mercoledì 4 marzo 2020

"The Endless" (2017) + "Resolution" (2012)

 "The Endless" (2017), scritto e prodotto e diretto da Justin Benson, con Aaron Moorhead come coproduttore e co-direttore, è un elegante film dell'orrore, arcano e sottile, enigmaticamente angosciante come le opere di H.P. Lovecraft e claustrofobicamente riflessivo come le opere di Stephen King.


 I fratelli Justin e Aaron ricevono una videocassetta da Camp Arcadia, una comune da cui erano fuggiti anni prima dichiarando che si trattava di un "culto ufologico della morte". Scontento della vita miserabile che conduce, il fratello minore Aaron insiste per tornare a visitare Camp Arcadia, dove lui ricorda invece che si mangiava bene e si conduceva una vita appagante. Reticente, Justin accetta, solo per scoprire altri bizzarri enigmi a quelli che, da ragazzo, lo avevano spinto a fuggire da quel posto: come mai i membri del culto sembrano non essere invecchiati di un giorno? E chi sono quelle persone, accampate in tende e camper e case isolate, che sembrano ripetere ciclicamente le stesse azioni fino alla loro morte?

 Il sottogenere "lovecraftiano" dell'orrore è quello che, invece di ricorrere alla repulsione e all'interesse morboso generati da effettacci truculenti, sbudellamenti e atroci violenze, preferisce terrorizzare sottilmente lo spettatore, istillandogli un infestante malessere psicologico che nasce da una situazione apparentemente normale e prosaica,  genera un crescendo di sorprendenti bizzarrie e culmina in una rivelazione di terrore cosmico, incontrastabile e impossibile da definire nel ristretto ambito dei parametri della mente umana.
 E' questo, ovviamente, ciò che accade in "The Endless", dove lo spettatore vive e cerca di decodificare la vicenda scegliendo di volta in volta la prospettiva che più preferisce: quella razionale e sospettosa di Justin, o quella credulona e ottimista di Aaron. Gli indizi sono presenti in abbondanza, ma filtrati da strati di contesto differenziato che rende difficile unificarli. In più, come ormai codificata da anni grazie al film "The Ring", alla vicenda si aggiunge anche la falsa e irresistibile traccia dei messaggi soprannaturali che si manifestano sotto forma di vecchie videocassette spedite per posta o immerse in un lago, oppure fotografie Polaroid portate dal vento, o anche hard disk sepolti nel terreno.
 Lo scorrere del tempo, l'evolversi delle persone, il mutamento dei supporti tecnologici su cui viene registrata l'informazione, sono tutti elementi fondamentali in questa narrazione.
 Sullo sfondo, si muove un'entità non umana, che per un tempo inimmaginabile è esistita in perfetta solitudine nelle Americhe e che ha iniziato a incorporare in sè (letteralmente o quasi) l'uomo bianco sin dal suo arrivo in quel continente (la zona  è abitata dagli indiani, cioè dai pellerossa, cioè dai nativi americani, che però sanno come evitare tale entità).
 In questo scenario, il  rapporto tra i due fratelli, inizialmente simile a una zavorra reciproca di cui entrambi vorrebbero liberarsi, viene analizzato e fatto evolvere in parallelo allo svelarsi del mistero soprannaturale, finchè non sfocia in una soluzione che evita felicemente le due trappole della banalità: la stucchevolezza e la violenza.

 La produzione indipendente significa ovviamente uno stanziamento modesto per gli effetti speciali, il che a sua volta dimostra che una storia dell'orrore valida non ne ha davvero bisogno.
 Il film brilla per via dell'uso creativamente simbolico delle scenografie convenzionali, nonchè per una serie di suggestive trovate visive, ottenute con un'idea azzeccata e uno sforzo digitale minimo che conferiscono alla narrazione un tono surreale in crescendo, che funge da efficace cornice alla componente epico-storica del mistero che si annida nelle foreste di questo angolo sperduto degli Stati Uniti d'America. E' inevitabile, per certi aspetti, paragonare la resa della visione cosmica di questo film al mistero alla base del famoso telefilm "Lost": visioni impossibili, resti di abitazioni o accampamenti con tracce criptiche di oscuri eventi passati, oggetti antichi che portano con sè un messaggio da decifrare, e la generale affermazione che ogni cosa intorno a noi abbia un significato recondito, nascosto dietro un'apparenza banale. La differenza sta nel fatto che, mentre in "Lost" questa visione si perde per strada, e si conclude con una dichiarazione di resa degli autori, in questo film essa giunge a compimento e si rivela nella sua completezza.


 Lo spettatore che ha la capacità di adattarsi al placido e anticlimatico ritmo narrativo, nel quale si mescolano il realistico e l'onirico, si rende rapidamente conto di come la costruzione narrativa punti sulla solidità della sostanza (come in "Primer") e sul piacere della scoperta progressiva della trama, invece che sulla superficialità sensazionalistica e commerciale dello spavento a tutti i costi. E' quindi un film lontano dall'approccio superficiale delle produzioni dozzinali del cinema di massa, da sconsigliare calorosamente a chi si aspetta di fare un salto sulla sedia ogni due minuti, e soprattutto a chi si aspetta una narrazione preconfezionata e stereotipata in cui sin dall'inizio di capisce dove si andrà a parare.

Una regia intelligente, che sfrutta le tecnologie moderne per proporre suggestive e significative inquadrature aeree, si affianca a dialoghi generalmente asciutti e mirati, poco propensi allo spiattellamento di spiegazioni e teorie, ma anche capaci di improvvisi cambiamenti di registro e stile, quando il personaggio e il momento lo richiedono. Memorabile, con tocchi deliberatamente umoristici che spaventano (!) lo spettatore impreparato, è il momento della rivelazione del significato degli eventi in corso.

 Il film riprende tematiche e persino personaggi di "Resolution" (2012), degli stessi creatori.

Recensione di "Resolution" su Bollalmanacco.



 In "Resolution", è Mike Danube a entrare in una zona controllata dall'entità, per costringere il proprio miglior amico a disintossicarsi dal crystal meth, trascorrendo una settimana intera incatenato alla parete di una baracca. In questo periodo, Mike incappa in indizi e "messaggi" dell'entità, tutti sotto forma di fotografie, dischi di vinile, videocassette e simili, in un crescendo parossistico di situazioni inesplicabili, fino alla rivelazione finale che segna il destino di entrambi gli amici.

La fondamentale differenza rispetto a "The Endless" sta nel fatto che "Resolution" non dà alcuna spiegazione sull'entità, ma si concentra sull'idea delle nostre vite come narrazione diretta da qualcun altro: persino Mike si accorge, di tanto in tanto, che qualcuno lo sta "inquadrando", e che la "pellicola" su cui la sua vita viene filmata è arrivata alla fine del rotolo (citando quindi capostipiti come "The Blair Witch Project" e "The Ring", ma portando il loro discorso verso nuovi territori).
 Lo stile del disvelamento del mistero è comunque lo stesso, anche se declinato in modi diversi (Mike scopre, per esempio, supporti mnemonici con possibili finali alternativi alla propria vicenda, e riesce quindi a sventarli), e ciò fa emergere un altro parallelismo con "The Endless": in entrambi i film, i protagonisti sono due giovani uomini, fratelli in un caso e grandi amici nell'altro, caratterizzati da una rara e profonda umanità che li porta ad agire sempre e comunque in modo pacato, sobrio e di grande empatia; nessuno di loro fa mai uso di violenza, e neppure dà mai in escandescenze; davanti alle peggiori manifestazioni di un'umanità abbrutita (gli spacciatori di crystal meth, la mafia indiana, lo stesso amico tossicomane che diventa aggressivo), la loro risposta è sempre e solo quella della civiltà e della decenza (persino quando Mike usa un taser!).
 Nel panorama cinematografico odierno, questo aspetto è più unico che raro, e offre una rinfrescante alternativa alla narrativa fortemente ideologica di Hollywood e dei telefilm che si accodano. Il risultato è un film dell'orrore unico nel suo genere, capace di mescolare l'enigma cerebrale alla finta metanarrazione, la tossicodipendenza alla cronaca del degrado sociale delle nazioni capitaliste, le conseguenze dei grandi eventi della Storia alle fasi di sviluppo della tecnologia dell'informazione.

 Non ci sono ovviamente celebrità in questo film, ma i produttori e registi e scrittori Justin Benson e Jason Moorehead dimostrano un certo mestiere nell'impersonare gli omonimi Justin e Aaron di "The Endless" (con apparizione breve in "Resolution" che indica l'esistenza di un solido piano narrativo sin dall'inizio): l'omonimia sarà forse indizio di una componente autobiografica?
 E' più articolato, invece, il curriculum di Peter Cilella, che dà credibilmente vita al positivo e altruista Mike di "Resolution"), bilanciando l'ostinazione, la curiosità, il buon cuore e la tenacia richiesti dalla sceneggiatura. E' invece un altro artista molto indipendente Vinny Curren, che nei panni dell'amico tossicomane ne descrive la parabola di dipendenza con efficacia, alternando momenti di sincera commozione ad altri di subdola perfidia e malvagia schiettezza dettate dall'astinenza.

domenica 1 marzo 2020

"Cowboys & Aliens" (2011)

 "Cowboys & Aliens" (2011), diretto da Jon Favreau e basato sul fumetto omonimo di Scott Mitchell Rosenberg (il fondatore della Malibu Comics), è un ibrido di due generi, cioè il western e la fantascienza, proprio come promette il titolo.

Scheda di Cowboys & Aliens su wikipedia

 L'ex criminale amnesiaco Lonergan e l'ex colonnello Dolarhyde, ora allevatore di bestiame, (entrambi con un passato assai discutibile) devono assemblare un'eterogenea banda di disperati (il predicatore, l'inetto barista-medico, il bambino, la donna volitiva, i delinquenti bianchi, i messicani, gli Apache superstiti) per braccare mostruose creature su veicoli volanti che hanno rapito i loro cari e che danno a loro volta la caccia all'oro. Durante il tragitto, violenti scontri a fuoco assai impari con i "demoni" (perchè un cowboy non sa cosa siano gli alieni) costringeranno gli umani a fare i conti con loro stessi e col proprio passato, fino al conflitto e alle rivelazioni finali.

 Lungo 118 minuti e dotato di due celebrità come Daniel Craig e Harrison Ford, questo film coniuga l'epopea della frontiera americana (in particolare la corsa all'oro, nel Nuovo Messico, nella seconda metà del 1800) e la fantascienza dallo stile barocco di H. G. Wells (non a caso, il suo "La guerra dei mondi" è del 1897), sfruttando a piene mani le caratteristiche e i luoghi comuni di entrambi i generi, e invertendoli dove necessario: ecco quindi il duro e silenzioso fuorilegge che però si è redento (a carissimo prezzo, come da puritana regola della narrativa statunitense) e che ora brandisce, unico tra tutti, un'arma aliena che risponde alla sua mente, ed ecco anche che gli alieni, pur capaci di compiere viaggi interstellari, sono sulla Terra a scavarne le rocce, per cieca bramosia del rarissimo metallo che noi chiamiamo oro.

 Dalla sua il film ha una bella fotografia, gli stupendi panorami selvaggi che vanno dalla vastità dei deserti alle profondità dei canyon, le suggestive acrobazie ed evoluzioni a bordo delle navette aliene,  l'azione delle sparatorie e battaglie a cavallo, la colonna sonora tipicamente western, alcuni validi attori che si trovano perfettamente a loro agio nei ruoli assegnati, un moderato tocco di umorismo che non svilisce i personaggi, la pulizia dei dialoghi, l'intelligenza delle scenografie e le caratterizzazioni che si definiscono coerentemente con lo svilupparsi della narrazione. La trama è solida e la sceneggiatura ne gestisce ogni aspetto, senza lasciare fili sciolti.
 Eppure, qualcosa non funziona come dovrebbe: nonostante le misurate e colte citazioni ai classici di entrambi i generi coinvolti, nonostante la narrazione da manuale, il film non riesce a fare presa sullo spettatore.
 Come mai?
 Sebbene questo sia un film hollywoodiano mirato a sbancare al botteghino (come dimostra la battaglia per i diritti sul fumetto, combattuta nel 1997 tra due diverse case cinematografiche), il regista compie scelte narrative che non appagano lo spettatore medio(cre) di questo genere di pellicole, ma parlano invece al lettore di fumetti, abitualmente più cerebrale, e non solo per le suddette citazioni, ma anche per i meccanismi narrativi, tra i quali c'è sicuramente materiale tipicamente cinematografico (il medico inetto che infine si riscatta), ma c'è anche e soprattutto la citata ottica puritana, secondo cui il cattivo che vuole redimersi deve anche pagarne il prezzo (si veda per esempio la reazione del pubblico al mutamento del supercriminale Magneto nei fumetti della Marvel, quando lo sceneggiatore Chris Claremont lo portò tra i "buoni"). Ciò spiega l'inadeguato riscontro nelle sale, ma perchè lo spettatore d'elite (nel senso degli appassionati di fumetti) resta a sua volta insoddisfatto?
 Sarà per la lentezza delle sequenze di caratterizzazione dei personaggi, le cui conversazioni col cuore in mano risultano anche un po' stucchevoli? Sarà perchè tutti i "cattivi" umano, alla fine, non sono pèoi così cattivi? Sarà perchè l'uso di così tanti stereotipi finisce per dare l'impressione di un esercizio di stile che suona privo di sincerità? Sarà che l'innegabile intelligenza narrativa di fondo finisce per togliere spontaneità ed entusiasmo a una narrativa (quella western) che invece richiede un approccio più istintivamente epico, nonchè di pancia?
Oltre ai già citati Daniel Craig e Harrison Ford, che interpretano rispettivamente i personaggi archetipi dell'enigmatico straniero dagli occhi di ghiaccio e del potente allevatore di bestiame, cinico e dittatoriale, che però stravede per la famiglia (estendendola addirittura a un indiano, cioè, volevo dire "a un nativo americano"), spicca la presenza di una bellissima Olivia Wilde, che proprio per la sua raffinatezza estetica, è in apparenza una nota stonata nel gruppo di personaggi luridi e squinternati a cui si unisce (ma solo in apparenza, appunto: questo è invece un indizio rivelatore della sua effettiva natura, che si palesa durante il colpo di scena, tipico della narrazione fantascientifica, che si svolge all'incirca a due terzi del film).
Nell'ambito del fumetto supereroistico statunitense, il progetto di "Cowboys & Aliens" potrebbe dovere qualcosa all'albo 272 di Fantastic Four (vol.1) del 1984, dove l'avventura intitolata Cowboys & Idioms metteva in scena un mondo alternativo in cui una nuova frontiera western si mescolava a tecnologie futuribili fortemente ispirate anche a "La guerra dei mondi", tanto che la scena del film in cui lo stormo di velivoli alieni sfreccia sul deserto sembra una trasposizione della scena del fumetto in cui un gruppo di "valchirie" ipertecnologiche sopraggiunge su un panorama simile.
Come nota di colore finale, vale la pena di menzionare che la casa editrice Bonelli declinò la proposta di fare del suo personaggio di Tex Willer il protagonista di questo film: l'associazione del fumetto di Tex alla fantascienza non deve stupire i profani, dato che il creatore di questo personaggio ha proposto sin dagli inizi della serie una spiccata propensione alla commistione di generi, e Tex non è estraneo agli incontri con creature di altri mondi.