giovedì 24 ottobre 2019

"Phone Booth" (2002) - "In linea con l'assassino"

 "Phone Booth" (2002), in Italia "In linea con l'assassino", diretto da Joel Schumacher e scritto da Larry Coen, è un bizzarro e accattivante film "da brivido" e giallo, basato su una trovata intrigante che, incredibilmente, riesce a reggere per tutti gli 81 minuti della durata della pellicola e dà vita a un prodotto narrativo singolare e meorabile nella sua apparente semplicità.


 A Manhattan (New York), un arrogante pubblicista newyorkese dalla parlantina sciolta e dai  modi di un venditore di auto  usate, Stuart Sheppard (Colin Farrel), è perennemente impegnato a manipolare clienti, riviste, fornitori, e chi più ne ha più ne metta: scaltro e cinico, mente platealmente o distorce la verità a piacere, per indurre celebrità, giornalisti e via dicendo a seguire i suoi desideri e stipulare contratti con lui.
 Ma, mentre "Stu" si prepara a telefonare da un'anonima cabina telefonica a un'aspirante attricetta molto carina, per illuderla di poterla aiutare nella sua carriera (e, significativamente, si leva l'anello nuziale prima della telefonata), nella sua vita irrompe un fattore che tutta la sua smaliziata loquacità non è in grado di arginare: un cecchino, che ha preso di mira la sua cabina telefonica da un qualche palazzo circostante, gli dimostra di conoscere tutti i suoi dati e i suoi segreti, e lo minaccia di morte se non renderà pubblica la sua infedeltà alla moglie.

 Da questa singolare premessa, in apparenza uno scoglio contro cui la nave del film deve per forza schiantarsi, si sviluppa invece una singolare rarità narrativa dal ritmo incalzante e dalla narrazione limpida e coinvolgente. Quasi fedele al canone aristotelico dell'unità di tempo e di luogo (anche se quest'ultima non è perfetta), il film riesce ad avvincere lo spettatore nel raccontargli una storia che routa per quasi tutto il tempo intorno a un pubblicista in abiti costosi, barricato in una cabina telefonica. Non ci sono flashback, non ci sono divagazioni sui comprimari, non ci sono sottotrame: c'è solo la crescente disperazione di un giovanotto modaiolo che, vittima dei giochi mentali sempre più sadici di un misterioso persecutore invisibile, tenta senza successo di usare la propria facondia per uscire da questa trappola in cui è andato a infilarsi, solo per vedere la propria psiche che viene implacabilmente sezionata e smantellata, uno strato alla volta, mentre intorno a lui si radunano prostitute furiose, forze di Polizia, mediatori, un pappone, un venditore ambulante, la moglie, la potenziale amante. E ogni volta che il giovanotto cede al panico o si ribella al persecutore, qualcuno muore o una persona a lui cara viene presa di mira.
 La tensione è sempre palpabile, anche se declinata in forme diverse, a seconda della svolta imprevista che la sceneggiatura compie: lo spettatore si chiede alternatamente come potrebbe Stu cavarsela (e si immedesima in lui quasi senza rendersene conto), e chi possa essere questo persecutore. Perchè qualcuno dovrebbe agire così? Mentre la personalità del giovanotto viene progressivamente messa a nudo, anche le possibili motivazioni del cecchino vengono formulate e sistematicamente scartate, in un gioco di inganni così esplicito da essere a sua volta un inganno.
 Nel crescendo di eccitazione e ansia, ravvivato da trovate che evidenziano ossessivamente il livello di pianificazione totale di questa improbabile trappola, il pungente e incessante scambio di battute tra Stu e l'implacabile cecchino fa scaturire elementi di critica e riflessione socio-tecnologica: la cabina telefonica rappresenta le ultime vestigia di un mondo che sta scomparendo, mentre la comunicazione portatile digitale è già una realtà quasi onnipresente, che annuncia la morte della privatezza classica (e l'inevitabile nascita di nuovi modi per ingannare il prossimo nei rapporti interpersonali, da parte di chi si relaziona agli altri principalmente con la menzogna); la brillante facciata di ricchezza, benessere e moda dei ceti borghesi medio-alti nasconde uno sterile e triste mondo di vuotezza e sotterfugi; la vita di coppia monogama non può reggere alle tentazioni di una brulicante società sempre più egoista, individualista, avida nell'immediato e priva di ideali e senso di collettività; le nuove tecnologie portano sì un cambiamento, ma senza mai sfiorare le barriere tra le classi sociali; e la feccia come gli squali della finanza o i ricchi depravati (categorie delle precedenti vittime del cecchino) finisce sempre per farla franca, proprio grazie a questi cambiamenti che portano vantaggi riservati ai ricchi (se non entra in scena un irrealistico e consolatorio giustiziere che prende la situazione nelle proprie mani).

 La risoluzione catartica del film è apparentemente positiva, nonostante il costo (o forse proprio per via di quello): dopo che finalmente il giovanotto e la Polizia riescono a orchestrare una reazione senza che il persecutore se ne accorga, "Stu" si confessa pubblicamente mettendo a nudo le proprie colpe e insicurezze, sua moglie lo perdona, e il persecutore suicida.
 Ma il film ha ancora una piccola sorpresa da proporre: è una scena reale, quello che Stuart vive mentre è in ambulanza, sotto gli effetti di un sedativo, oppure sta semplicemente sognando? Davvero il suo persecutore ha orchestrato questo complicatissimo piano solo per redimerlo dai suoi peccati e costringerlo a vivere una vita migliore?
 E, a questo punto, lo spettatore di interroga sulla complessità e aleatorietà del piano della cabina telefonica: davvero un essere umano, per quanto astuto, avrebbe potuto architettare e fare funzionare una simile trappola?
 Oppure la sequenza finale onirica funge da chiave di lettura metafisica? Il regista ci sta forse dicendo che il persecutore è in realtà una figura soprannaturale, una sorta di angelo della redenzione che per salvare certe persone non esita a torturarle psicolgicamente e persino ad ammazzare qualcuno?
 E ne è valsa davvero la pena? Oppure il buon Stuart, apparentemente redento, sta solo aspettando la prossima occasione per tornare ai vecchi vizi?

 Regia e fotografia brillano nel servizio alla sceneggiatura, tanto nel ritmo quanto nel raccontare visivamente le tematiche del film, con particolare enfasi sull'alienazione di una città tentacolare e brulicante come New York, con le sue sterminate facciate di palazzi dietro cui accade chissà cosa, nonchè sulla variegata e disperata umanità che brulica ai piedi di questi palazzi, in una palese visualizzazione delle barriere tra ceti sociali che la democrazia e la mentalià politicamente corretta si rifiutano di riconoscere come tali (da notare le inquadrature panoramiche, che privilegiano angolazioni a livello delle strade e rivolte verso l'alto, proprio a sottolineare la separazione tra due mondi inconciliabili). E' visivamente altrettanto efficace e nitida la discesa nella disperazione e paranoia del protagonista umano, singolarmente affiancato da una cabina telefonica che, come ultimo baluardo di un'epoca al tramonto, è a sua volta un simbolico protagonista della narrazione.
 Il passo sicuro e la visione lucida della sceneggiatura si riflettono anche nei dialoghi, scritti con grande cura per raccontare personaggi e storia in modo chirurgico, oltre che bilanciare le esigenze narrative con quelle della caratterizzazione, la quale è a sua volta declinata in un efficace equilibrio di pulsioni che coesistono in chiunque: emotività, razionalità, decenza e istinto di sopravvivenza.

 Particolarmente beffarde e socialmente taglienti sono le battute dell'assassino, che bersaglia e smonta le ipocrisie sociali più comuni, dalle abitudini delle forze di Polizia (con o senza stampa presente) al cinismo del mondo dell'informazione, passando per la falsità dei rapporti di coppia.
"You're cheating."
"I'm not cheating on Kelly. I never have."
"Then what do you call it?"
"Look, you're a guy... sometimes you want to know it's a possibility. It's like having a beautiful home... but you still dream of that quick vacation. You know, some nice hotel room with a great view, maybe a pool. It's just a fantasy. You never leave home."
"Do you hear what you're saying? Kelly is a home and Pam is a motel. I'm sure they'll both appreciate that." 
 Gia in circolazione da qualche anno, l'attore Colin Farrell si impegna a fondo e con bravura nell'interpretare un uomo comune, nel bene e nel mane, la cui facciata esteriore, costruita con tanta cura, si sgretola progressivamente, facendo emergere la disperazione di una psicologia fodamentalmente sofferente e insicura, forte e sincera nella sua umanità, nonchè propria della stragrande maggioranza delle persone.
 Da notare anche come, la fase finale in cui Farrell affronta la catarsi e la rinascita è anche quella in cui il suo personaggio, prima di mettersi completamente a nudo e rigenerarsi, sembra quasi sparire dalla narrazione, ingoiato dal gorgo della surreale situazione, sopraffatto dall'enormità dei suoi antagonisti (la "voce" e il mondo rappresentato dalla cabina telefonica).

 Sulla "voce" telefonica dell'assassino, Kiefer Sutherland, è necessaria una riflessione, per evitare di commettere l'errore di liquidarla snobisticamente come poco credibile.
 Innanzitutto, in un film che contempla lucidamente l'evoluzione della comunicazione tra i temi principali, la perfetta nitidezza della voce (che dovebbe scaturire da una cornetta di una cabina telefonica, ed essere quindi come minimo un po' disturbata e attutita) è palesemente una scelta narrativa che si ricollega all'ambiguità del finale: più che dal telefono, la voce sembra provenire dall'etere, e si combina con le sue qualità di onniscenza e onniveggenza, quasi fosse quella di una divintà (o di un suo messaggero).
 La qualità della voce e il suo tono asciutto e aspro, mantenuti volutamente impersonali anche nelle scene in cui in apparenza l'assassino rivela la propria psicologia di sadico e manipolatore, sono altri indizi che contribuiscono a rafforzare l'idea di essere in presenza di un personaggio che sta interpretando un ruolo, ma la cui vera natura va molto al di là di un semplice essere umano, legittimando l'interpretazione metafisica dell'astuta scena finale: psicotico e geniale assassino seriale, spietato angelo custode che redime con metodi brutali, oppure angelo sterminatore che concede un'ultima possibilità di pentimento?

 Sul versante dei comprimari, il capitano Ramey (Forest Whitaker) calca parecchio la mano nell'interpretare un poliziotto che incarna il lato umano non solo della Polizia, ma anche della stessa New York, con il suo metodo di lavoro che concede grande spazio all'intuito, alle sensazioni, alla sensibilità e alla componente personale, cosa che poi l'assassino gli rivolge sadicamente contro, costringendo Stuart a porgli umilianti sulla sua vita matrimoniale. Abbastanza esagerata è anche la contrapposizione manichea tra il poliziotto nero buono (Ramey) e il collega bianco fanatico e stupido, i cui metodi avrebbero causato sicuramente una o più morti inutili.



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