia Kuttner. Dopo i primi attriti, i due scoprono che c'è un legame tra il caso del primo e la mandante del secondo, e finiscono per collaborare nel dipanare quello che si rivela essere un intreccio sempre più complesso: dall'ambiente della pornocinematografia risalgono fino ai più alti livelli del Dipartimento di Giustizia, nonché all'ambiente dell'industria automobilistica di Detroit, in un sorprendente carosello di azione, colpi di scena, trovate e rivelazioni che stravolge le loro vite.

Il punto di forza di questo notevole film è la coppia di protagonisti, così radicalmente diversi fra loro (e quindi in costante conflitto) da funzionare meravigliosamente, come è richiesto nel genere cinematografico dei buddy cops, cioè film sulle coppie improbabili ma efficaci di poliziotti, legati da un'amicizia che si nasconde dietro i loro continui screzi. Non a caso, l'autore e regista è quello Shane Black che ha scritto anche il celebre Letal Weapon (1987), in Italia Arma letale. A questo elemento portante si sovrappongono con naturalezza altri strati di una narrazione ispirata, capace di essere brillante un momento, e tetra quello successivo, coinvolgendo con naturalezza le più diverse questioni che tenevano banco negli anni 1970.

Con una sceneggiatura compatta e fluida, che fila come un treno, servita da dialoghi affilati in cui la serietà si alterna al paradosso e a un umorismo che sconfina nel surreale, con momenti memorabili, il film ricostruisce con accuratezza l'epoca e la cultura degli anni 1970 a Los Angeles e, di riflesso, nel resto degli USA metropolitani, citandone le diverse facce in un gioco di richiami e contaminazioni che mescola realtà e finzione, immaginazione e sogno, coinvolgendo persino il personaggio di John Boy della serie televisiva The Waltons (Una famiglia americana), la quale andava per la maggiore all'epoca. Inarrestabile nel descrivere senza condannare apertamente, il film ha in serbo una dose di sberleffi per chiunque e per qualunque cosa, dai vertici delle istituzioni pubbliche a quelle private, giù fino al sottobosco della pornografia e al movimento dei giovani contestatori ecologisti (lasciandoci comunque sospettare che, per quanto confusi, abbiano ragione loro).

Nonostante il cinismo distribuito a piene mani, e il finale amaro della vittoria di Pirro contro una classe dirigente che è troppo avida e famelica per cambiare la propria natura, anche davanti all'evidenza dei danni che causa, il film ha una matrice consolatoria neanche troppo nascosta, che si incarna nella vivace e positiva (ma tutt'altro che perfetta) figlia adolescente dell'investigatore March, il cui apporto alla trama è fondamentale, soprattutto nei momenti comici e umani. Per quanto sconfitti sulla lunga distanza, i protagonisti hanno ottenuto una vittoria temporanea, più simile forse a una tregua che non altro, riscattandoli moralmente agli occhi della ragazzina, e ciò è sufficiente per far ripartire le loro vite.

Il divertimento e il coinvolgimento sono costanti, in questa vicenda che non ha mai un momento di stanca, ma incalza invece lo spettatore con continue evoluzioni narrative, o approfondimenti mirati di sicuro interesse, gestendoli con una regia sorniona, pacata e competente, la cui velocità narrativa è una firma autoriale, ben lontana dall'insensata e stordente frenesia simile al videoclip di cui soffre il montaggio di certi film analoghi.

La trovata surreale più memorabile di tutte, che bisogna sottolineare con forza, è quella relativa a Richard Nixon, presidente degli USA dal 1979 al 1974, famigerato per il sostegno del suo governo  al sanguinoso colpo di stato in Cile e per lo scandalo Watergate: come la serie animata The Simpsons, anche The Nice Guys trova il modo per mettere questo soggetto sottilmente alla berlina dando l'impressione di fare solo umorismo grossolano.

L'efficace alchimia tra i due attori protagonisti, elogiata dalla stragrande maggioranza della critica, è talmente preponderante che mette in ombra gli altri personaggi, eccetto ovviamente Holly March, la ragazzina figlia di Holland interpretata con grinta e varietà di toni da Angourie Rice. Da segnalare un ruolo minore per Kim Basinger, cinica dirigente del Dipartimento della Giustizia e madre snaturata, la quale si ostina a mantenere il suo look storico di fatalona sexy, che alla sua età forse stona un pochetto col ruolo che interpreta (o forse contribuisce invece a stigmatizzare proprio la falsità e l'egoismo di tale personaggio).

Lavorando secondo la stessa filosofia della luminosa regia con le sue ottime ricostruzioni visive degli ambienti e dell'estetica degli anni 1970, la colonna sonora adotta il tono esuberante e spensierato della cultura musicale di quegli anni, e offre numerose citazioni delle colonne sonore di diversi spettacoli televisivi di successo del'epoca. Questa scelta deliberata del compositore John Ottman, che accompagna la duplice caratterizzazione dei protagonisti nel creare un contrasto con il tono nero della trama e degli eventi portanti della narrazione, dimostra quanto il film sia stato felicemente concepito e sviluppato con chiarezza di intenti e armonia degli autori.





venerdì 11 novembre 2022

Gods of Egypt

 "Gods of Egypt" (2016), diretto da Alex Proyas e scritto da Matt Sazama e Burk Sharpless, è un film statunitense a tema fantamitologico.
 
 Stroncato ripetutamente e con motivazioni curiose, questo film è  da godere per quello che è: una classica avventura da videogioco, e quindi corredata di un barocco immaginario visivo fastosamente ibrido, con una solida trama strutturata secondo il classico schema del personaggio che, a causa della propria immaturità, deve ancora assurgere allo stato di eroe, e acquisisce tale consapevolezza solo dopo aver compiuto il percorso di caduta in disgrazia e redenzione, aprendo infine gli occhi sul vero significato dell'essere un dio.
 
Il mondo in cui ci si muove è quello variegato e contraddittorio della mitologia egizia, su cui gli autori si sono documentati con diligenza, sia per la connotazione degli dei, sia per gli eventi in cui sono coinvolti, sia per la molteplicità di versioni divergenti che in diverse epoche è stata data della stessa teologia, per motivi quasi sempre politici. E' intelligente l'utilizzo della doppia natura della dea dell'amore Hathor, che mantiene anche il volto di signora del mondo dei morti, in una trovata narrativa "originale" che giustifica questa doppiezza legandola alla trama. E' ben trovato il momento in cui Ra convoca il figlio Set per comunicargli di averlo scelto come erede del fardello del tragitto solare, coerentemente  con il mito secondo cui Set, per quanto visto come divinità negativa, accompagna Ra nella sua missione quotidiana di difesa del mondo. Inevitabili sono le scelte specifiche tra le varie versioni del mito: per esempio, la suddetta Hathor è vista qui come la compagna di Horus, e si ignorano quindi le varianti in cui è invece sua madre. Il dio solare Ra, qui riconosciuto come divinità al di sopra di tutte le altre (e quindi nella sua incarnazione di Amon-Ra, nata durante la XII Dinastia), risiede oltre la stratosfera, naviga su una grandiosa barca celeste che rappresentare il tragitto diurno del sole, e deve quotidianamente scontrarsi con Apopi, la mostruosa incarnazione della notte e del caos. Ra è presentato come il padre di Set e Osiride, sebbene tradizionalmente ne sia il fratello: esiste comunque una tarda variante del mito in cui Ra sarebbe il vero padre di Set.

Il soggetto della storia è estremamente classico, e attinge alla mitologia nota, sviluppandola in maniera tecnicamente divergente, ma ampiamente consolidata nella narrazione di tipo supereroistico e/o avventuroso. E' una trama fortemente lineare, sebbene narrata in un modo corale che richiede un minimo di sforzo mentale per ricavare le chiare connessioni narrative (senza che il dio di turno debba continuamente esibirsi in uno spiegone per aiutare i bambini meno svegli). Il geloso e sterile Set, dio del deserto e della violenza, uccide il fratello Osiride e la cognata Iside, acceca il nipote Horus e prende il potere sull'Egitto, ma questo è solo l'inizio: impossessandosi degli organi vitali più importanti degli altri dei (dalle ali della propria sposa all'occhio di Horus, passando per il cervello di Thoth), ambisce a raggiungere un livello di potere che gli consentirà di vivere in eterno e ricreare il mondo da zero, dopo averlo fatto consumare da Apopi. La prospettiva umana di questo colossale scontro divino è rappresentata dal ladruncolo Bek e dalla sua sfortunata compagna Zaya: partecipi dell'intrigo per restituire il potere a Horus, il loro ruolo più importante (che però non li rende illogicamente più furbi o potenti degli dei) è quello di fungere da catalizzatori per la presa di coscienza etica da parte delle divinità protagoniste.

 Come tipico nelle produzioni Hollywoodiane, i siparietti umoristici hanno un ruolo non indifferente, che va dagli scambi di battute e frecciatine bisbetiche tra dei e umani fino al sarcasmo di Hathor, che preferisce una spaventosa gita tra i demoni dell'Oltretomba alla fatica di camminare nel deserto. Assai esasperata è l'istrioneria dell'onniscente Thoth, che riesce a essere il dio più comico del film, ma anche quello con il più profondo talento analitico, in un convenzionale ma ben riuscito contraltare (che, su diversi livelli, caratterizza necessariamente tutte le divinità del film).
 
 La componente digitale ha successo nel creare ambientazioni baroccamente egizie e irresistibilmente evocative nella loro sfavillante opulenza di palazzi, georglifici, oro e pietre preziose, ma zoppica più di una volta nell'animare i mostri colossali e le agitate e feroci sequenze di battaglia, dove la risoluzione dei dettagli sembra perdersi per strada. Convince poco anche la trasformazione degli dei dalla forma umana a quella di animali antropomorfi metallici, per via dell'eccesso di "fantascientificità" delle loro figure, molto distante (forse troppo) dall'iconografia bidimensionale a cui siamo abituati (è anche vero che sarebbe stato difficile usare questa iconografia per inscenare le ambiziose battaglie aeree con cui i produttori del film miravano a ottenere il tipico spettacolo smargiasso e fracassone dei film di Hollywood).

 Tra gli attori spiccano Gerald Butler (il cui "malvagio" Set, per quanto esaltatamente spietato, ha i suoi credibili momenti in cui lo spettatore può provare un minimo di empatia), Élodie Young (una Hathor capace di passare dall'acido sarcasmo al sacrificio supremo in nome del proprio ruolo divino) e il veterano Geoffrey Rush (un solenne, ma nello stesso tempo amorevole e giusto, dio Ra che è "padre di tutti"). Molti altri film dimostrano quanto sia difficile rendere la caratura di una divinità, proiettata su piani dell'esistenza incomprensibili ai mortali, eppure incarnata in un corpo fisico, e quindi soggetta ai capricci dell'umore e della fisicità: gli attori di Gods of Egypt ci riescono con efficacia, facendo propri certi dialoghi che, in un altro contesto, sarebbero ridicoli, ma qui illustrano invece la sfaccettata complessità dei molteplici volti di ogni divinità, con alcuni tocchi memorabili come quando Horus fa pesare la propria divinità sul ladruncolo mortale Bek, oppure quando Ra sentenzia ieraticamente e onniscientemente nelle situazioni di crisi che deve affrontare.

A fronte della natura piuttosto schietta del film, che mira chiaramente a intrattenere senza altre pretese, puntando sull'evocazione suggestiva e spettacolarizzata di un mondo di fantasia (come tutti i mondi basati su credenze religiose), la cui iconografia è saldamente parte dell'immaginario collettivo, non si capisce quindi la corsa alla stroncatura delle recensioni presenti su internet, basate quasi sempre su motivazioni acidamente pretestuose e poco consistenti, tanto da far pensare a un'operazione concertata a tavolino per far affondare il film.
 Che senso ha, se non quello della capziosità, contestare aspetti risibili come l'etnia degli attori di un film che non solo è stato prodotto a Hollywood, negli Stati Uniti, ma è anche ambientato in un'epoca fittizia, mai esistita, in cui può letteralmente essere accaduto di tutto? Sembra di assistere a una replica della solita farneticazione di certi gruppi che sostengono ideologicamente che gli Antichi Egizi dovevano essere per forza tutti quanti neri come i Nubiani, perché in Africa ci sono solo neri-neri (si vedano le crociate Afrocentriche contro il videogioco Assassins Creed Origins). E veramente qualcuno contesta l'assenza di accento mediorientale, come se gli dei egizi parlassero davvero in inglese? Nessuno di questi denigratori si è reso conto che si tratta di un film implicitamente "doppiato", come accade per tutti i film storici o fantastici ambientati in regioni non anglofone?
 Non può mancare l'immarcescibile e sprezzante paragone con i videogiochi, come se ciò svilisse il film: noi l'abbiamo usato, ma in senso opposto, perché consci dell'elevatissima qualità narrativa che è stata raggiunta dai videogiochi moderni, in termini di documentazione storica, solidità delle trame, complessità delle caratterizzazioni, accuratezza delle ambientazioni. Cosa aspettano i presunti recensori, che vorrebbero  essere più competenti e illuminati del volgo, ad abbandonare l'uso di questo presuntuoso, datato e ormai falso luogo comune come pietra di paragone negativa?
 E' imbarazzante anche leggere i commenti sdegnati di chi puntualizza che l'architettura di questa immaginaria età dell'oro egizia, nella quale gli dei e gli umani coesistevano, presenta impossibili soluzioni sviluppate solo in seguito e da altri popoli: c'è davvero bisogno di spiegare che questo film è una storia di fantasia, che non è mai accaduta, e che gli dei egizi in carne e ossa alti due volte gli esseri umani non sono mai esistiti e non hanno mai convissuto con l'umanità, e quindi neanche le loro favolose città sono mai esistite? Che senso abbia reclamare un realismo architettonico e storico, in un contesto del genere, lo può sapere solo chi si nasconde dietro queste scuse fittizie per stroncare il film, occultando altre motivazioni faziose e inconfessabili.
 Altrettanto desolante è l'impreparazione dei recensori improvvisati che contestano al film il tradimento della mitologia egizia: oltre a ignorare la complessità e la contraddittorietà della stessa (come abbiamo già spiegato in precedenza), sembra proprio esserci una lacuna colossale sull'argomento, tanto da far pensare che la stroncatura faccia affidamento sul pregiudizio deliberato del lettore, nonché sulla sua superficialità. Incredibilmente, c'è chi ha autorevolmente dileggiato la raffigurazione di Ra, lasciando intendere che un tizio su una "astronave" che combatte un "mostro/demone" è una specie di baracconata del tutto avulsa dal contesto: eppure, al lettore prudente basta consultare Wikipedia per scoprire come essa sia aderente al personaggio (e lo abbiamo già detto), e quindi per farsi venire qualche dubbio sulla sincerità e l'affidabilità della stroncatura dell'esperto di turno.

lunedì 7 novembre 2022

"A Monster Calls" - "Sette minuti dopo la mezzanotte"

 "A Monster Calls" (2016), in Italia "Sette minuti dopo la mezzanotte", scritto da Patrick Ness e diretto da Juan Antonio Bayona, è un film fantastico e drammatico di una coproduzione statunitense-britannico-spagnola, basato sull'omonimo romanzo scritto proprio da Patrick Ness.

 Il dodicenne irlandese Connor O'Malley vive un'adolescenza difficile, tra la madre gravemente malata, il padre assente e divorziato che vive negli Stati Uniti, l'algida nonna che pensa solo al lavoro e i compagni di classe che lo bullizzano. Incapace di elaborare il dolore e i propri sentimenti, Connor riceve aiuto dal proprio inconscio, che si manifesta nei suoi sogni a occhi aperti sotto forma di un colossale mostro arboreo, forma umanizzata di un albero di tasso che sorge in un cimitero vicino alla casa di Connor. A ogni sua visita notturna, il mostro racconta a Connor un ingannevole racconto fantastico e moraleggiante, che funge da catalizzatore catartico e che serve al ragazzino per affrontare (in maniera drammatica e violenta) i propri blocchi psicologici, nonché a elaborare le emozioni che sta reprimendo (e che si risolvono nella forma di un ultimo racconto, opera dello stesso Connor).

 Con i toni della favola (certi eventi estremi causati da Connor nella "realtà" non hanno le conseguenze che la logica e la legge richiedono), questo complesso film è un racconto del passaggio all'età adulta (o se si preferisce una definizione impropria, ormai costantemente abusata e usata a sproposito, un "romanzo di formazione"), classico dal punto di vista del concetto, ma narrato in maniera originale, e arricchito da un'insolita venatura gotica, densa di simbolismi e simmetrie. L'albero di tasso, che qui si presenta al ragazzo come albero curativo, è un albero velenosissimo, ma una sua molecola è effettivamente usata anche per terapie mediche antitumorali, e sorge in un cimitero (che nel mondo onirico è l'ossessione di Connor, nonché il luogo della sua catarsi); dal mostro non giunge la cura per la madre malata, come spera Connor, ma piuttosto la cura per la psiche dello stesso Connor, la quale culmina proprio con l'inevitabile morte della madre; costei, lungi dall'essere una semplice vittima della vicenda, è in realtà fattrice della salvezza del figlio, perché, come si scopre nel finale, la figura del mostro-albero scatturisce proprio dal lascito culturale e immaginario che lei gli ha amorevolmente trasmesso con il proprio talento artistico. Sono da notare anche le numerose e variegate annotazioni, che vanno dalla sfaccettata caratterizzazione del protagonista (tutt'altro che una semplice vittima da compatire stucchevolmente, ha invece i suoi difetti e lati oscuri) alle convinzioni culturali dell'autore (non importa quali disastri combini, Connor non viene mai punito dagli adulti, che di fronte alla sua domanda "non sarò  punito?", danno sempre la programmatica risposta "A che scopo?).

 In questo interessante impianto narrativo, di per sé già accurato e ragionato, notevoli sono i tre racconti del mostro, sia per la concezione di ambigue fiabe dove il bene e il male sono difficili da riconoscere, sia per l'esecuzione tecnica: si tratta infatti di sequenze animate con una tecnica stilizzata e impressionista, molto evocativa e incisiva, che riflette con efficacia il messaggio trasmesso dalle storie. Nel percorso di acquisizione dell'autoconsapevolezza del protagonista, quindi, rientrano anche le scelte tecniche come questa, apice di una regia competente, le cui cupe scelte visive e cromatiche e la cui fotografia dimostrano una profonda comprensione del testo che vogliono narrare.

 Nel ristrettissimo gruppo di attori, il giovanissimo scozzese Lewis MacDougall (classe 2002) svolge un ottimo lavoro, aiutato anche dalla sua peculiare fisionomia, nel raffigurare il bizzarro e indecifrabile protagonista, col suo carattere chiuso e ostico. Nei panni dell'efficiente e gelida "nonna in carriera" c'è nientemeno che Sigourney Weaver, attrice che pur essendo del 1949, è sempre così in forma da essere poco credibile nei panni di una nonna (a meno che la figlia non abbia al massimo 22 anni), e per metà del film ci si aspetta che butti via le palandrane per imbracciare un lanciafiamme e bruciare il mostro-albero. Quest'ultimo, notevolmente ben visualizzato dalla grafica computerizzata, vanta il notevole apporto della voce cavernosa ed evocativa di Liam Neeson, che gli conferisce la giusta dimensione di solenne e sfuggente creatura ancestrale, a metà tra il genius loci e l'archetipo psicanalitico.

mercoledì 19 ottobre 2022

"Butch Cassidy and the Sundance Kid" (1969) - "Butch Cassidy"

 "Butch Cassidy and the Sundance Kid" (1969), in Italia "Butch Cassidy", scritto da William Goldman e diretto da George Roy Hill, è un film statunitense liberamente basato sui fatti storici della vita (e morte) dei due celebri fuorilegge del selvaggio West, Robert LeRoy Parker, noto come Butch Cassidy e Harry Longabaugh, il "Sundance Kid".

 La  storia della critica di questo film rispecchia l'evoluzione del giudizio dello spettatore medio dopo la prima visione, che è acilmente di tipo sconcertato a causa delle spiazzanti e numerose trovate che ne caratterizzano la natura abbastanza unica (se si escludono gli emuli degli anni a venire): si va infatti dalla reazione iniziale, di stroncatura senza appello (con paragoni alla serie televisiva Batman del 1966), fino alla rivalutazione che lo portò all'undicesimo posto delle 101 migliori sceneggiature di film della Writers Guild degli Stati Uniti d'America (che, modestamente, in originale si fa chiaramare Writers Guild of America).

 Il motivo della prima reazione è da cercarsi nelle aspettative che questo film ingenera, visto che si tratta tecnicamente di un film del genere Western avventuroso biografico (classificazione italiana) che dovrebbe quindi tradursi in una narrazione seria, dura ed epica. Queste aspettative si scontrano ben presto con la sua effettiva natura di Western Buddy (classificazione statunitense), cioè di film sull'amicizia virile, declinata tanto nei toni avventurosi quanto e soprattutto in quelli assai spiazzanti della commedia brillante, con dialoghi umoristici che sconfinano nel dissacrante e una sconcertante colonna sonora volutamente decontestualizzata (con il picco conteso tra Raindrops Keep Fallin' on My Head e il brano a cappella South American Getaway). Lo spettatore è però messo in guardia già nella dichiarazione in apertura, secondo la quale "quasi" tutto ciò che racconta il film è vero. La componente biografica della classificazione italiana, infine, va presa con le pinze, dato che nel trasformare i due fuorilegge in simpatici antieroi, per forza di cose, è necessario edulcorare parecchi elementi storici (in particolare, il film sfiora solo brevemente la storia del Mucchio Selvaggio, la banda di Butch Cassidy e Sundance Kid, che si rifugiava insieme ad altre bande di fuorilegge nel passo Hole-In-The-Wall).

 Il film è stato prodotto nel 1969, e non può quindi che appartenere al crepuscolo del genere Western, e nella sua iconoclastia beffarda è anche inevitabilmente contaminato dallo spirito sessantottino dell'inno all'anarchia: infatti i due simpatici protagonisti sono fuorilegge e rapinatori che vivono in maniera spensierata e ironica la loro condizione di ladri, al di fuori delle regole della società, e nel finale vanno incontro alla morte con una miscela di spirito umoristico e di "eroismo" che li eterna nell'immaginario, celebrandoli come figure memorabili per la loro ribellione al sistema, in una sequenza conclusiva che è memorabile per l'epoca, e infatti fu e viene continuamente "cannibalizzata" da innumerevoli altri film, fumetti e romanzi.

 E' questa chiave di lettura che porta a rileggere e rivalutare il film, comprendendo finalmente (anche se in ritardo, e richiedendo una seconda visione) le intenzioni dello sceneggiatore e del regista di andare oltre gli schemi convenzionali del film Western (comunque già sfidati, contaminati e ampliati anche da altri registi). Il contrasto e il ribaltamento di ruoli sono una costante della narrazione, della caratterizzazione, della lettura storica: la posse di sceriffi, giudici e guide indiane che bracca i due fuorilegge, implacabile e inarrestabile come un Terminator, ci appare come una congrega di fanatici e violenti, in opposizione alla galanteria bonaria dei due rapinatori; le peripezie dei due personaggi hanno un tono picaresco che salta dal drammatico all'umoristico al surreale (quando Sundance Kid trova Butch Cassidy che corteggia la sua donna, Etta Place, prima gli chiede spiegazioni, poi gli dice di tenersela e farne ciò che vuole); Butch Cassidy, il "genio" delle rapine al treno, dalla parlantina sciolta e dalla reazione sempre pronto, è anche lo stesso che sperimenta il nuovo veicolo, la bicicletta, per divertirsi buffonescamente e a lungo Etta Place, accompagnato dalla canzone Raindrops Keep Fallin' on My Head, che porta il film a invadere il campo del musical romantico; la decisione di Butch Cassidy e Sundance Kid di mettere la testa a posto in Bolivia, diventando guardie giurate che scortano i trasporti di valuta, sfocia nei loro primi omicidi a sangue freddo, lasciandoli entrambi amareggiati; e ancora, l'esercito boliviano che si raduna per porre fine alle scorrerie di questi due ladri aprendo il fuoco in massa e in maniera feroce, appare come la risposta spropositata di una legalità dispotica e oppressiva fino all'omicidio ingiustificato, che i due affrontano a testa alta con un valore e una tenacia che li fa passare per eroi vittime di un potere tirannico; alla fine, l'amicizia dei due protagonisti rappresenta la vera e unica forma di umanità del film, contrapposta ai gelidi e sterili rapporti esclusivamente utilitaristici che si istaurano invece tra tutti i personaggi che stanno dall'altra parte della barricata (imprenditori, funzionari pubblici, dipendenti, militari, banchieri e via di "sistema").

 Il film vanta due attori celebri come Paul Newman e Robert Redford, ripetutamente lodati per la loro interpretazione, i quali effettivamente riescono nell'impresa di conciliare e rendere i due volti contrapposti dei banditi che impersonano (quello bonariamente beffardo della vita privata e quello furfantesco dei loro colpi senza vittime), conciliandoli in modo credibile. E' però difficile prenderli davvero sul serio, per via dell'aspetto un po' troppo patinato e curato delle loro persone, sempre impeccabili anche dopo giorni di fuga dalla legge in mezzo alla natura selvaggia, da divi quali sono (naturalmente anche qui siamo nell'ambito della mutevolezza voluta di un film che usa il realismo avventuroso solo quando serve). 

 La regia, dedita a dare il massimo a un progetto in cui crede sentitamente, si impegna infatti a fondo per elargire immagini estremamente curate e per sfruttare a pieno le numerose ambientazioni esterne in cui è girata praticamente tutta la pellicola, lontana dagli scenari prefabbricati e sensibilmente falsi di Hollywood. Da segnalare, in quest'ottica, la sequenze di montaggi d'epoca, virati sul seppia, di filmati veri dell'epoca Western mescolati a materiale appositamente girato e quasi indistinguibile dalle vere immagini degli anni 1910-20 (se non per la presenza degli attori): è un altro elemento che contribuisce a sottolineare i contrasti di cui vive il film, insieme alla sequenza "muta" delle scorribande in Bolivia (con le forze dell'ordine che inseguono i due fuorilegge in modo crescentemente comico, fino alla riproposta dello stesso filmato, ma specularmente invertito) ,punteggiata dalla beffarda e giocosa colonna sonora di South American Getaway, eseguita da un gruppo armonico vocale.

domenica 9 ottobre 2022

Locke (2013)

"Locke", scritto e diretto da Steven Knight, è un sorprendente film britannico del 2013 con un solo attore in scena.

Chi frequenta il mondo del fumetto giapponese, probabilmente conosce il manga o l'anime di Glass No Kamen, che dal 1976 racconta le peripezie di una talentuosa ma sfortunata ragazzina che vuole affermarsi come attrice. Tra le varie avversità che affronta, la protagonista si trova un giorno a dover salvare uno spettacolo teatrale andando in scena da sola, senza i colleghi attori, e recitando in modo tale da trasmettere al pubblico con chiarezza, non solo la vicenda, ma anche le atmosfere e le emozioni, dalla tensione all'umorismo al mistero. Incredibilmente, la ragazzina ci riesce e ha un enorme successo.

Il film Locke si basa sullo stesso principio: al termine di una giornata di lavoro, il capocantiere Ivan Locke (Tom Hardy), all'indomani di un momento cruciale per un'impresa colossale per la sua azienda, sale sull'automobile e parte per una località sconosciuta. Da questo momento, la telecamera segue e inquadra soltanto lui, per un'ora e venticinque minuti di viaggio notturno, durante i quali Locke fa una serie di telefonate che, progressivamente, ci raccontano la sua situazione familiare e lavorativa, mentre il mistero della sua improvvisa dipartenza si svela un tassello alla volta, e Locke deve affrontare le due crisi che ne scaturiscono, in quanto rischia di perdere non solo il lavoro, ma anche la famiglia. Nel crescendo di tensione generato dalla conclusione di ogni telefonata, che lascia lo spettatore in attesa, e curioso di saperne di più, si delinea anche la psicologia del personaggio, nei suoi rapporti con la moglie, col figlio, con i colleghi di lavoro (e amici), con il padre defunto (nelle scene in cui parla da solo, rivolgendosi al genitore e svolgendo un'autoanalisi biografica), e con la persona che lo attende alla meta del suo viaggio.

Come ha detto un critico, questo è un film da gustare di sera, al buio, nel silenzio di un cinema piccolo o di una stanza ben isolata dal resto del mondo, per poterne apprezzare la grande qualità complessiva di costruzione e atmosfera, immergendosi sempre di più nella sfida e nelle difficoltà del protagonista. Non c'è solo la solida sceneggiatura, che gode di una scrittura compatta, cristallina e senza sbavature, ma anche e soprattutto la notevole prova della recitazione di Tom Hardy, che deve rendere tutte le sfumature del suo complesso personaggio (un uomo che ha commesso un errore in passato, se ne addossa tutte le responsabilità e le affronta, pur sapendo di perdere tutte le conquiste di una vita, e ciò nonostante si impegna anche per rispettare tutti gli impegni presi col lavoro e con la famiglia) e degli altri attori che non compaiono neppure in scena, e devono interpretare i propri personaggi come in un dramma radiofonico, raccontandone la crisi, le reazioni e la psicologia col solo aiuto della voce. La regia, che sulla carta sembra non esistente, è in realtà un altro elemento fondamentale: con le poche inquadrature a disposizione, racconta visivamente il personaggio rafforzandone l'epopea con l'efficace resa dell'atmosfera intima e angosciante, grazie all'uso accorto e versatile degli elementi luminosi e sonori del viaggio notturno in autostrada.

L'umanità dei personaggi è l'elemento fondamentale del film, che ci mostra tipologie di esseri umani in cui lotta per sopravvivere quella decenza e quella considerazione del prossimo, che oggi, nell'epoca in cui imperano e prosperano i lupi plautiani del neoliberismo, sembrano sulla via dell'estinzione. Lo si vede non solo nella determinazione di Locke a rispondere di tutte le proprie scelte e a non abbandonare nessuno, ma anche nelle reazioni di quelli che sembrano suoi meri colleghi di lavoro, e che hanno invece stabilito con lui un rapporto di fiducia e amicizia che li porta quasi a sfidare i loro stessi superiori per lui; lo stesso vale per il figlio di Locke, come anche per la persona che lo attende alla destinazione del suo viaggio. A uscirne male, rappresentando l'altro volto dell'essere umano, è la moglie, che nella miglior rappresentazione dell'egoismo ed egocentrismo che avvelena la coppia, si erge a giudice, giuria e boia in un istante, buttando alle ortiche ogni forma di comprensione per rivelare invece quello che deve essere stato un astio latente verso il marito, covato magari per anni, e che ora, alla prima occasione, si scatena in una manifestazione fanatica di condanna, che rinnega il rapporto di coppia da lei stessa voluto, in nome dell'individualismo che, nella mentalità moderna veicolata dal capitalismo, conta più di qualunque altra cosa e va imposto schiacciando gli altri con ogni mezzo, fino alla vendetta travestita da giustizia intransigente.

lunedì 29 agosto 2022

Il peccato - Il furore di Michelangelo (2019)

"Il peccato - Il furore di Michelangelo" (2019)
, scritto e diretto da Andrej Končalovskij, è un film storico e drammatico del 2019 basato sulla vita di Michelangelo Buonarroti.

Nato nel 1475 e morto nel 1564, Michelangelo, l'artista al centro di questa pellicola, fu uno dei protagonisti dell'epoca del Rinascimento italiano, come scultore, pittore, architetto e poeta. E' proprio sulla sua fase di scultore che il regista/sceneggiatore di questo film si concentra, pur non mostrandoci mai Michelangelo all'opera: al regista/sceneggiatore Končalovskij, infatti, interessa soprattutto esplorare la sua complessa personalità, nonché l'ambiente politico-economico-sociale in cui si muoveva, dai Papi ai potenti delle famiglie dei Medici e dei Della Rovere, fin giù agli umili cavatori del marmo.
In entrambi gli ambiti, a dominare sono i fattori del caos, dell'avidità e dell'inaffidabilità: le famiglie Della Rovere e Medici, per il potere e per la gloria, si fanno guerra con ogni mezzo, e usano lo stesso Michelangelo, trascinandolo nelle loro trame; Michelangelo, a sua volta sempre a caccia di denaro ma anche ossessionato da questioni religiose (per non dire del testo della Divina Commedia di Dante Alighieri), è tanto vittima dei potenti (specialmente i Papi) quanto manipolatore, specialmente per aggiudicarsi nuove commesse, anche a danno dei suoi colleghi e amici (compaiono anche Raffaello Sanzio e Jacopo Sansovino), e incassare finanziamenti da spendere in ben altri modi.
Il quadro dell'epoca Rinascimentale che dà il regista è rappresentato dalle scene di città in cui secchiate di liquami organici volano in strada dalle finestre, senza curarsi dei passanti: un'epoca di sporcizia, tradimento, grettezza, egoismo e indifferenza (la matrice, potrebbe dire Valerio Evangelisti, della società neoliberista; non a caso, anche i rapporti umani, su qualunque gradino della scala sociale, sono improntati al conflitto, all'aggressività, alla prevaricazione e a una fondamentale povertà di empatia). Specularmente, questa è è anche la caratterizzazione della personalità di Michelangelo; di fronte al caos della sua vita, del suo lavoro, dei suoi rapporti personali e della sua mente, si stenta a capire dove siano il suo genio e il suo talento, in questo film, se non quando ci vengono mostrate le sue opere finite (o le reazioni entusiastiche dei suoi committenti o dei suoi discepoli).
Tramite la fulminea rappresentazione della tensione di Michelangelo verso un inconoscibile ideale, descrittaci dalle sue bizzarre visioni a tema religioso (la morte di Papa Giulio II in un palazzo deserto, frustato dal vento, con un angelo al suo capezzale; la stessa comparsa di Dante Alighieri davanti a Michelangelo in un luogo montuoso che potrebbe essere l'ingresso degli Inferi, o forse l'uscita), il regista sembra indicare che la chiave di letture principale del film è la contraddizione dell'emersione del sublime (la bellezza delle sculture di Michelangelo) dall'orrendo e lurido contesto della sporcizia non solo fisica della società del Rinascimento, nonché dal miasma terribile di passioni e ossessioni che affollano la mente dell'artista: il risultato, cioè opere come il suo Mosè, costituisce la vittoria di Michelangelo nella lotta non contro il suo mondo, ma contro se stesso.

La narrazione di questo film della lunghezza di due ore è piuttosto placida, dando a volte l'impressione di perdersi in divagazioni e dettagli di scarso interesse, come se il montaggio fosse stato eseguito un po' precipitosamente, realizzando malamente la rimozione di sequenze e trame secondarie dedicate ai personaggi minori.
La regia, adeguata a questo passo narrativo, è abbastanza anonima e piatta, ma si distingue quando sguazza, letteralmente, nel sudiciume, da quello personale di Michelangelo (sempre troppo preso dal lavoro per lavarsi) a quello summenzionato dei liquami e scarti fecali delle città, in netto contrasto con il feroce candore delle smisurate cave di marmo e la purezza immacolata delle altere catene montuose e dei panorami campestri (dove però arrivano immancabilmente gli esseri umani a portare la loro contaminazione).
Visivamente, la lunga sequenza ambientata nella cava di marmo da cui Michelangelo ottiene l'enorme blocco unico chiamato "il mostro" è quella che resta più impressa allo spettatore, probabilmente per la descrizione della dura vita dei poveri cavatori che rischiano la morte per estrarre il marmo con cui i ricchi si autocelebrano in città, pur non essendo in definitiva molto diversi da loro (in entrambi i casi, è sempre il denaro a muovere tutto). Non è certo un caso, nell'ottica del regista, che questa sequenza abboa l'onore della locandina: paradossalmente, è anche quella in cui Michelangelo è meno protagonista.

Gli attori, di varia nazionalità, sono quasi tutti ragionevolmente sconosciuti (ma c'è Orso Maria Guerrini nel ruolo del ributtante marchese Malaspina) che si impegnano a fondo, secondo le loro possibilità. Alberto Testone, nel ruolo di Michelangelo, rende a dovere la visione che il regista ha di Michelangelo, dipingendolo come una mente visionaria rinchiusa in una prigione di carne e disturbi mentali che la ancorano a terra, facendo di tutto per impedirle di esprimersi.

venerdì 13 maggio 2022

"Snake Eyes: G.I. Joe Origins" (2021) - "Snake Eyes: G.I. Joe - Le origini"

"Snake Eyes: G.I. Joe Origins" (2021), in Italia "Snake Eyes: G.I. Joe - Le origini", scritto da Evan Spiliotopoulos e diretto da Robert Schwentke, è un film d'azione statunitense basato sulla linea di giocattoli G.I. Joe.

Sulla falsariga di The Transformers, negli anni 2000 anche altre linee di giocattoli della casa produttrice Hasbro hanno tentato la via cinematografica, senza però riuscuotere successo al botteghino. E' il caso del militaresco G.I. Joe, linea di bambole militari che ha esordito nel 1964 e che si è trasformata in G.I. Joe: A Real American Hero nel 1982, assumendo la connotazione narrativa tutt'oggi nota: G.I. Joe è una squadra antiterrorista d'elite che combatte la potente organizzazione terrorista internazionale di Cobra.

Tra il primo film (2009) e il secondo (2013) passarono quattro anni. Tra il secondo e quello in esame, otto anni. Il prossimo quindi uscirà nel 2037.

 Inevitabilmente, Snake Eyes è un riavvio narrativo, che azzera quindi quel poco di continuità che era stata imbastita coi primi due film (una direzione dilettantesca, se consideriamo che i film del ciclo moderno di The Transformers si riavviano a vicenda, a volte contraddicendosi durante il film stesso). 

A differenza dei precedenti, questo film sceglie di partire a cose già fatte, concentrandosi su un ristrettissimo gruppo di personaggi dei giocattoli, di cui solo uno veramente famoso: in un mondo dove G.I. Joe e Cobra già esistono, la pellicola segue le traversie di un giovane asiatico che vuole vendicare l'uccisione del padre da parte di anonimi criminali e si mette quindi al servizio di uno Yakuza per poi infiltrarsi nel nobile Clan dei ninja di Arashikage, in Giappone, tradendo tutti e sottraendo un gioiello "soprannaturale" che lo Yakuza desidera a tutti i costi.

Il giovane in questione è la nuova versione di Snake Eyes, il tormentato ninja caucasico di G.I. Joe che è caratterizzato dall'avere il volto orrendamente sfregiato (sempre coperto da una maschera) e dal non parlare mai. Nel film, infatti, Snake Eyes è un personaggio loquace, interpretato dall'attore malaysiano Henry Golding, un belloccio decisamente più a suo agio con film di altro genere, fisicamente fin troppo prestante e "pompato" per l'agilità e velocità richieste a un ninja, perennemente impegnato a farsi inquadrare in primi piani in cui sfoggia espressioni intense sul suo viso piacente, quando non si fa rubare platealmente la scena da altri attori nelle scene di combattimento (essendo questi davvero esperti di arti marziali).

Se non basta questo a capire con che ideologia è stato gestito il film, citiamo anche la Baronessa Anastasia De Cobray di Cobra, ben noto stereotipo della formosa dominatrice europea decadente in tuta di pelle con un nome a metà tra Francia e Russia: qui è interpretata da un'attrice spagnola al limite della parodia, dato che sembra una domestica che si è messa i vestiti della padrona di casa ma non ha avuto tempo per andare dal parrucchiere. Tanto valeva usare il nome dell'attrice, Ursula Corberò, modificare il cognome in Cobrerò e chiamarla La Marchesa.

La vicenda ruota tutta intorno alla formazione e all'iniziazione di Snake Eyes tra le fila dei ninja del clan Arashikage, ed è infarcita di acrobatici duelli all'arma bianca tra gli eroi e dozzine di ninja nemici un po' imbranati: il tono oscilla tra il genere della vendetta melodrammatica e quello del wuxia (le arti marziali), alzando sempre più la posta della spettacolarità e dell'esagerazione col procedere della trama (memorabile, in negativo, la vecchia capoclan di Arashikage che si esibisce in una piroetta volante che scavalcherebbe una casa, brandendo i tessen, i ventagli da combattimenti giapponesi). A questo approccio da videogioco estremo, si contrappone un certo sforzo nella costruzione dell'intreccio, con qualche colpo di scena (non proprio inatteso) che sconvolge ripetutamente il poco onorevole Snake Eyes, ma la sensazione è che queste pretenziose parentesi di approfondimento/motivazione siano solo una scusa, durante la quale bisogna nascondere la noia degli autori, per arrivare alla successiva scena di improbabili combattimenti.

Questa doppia natura si nota anche in come il regista metta un grande impegno nel dare un'impronta d'autore alla pellicola: il suo volenteroso talento si infrange infatti contro lo scoglio di una sceneggiatura pensata per piacere agli amanti dei videogiochi picchiaduro e a chi si fa incantare da un po' di effetti speciali conditi con misticismo dozzinale. Poco può fare anche per le caratterizzazioni infelici, come nel caso della sventurata responsabile della sicurezza di Arashikage, una certa Akiko che si comporta come un'adolescente obnubilata dalla propria biologia in tumulto (curiosamente, ciò fa a pugni con la scelta ideologica di piazzare la Contessa e Scarlett come le sole rappresentanti di Cobra e G.I. Joe, omettendo deliberatamente i veri capi, perchè maschi, cioè il Comandante Cobra e Duke). A salvarsi, ma non si capisce se sia merito del regista o della sceneggiatura, è soprattutto colui che diventerà Storm Shadow, personaggio che tradizionalmente si mantiene sempre in ambiguo bilico tra bene e male, e che anche nel film segue un percorso coerente (a differenza di Snake Eyes).

Oltre alla terribile scelta degli attori associati ai giocattoli più famosi (in cui va inclusa anche Scarlett O'Hara, qui un'anoressica con i capelli palesemente tinti di rosso), a tradire lo spirito di G.I. Joe è soprattutto la quasi totale assenza di componente militare tradizionale: è vero che i ninja giocano un grande ruolo nella costruzione narrativa del fumetto originale Marvel di G.I. Joe: A Real American Hero, ma è anche vero che non ne costituiscono l'ossatura nè lo stampo. Di conseguenza, mettere G.I. Joe nel titolo di questo film (insieme alla parola "origini") è una turlupinatura e una presa per i fondelli.

Si rivela infine totalmente deludente, andando oltre la pur volenterosa costruzione dei "colpi di scena" della trama, la formazione di Snake-Eyes, nonostante lo sforzo di redimerlo nella scena in cui rinucia dolorosamente alla vendetta, risparmiando la vita al sicario di suo padre: se il vero personaggio in questione ha alle spalle lunghi anni di addestramento per diventare un ninja letale e silenzioso, la sua brutta imitazione cinematografica è invece un picchiatore di lotte clandestine che diventa un ninja in pochi giorni e,  chissà per quale motivo recondito oltre al dover somigliare al giocattolo, alla fine del film riceve in regalo una "fichissima" tuta con iconica maschera (per coprire il suo bel viso privo anche del minimo graffietto) con cui andarsene in giro in motocicletta.

martedì 18 gennaio 2022

"Lights Out" (2016) - "Terrore nel buio"

"Lights Out" (2016)
, in Italia "Terrore nel buio", scritto e diretto da David F. Sandberg, è un film dell'orrore statunitense basato sull'omonimo film breve svedese del 2013, realizzato in toto dallo stesso Sandberg.

Ricalcando il canovaccio del film A Nightmare on Elm Street (in Italia Nightmare - Dal profondo della notte), Lights Out è la vicenda di una testarda ragazza che vuole salvare il fratellino da una persecuzione maligna soprannaturale che affonda le radici nel passato della sua stessa famiglia.
La differenza principale con Nightmare sta probabilmente nel fatto che la protagonista, questa volta, vive di rendita ed è tutto sommato inutile: per quanto dipinta come una giovane tosta e indipendente, con un fidanzato amorevole e decorativo che lei tratta come un cane da compagnia, nei momenti cruciali è sempre l'operato di qualcun altro a darle soccorso (la storia della maledizione è stata documentata dal defunto patrigno; la Polizia per liberarla dalla cantina viene chiamata dal fidanzato; l'esortazione ad affrontare il mostro per non lasciare la madre in sua balia viene dal fratellino; il mostro viene sconfitto dalla madre).
La trovata orrorifica di Lights Out, al pari di quella di Nightmare, è brillante e terrificante: il mostro può muoversi solo nelle zone di buio (o penombra), ma non viene ucciso dalla luce, semplicemente sparisce per ricomparire non appena torna il buio; memorabile e agghiacciante è la sua prima comparsa, con avanzata implacabile, all'alternarsi dello spegnimento e accensione della luce in un magazzino di una azienda tessile.
La risoluzione lascia in sospeso l'argomento della vera natura e origine del mostro: qualcuno ha voluto intraprendere la strada psicanalitica, lamentandosi della grossolanità della stessa, nonchè delle implicazioni discutibili eccetera; tuttavia, questa interpretazione trascura i fondamentali elementi soprannaturali e paranormali che caratterizzano la prima incarnazione "umana" del mostro, nonchè la sua morte "impossibile" e soprattutto il suo nome; ques'ultimo, Diana, è riconducibile alla dea lunare Greco-Romana, da cui deriva l'ovvia contrapposizione buio-luce solare, ma è un errore fermarsi superficialmente a questa annotazione, perchè Diana/Artemide è anche la dea dai tre volti, tra i quali si manifesta anche l'infernale e terribile Ecate, signora della magia, degli incroci, dei demoni e dell'oscurità. Il comportamento del mostro, inoltre, è feroce, ma anche possesssivo e semplicistico, come quello di una bambina: anche in questo caso, entra in gioco la lettura mitologica, perchè la triplice natura di Diana/Artemide conferisce alla dea tre nature, e cioè quella di vecchia, di donna e di bambina.
 
Il comparto registico è solido e competente, chiaramente esperto di come muovere le telecamere per narrare questo genere di storia, concedendo il giusto spazio ai personaggi e agli ambienti convenzionali, resi facilmente spaventosi grazie alla sola assenza di luce; è ottima la resa dell'archetipa scena onirica della presenza spaventosa a pochi passi dal nostro letto; è invece meno apprezzabile il ricorso agli assordanti e improvvisi effetti sonori per spaventare lo spettatore (soprattutto perchè non servono).
 
Non esiste una colonna sonora degna di questo nome, poichè la narrazione richiede soprattutto rumori e silenzi.
 
Il reparto degli attori, tutti abbastanza ignoti, è a sua volta in linea con la tradizione non eccelsa di questo genere di film dell'orrore: un eventuale talento recitativo difficilmente può emergere e farsi notare, considerando i personaggi convenzionali e schematici a cui gli attori devono dare vita.
Discorso leggermente diverso, probabilmente, per il bambino Martin (Gabriel Bateman), che batte la sorella Rebecca (Teresa Palmer) in quanto a resa del carattere del personaggio. Sarà forse perchè la sceneggiatura riesce solo nel suo caso a conferire una patina di vera tempra, resistenza e indipendenza (soprattutto perchè a lui del mostro importa poco; quello che veramente vuole è dormire, invece che essere importunato da orrende donne egocentriche e moleste; come non capirlo).


venerdì 7 gennaio 2022

"The Addams Family" (2019) - "La famiglia Addams"

"The Addams Family" (2019), in Italia "La famiglia Addams", è un film d'animazione computerizzata basato sui personaggi creati dal fumettista Charles Addams negli anni 1930. 

Questo curato film è un'alternanza di felicissimo umorismo nero e melassa dei sentimenti, con battute e trovate grafiche molto divertenti, ma che vanno in calare col progredire della trama (fortemente satirica nei confronti dei mostri moderni: i reality show, le persone omologate dalla cultura dell'economia consumistica e dell'apparenza, i telefonini e le chat) fino a un finale in cui lo scontro tanto atteso viene smorzato, edulcorato, sviato e soffocato, in un'anticlimatica conciliazione in cui di colpo nessuno è più responsabile di nulla, non importa quanto fosse spregevole un momento prima.

La morale è, ovviamente, che gli Addams sono "mostri" esattamente quanto i "normali" che li vogliono scacciare (i "normali" in questione sono il prodotto della peggior cultura capitalistica ed individualista statunitense): purtroppo, la sequenza in cui viene presentata è tutto tranne che catartica, sempre per la succitata esigenza di smussare ogni asperità e non turbare nessuno.

La grande attenzione riservata ai problemi adolescenziali di Mercoledì e Pugsley oscilla a sua volta tra grandi trovate (la vivisezione della rana a scuola viene scambiata per un esperimento alla Frankenstein) e banalità stranote (Mercoledì attraversa la fase di ribellione ai genitori e fa amicizia con una "normale"; Pugsley è "diverso" e non ha il talento acrobatico dei suoi parenti per la mazurka della sciabola), con il sopravvento di queste ultime (e vale la pena di notare che Pugsley non riesce veramente a salvare la famiglia, nonostante le cervellotiche scene spettacolati in cui ferma gli attacchi alla casa degli Addams; è Mercoledì la vera eroina, solo perchè ha avuto un'idea banalissima che bizzaramente nessun altro membro della famiglia ha avuto).

Di cosenguenza, l'attenzione dello spettatore cala progressivamente: dal serrato e travolgente divertimento iniziale si passa dopo circa tre quarti d'ora a una fruizione rassegnatamente annoiata di sviluppi prevedibili, a cui segue la speranza che si venga in fretta al dunque per chiudere la faccenda senza troppi epiloghi.

La qualità dell'animazione è (immancabilmente) notevole, ed è interessante che l'immaginario grafico a cui sia attinge per i personaggi sia proprio quello originale delle strisce a fumetti di Charles Addams. Il famoso telefilm del 1964 viene doverosamente citato (specialmente nella sequenza di Lurch e Mano al pianoforte), ma è tutt'altro che preponderante.