mercoledì 9 ottobre 2019

"Joker" (2019)

 "Joker" (2019) è un film psicologico e drammatico, con risvolto nero e sociologico, prodotto negli USA e diretto da Todd Phillips.

Scheda di "Joker" su wikipedia.

 Denso, autoriale, cerebrale e trascinante, è in realtà difficile, se non impossibile, da classificare con le solite etichette, probabilmente per via del suo legame col mondo fumettistico dei supereroi statunitensi, il quale rischia di distorcere la corretta percezione del film per via dei luoghi comuni sul genere ("dopotutto, sono solo personaggi dei fumetti").
 "Joker", però, non è nè una carnevalata come i film della Marvel, nè un funerale come i film della DC: è una pellicola che lascia il segno, e sul quale si ritorna a riflettere in seguito, e volentieri, perchè attinge direttamente all'essenza più pura del fumetto USA di qualità.
 Dove gli altri film di questo filone sembravano influenzati soprattutto alla serie televisiva "Batman" degli anni 1960 (nel senso che intendevano mostrarci "come si racconta davvero Batman"), "Joker" sembra invece affermare di essere consapevole dell'esistenza di telefilm e film, e di volerci invece spiegare come è veramente stato raccontato Batman nel fumetto e perchè è diventato una tale icona. Ci torneremo in seguito: per il momento basti dire che la forza, il lirismo e l'umanità che intridono questo disperato e disperante film sono gli stessi di opere fondamentali della storia del fumetto mondiale come il "Daredevil", il  "Batman: Year One" e il "Dark Knight" di Frank Miller, uno dei grandi autori che negli anni 1980 ha rivoluzionato il modo di concepire e raccontare il fumetto supereroistico, iniettandovi quel crudo realismo che la bigotta Comics Code Authority degli ipocriti Stati Uniti d'America vietava a ogni costo, e ibridandolo con le tecniche narrative cinematografiche più suggestive (non a caso i personaggi minori di Miller spesso e volentieri sono cinefili o comunque vanno a vedere i classici in bianco e nero) o con influenze grafiche nipponiche.

 Come la folle e scomposta mente dell'iconico supercriminale che tutti conoscono, il film "Joker" è un mosaico caleidoscopico, dove diversi temi si mescolano e alternano senza sosta, dando vita a differenti chiavi di lettura che possono emergere anche a una certa distanza dalla visione del film, magari imponendoci una seconda visione.

 "Joker" è principalmente la storia di un malato di mente che subisce una inarrestabile discesa nella follia da cui non c'è ritorno, a causa di una società (quella capitalista, esasperatamente individualista e intimamente egoista) che per privilegiare i ricchi, taglia i finanziamenti del sistema sanitario pubblico, abbandonando al proprio destino chi non ha i mezzi per affrontare la malattia che lo affligge.
 Inevitabilmente, anche la città di Gotham, che da sempre viene descritta dagli autori di fumetti come un luogo dannato, intriso di corruzione, crimine, degrado e follia, si conforma ai dettami del capitalismo edonista, e si manifesta quindi come una metropoli sporca e soffocante, in cui prospera un'umanità ostile e indifferente, che rispetta solo la legge della giungla, qualunque ceto sociale si voglia esplorare. Non è il luogo gotico dell'iconografia di Tim Burton, ma proprio per questo appare ancora più tetra e infernale.
 Come la città di Gotham, anche il contesto sociale, che vede un divario sempre più profondo tra una classe dirigente smisuratamente ricca, e i brulicanti ceti dei poveri, sempre più disperati e sempre più numerosi, è una metafora assai diretta. Ambientato nei tardi anni 1970 (o nei primi anni 1980), il film descrive palesemente il nostro presente, e il regista, con un coraggio e un'onestà brutali, non fa sconti a nessuno: rifiutandosi di assumere una posizione ideologica, ci spiega infatti che "quelli sono così"  (e parla dei "trumpiani"), ma "voi altri siete così" (e parla dei suoi presunti antagonisti, che non a caso negli USA stanno in tutti modi cercando di boicottare questo film); e non esita a ricorrere alla scorrettezza politica per farlo:  oltre a quanto già detto, ecco anche le minoranze di delinquenti nei bassifondi, le barzellette tipo "parcheggio per disabili: speriamo che nessuno mi veda", le opinioni nettamente contro corrente su famiglia e ruolo dei genitori, la schiettezza sui "celibi involontari".

 In questo contesto si muove sconsolatamente il protagonista, Arthur Fleck, un uomo remissivo e sfortunato, facile vittima degli abusi degli altri, tormentato da un disturbo neurologico che lo spinge a scrosci di incontrollabili risate inconsulte nei momenti meno adatti. Apparentemente succube della madre, di cui si prende cura, Arthur sembra essere stato plagiato dalla donna, che ha inibito la sua crescita psicologica ed emotiva. Ma c'è di più, perchè la donna stessa si rivela essere mentalmente instabile, e vive in un proprio mondo dove è difficile distinguere fantasticherie e realtà: Arthur, senza saperlo, si riflette in questa madre folle, vivendo a sua volta fantasie che lo spettatore a volte riconosce immediatamente, e a volte invece scambia per una plausibile realtà. E' questa del rapporto madre/figlio solo una delle tante simmetrie segrete che si rivelano man mano che la narrazione si sviluppa. In quest'ottica va letto anche il quaderno degli appunti di Arthur: apparentemente utilizzato per le annotazioni utili alla sua ambizione di divenire un comico, è in realtà la sua valvola per scaricare il flusso di coscienza dei terribili pensieri che Arthur reprime costantemente, nonchè della sua sessualità altrettanto frustrata (terribili e angoscianti sono i ritagli di donne nude acefale e disumanizzate che compaiono tra quelle pagine nei momenti peggiori). E d'altra parte, sembra dirci il regista, a crescere con una madre che ti impone di sorridere sempre e reprimere le cose brutte, crescendo puoi solo diventare il Joker o Marge Simpson.
 In cerca di una figura paterna che non ha mai conosciuto, e che sia capace di dargli quell'equilibrio che la madre folle e i suoi amanti violenti gli hanno sanguinosamente tolto per sempre, Arthur Fleck si rivolge prima al miliardario Thomas Wayne, venendone dolorosamente respinto a causa di un presunto equivoco sulla vera identità del proprio padre, e finisce poi per incontrare il proprio idolo, nonchè figura paterna sostitutiva idealizzata: Murray Franklin, presentatore di talk show televisivi, uomo brillante e dall'umorismo facile e sprezzante. Ma, come si suol dire, non bisogna mai  incontrare i propri eroi: al di là della sua falsa figura televisiva (altro tema ricorrente del film è l'influsso dei media sulla vita delle persone), Franklin si rivela essere una persona da poco, e Arthur, non ricevendo la comprensione che desiderava, finisce per sparargli. E' questo il momento in cui assistiamo alla genesi del Joker: Arthur "uccide il proprio padre", per affermarsi come adulto, ma ciò che fa è anche "uccidere il proprio Buddha" (un concetto zen che proprio nella seconda metà degli anni 1970 fu reso popolare negli USA da un libro dello psichiatra Sheldon Kopp); è così che Arthur, dopo anni di repressione, diventa quindi il proprio Buddha, cioè sceglie di prendere in mano la propria vita e realizzarsi come assassino psicopatico, in un trionfo capovolto che lascia sgomenti per la modalità pacata e amara con cui si svolge.

 Già giustamente elogiato per la regia, la fotografia così cruda e sporca ma anche attentissima a cogliere le sfumature rivelatrici della lacerante e costante sofferenza dell'animo del protagonista, questo film si avvale di una scrittura lucida, competente e chirurgica, capace di raccontare senza mai scadere nel didascalico, e soprattutto ottimamente bilanciata con la regia, alla quale cede le redini quando si tratta di raccontare visualmente il travaglio interiore di Arthur Fleck, perennemente impegnato a conciliare, senza successo, le proprie aspirazioni di gentilezza e la gelida risposta ostile e individualista dell'umanità che lo circonda. Sembra quasi inutile sprecare parole per sottolineare la qualità della prestazione di Joaquinn Phoenix, che declina in tutte le sfaccettature fisiche, psicologiche, caratteriali, somatiche e culturali del Joker: il fisico scheletrico, lo straziante dolore che si cela dietro le sue crisi di risate, la solitudine, l'intimo desiderio di gentilezza perennemente calpestato da una brutalità che ogni volta uccide una parte del suo essere, la falsa felicità in cui si culla durante le sue fantasie, e infine la metamorfosi finale in cui il comico mancato dà sfogo al suo dolore represso, esibendosi in un feroce  j'accuse verso la società capitalista, esprimendo una critica che tutti quanti condividono a un livello intimo (tranne i ricchi?), tanto da ritrovarsi a simpatizzare con un personaggio che fino a quel momento aveva abilmente generato una ovvia reazione in cui la compassione era quasi sempre accompagnata (negata) dalla repulsione (perchè appunto le persone normali "capiscono" chi ha una malattia mentale, ma si aspettano che lui si comporti comunque come se fosse normale).

 Realtà e invenzione

 Il film racconta quindi di questa caduta in disgrazia di Arhur Fleck, che poi rinasce a nuova vita, ma non per recuperare lo stato di grazia, bensì per diventare un tetro simbolo del caos, nei panni del "messia nero" Joker, icona involontaria di un movimento che sta mettendo la città a ferro e fuoco. Ma è veramente questa la realtà?
 Per tutto il film, ci è stato dimostrato che ciò che percepisce Arthur non è necessariamente vero: le fantasie (palesi) di comparire al talk show; la relazione amorosa con la sua vicina di casa, in scene che Arthur si è soltanto immaginato di vivere con lei, quando invece era desolantemente solo, il collega che per amicizia gli regala una pistola (e Joker risponde enigmaticamente "non ci è consentito tenere armi!"). La stessa realtà contraddittoria di sua madre sembra l'evolversi di un sogno o di una narrazione che  viene corretta in seguito a ripensamenti: prima è stata l'amante di Thomas Wayne e ha avuto un figlio da lui; poi era solo una mitomane con un figlio illegittimo e una schiera di amanti; poi ha invece adottato il figlio da genitori sconosciuti; infine era davvero l'amante di Thomas (come dimostra una foto di lei da giovane con dedica di un tale T.W., foto che Arthur getta via con disprezzo, avendo  ormai rimosso la madre dalla propria vita).
 E poi, ci sono certi indizi, con quello del divieto di portare armi. A inizio film, Arthur è a una seduta con un'assistente sociale nera, che gli menziona i ricoveri in manicomio per persone autodistruttive, e Arthur ha una visione di se stesso in una cella di sicurezza, intento a dare craniate a una grata; ma, nella seconda metà del film, Arthur non ha idea di come funzioni il manicomio cittadino (l'Arkham Asylum), nessuno del personale lo riconosce, e i poliziotti che lo interrogano per gli omicidi della metropolitana non menzionano mai il suo passato di paziente psichiatrico. La "visione" quindi non sembra avere senso: come può Arthur essere stato in manicomio, data la sua storia?
 Questo, però, ce lo chiediamo solo vedendo la scena finale della pellicola, preceduta da un netto stacco nero mai utilizzato finora nel film: Arthur è nel manicomio di Arkham Asylum, sulla parete un orologio segna la stessa ora della seduta psichiatrica a inizio film, e nella stanzetta si sta svolgendo una seduta con una psichiatra, sempre nera, esattamente come erano nere la sua assistente sociale, la sua giovane vicina di casa, e la donna sull'autobus che si scusava con lui. E' un Arthur più in carne, quello che vediamo in questa scena, e sembra impossibile che sia lo stesso, scheletrico Arthur che, divenendo il Joker, ha devastato la città: nessun manicomio lascerebbe un simile personaggio senza sorveglianza mentre incontra un'indifesa psichiatra.
 E quindi lo spettatore si chiede: quello che sto vedendo ora è il futuro (Joker è stato arrestato dopo la rivolta?) oppure è il presente della realtà, e sin dall'inizio il film è stato solo l'elaborazione di una fantasia di Arthur Fleck, interrotta sporadicamente da elementi estranei (gli indizi di cui sopra), e cioè dalla realtà che interferiva con la sua fantasticheria? Arthur è un pazzo che sa di essere pazzo, e fantastica quindi su se stesso in maniera onesta e coerente?
 In questa sequenza finale, la prima cosa che Arthur dice, dopo una breve risata, è che gli è venuta in mente una barzelletta, che non vale la pena di raccontare perchè non è divertente (confermando quindi il tormentone di tutto il film: Arthur vuole disperatamente fare il comico, ma non si rende conto di non saper far ridere e, soprattutto, di non capire l'umorismo): non è forse questa la conferma che tutta la narrazione del film, tragicamente e amaramente sardonica, è scaturita dalla sua mente?
 Ma fino a che punto Arthur ha lavorato di fantasia, e quali elementi reali ha invece utilizzato? La scena dell'omicidio dei ricchi coniugi Wayne è necessariamente accaduta nella realtà, e Joker ha inventato una storia che lo vede come innesco dell'evento, solo per il desiderio di rivalsa su Wayne (che ha rifiutato di fargli da figura paterna)? Il fatto che il piccolo Bruce sia sopravvissuto non significa molto per Arthur, che non sa ovviamente che un giorno il bambino diventerà Batman, ma l'elemento è coerente con la sua contorta morale interiore e favorisce quindi la sua fantasia, trovando conferma nei precedenti visti nel film stesso: Bruce, come già il nano pagliaccio e la vicina di casa nera, è una persona che non è mai stata apertamente ostile, ad Arthur e quindi la sua vita può essere risparmiata.
 Accettando questa ipotesi di improvviso capovolgimento narrativo, ciò che è certo è che Arthur, in manicomio chissà da quanto tempo, subisce la metamorfosi in Joker proprio dopo aver vissuto questa fantasticheria (ed ecco quindi il suo primo omicidio ufficiale, le impronte di sangue e l'emersione del suo ego perversamente comico, nella nerissima scena umoristica finale in cui fugge sghignazzando dagli infermieri che vogliono acchiapparlo).

 Il retroterra fumettistico

 Per chi ha vissuto il fermento e la rivoluzione fumettistica degli anni 1980, il film "Joker" è una rivelazione, simile alla scoperta di un capitolo mancante che proviene proprio da quegli anni. E' "Joker: Anno Zero", come avrebbe potuto realizzarlo Frank Miller; abbiamo già citato la sua opera fondamentale e innovatrice, ma senza scendere nello specifico.
 L'intero film, con il suo perverso meccanismo di caduta in disgrazia e riscatto (non una redenzione, ma una sua versione antitetica, come una apoteosi inversa che lo fa ascendere tra le divinità infere) ricalca esattamente il percorso che segue il Daredevil di Frank Miller, supereroe che sprofonda nella follia e si redime tra il fuoco e le fiamme, in un dolorosissimo percorso interiore durante il quale la sua vita va a pezzi e tutte le sue convinzioni si frantumano.
 La presenza maligna e invasiva della televisione, nella forma di talk show rimbecillenti e manipolatori, è una costante dell'opera di Miller: oggi ci sembra un'ovvia constatazione, ma in quell'epoca l'autore fu tra i primi a descrivere l'impatto e la manipolazione attuata dai media con una tale lucida schiettezza (soprattutto in Dark Knight).
 L'idea del supercriminale che finisce in un talk show in cui "libera" il veri se stesso sembra a sua volta un omaggio all'analoga sequenza del sicario Bullseye in Daredevil.
 L'inquadratura degli schermi televisivi multipli, all'apice emotivo del film, dopo l'omicidio del conduttore Franklin, è una citazione esplicita della ricorrente e ossessiva cifra stilistica di Frank Miller, scelta e voluta come a dare definitiva conferma allo spettatore che già da tempo sospettava che la pellicola attingesse all'immaginario fumettistico in questione.
 Più convenzionali, ma sempre tipiche dell'opera di Miller, sono i temi del personaggio mentalmente sofferente e incompreso, che si ritrova smarrito in una labirintica e indifferente città del degrado, dal volto graniticamente distante, e finisce per cercare di farsi giustizia da solo. Di certo, solo Miller e pochi altri epigoni hanno saputo raccontare il dolore del monologo interiore di queste vittime inconsapevoli con la stessa bravura registica di film come "Joker", sia in termini di fotografia (esiste anche nel fumetto) che di dialoghi.

 Ma la competenza fumettistica non si ferma qui, e ci sono altre fonti a cui gli autori hanno palesemente attinto.
 Nella gestione del movimento di rivolta, nei loro comportamenti, nella loro psicologia della ricerca di un capo fortemente rappresentativo, c'è la forte presenza dell'opera di Alan Moore, ma ppiù per V For Vendetta che per il suo Killing Joke, che non mi ha mai convinto e che non riesco a considerare alla pari delle opere di rienvenzione radicale citate in precedenza.
 Nel mondo di fantasia del Joker, dove le persone sono a volte gentili con lui, mostrandoci scorci di una semplice quanto struggente bellezza dei veri (e morenti) sentimenti di Arthur, che sboccia anche nella lurida bruttura del contesto sociale di Gotham, c'è probabilmente anche la consapevolezza delle intuizioni di Grant Morrison, che nella sua serie Justice League Of America ci mostrò proprio una rivelatoria incursione telepatica nel profondo della folle mente del Joker, dove gli eroi scoprivano un segretissimo e inconfessabile desiderio di uno scenario idilliaco, equivalente alle fantasie di Arthur nel film.

 Da segnalare almeno due omaggi alla già citata serie televisiva degli anni 1960, che nella sua chiassosa e colorata esagerazione naif è comunque ormai parte dell'immaginario collettivo.
 Arthur si mette elegante indossando gilet e pantaloni color bordeaux, esattamente come il completo del Joker televisivo.
 Nel giardino della magione di Thomas Wayne c'è un'elaborata struttura a due piani per i giochi del piccolo Bruce. Per scendere da questa "casetta", Bruce scivola lungo un palo come quelli delle caserme dei pompieri. Nella serie televisiva, Bruce Wayne raggiunge la Batcaverna attraverso un passaggio segreto dietro una libreria mobile, scivolando lungo un analogo palo.

 Il boicottaggio negli Stati Uniti

 Inspiegabilmente enfatizzata dalle testate "giornalistiche" di internet è la campagna denigratoria contro questo film da parte di un gruppo di offesissimi attivisti dell'area "progressista" tipica degli Stati Uniti, i quali hanno lanciato accuse sdegnate quali l'errata trattazione narrativa delle malattie mentali (per la quale costoro avrebbero lasciato la sala cinematografica a inizio proiezione, quindi senza minimamente capire il contesto della narrazione), oppure la giustificazione e l'incentivo della violenza dei cosiddetti incel (maschi involontariamente celibi, quasi come se servisse un film proiettato in una sala per spingere un pazzo a fare una strage; dove li mettiamo internet e la televisione e l'industria degli armamenti che rende ricchi gli USA?), oppure l'incoraggiamento dei disordini alimentari in quanto River Phoenix è scheletrico (quindi la malattia mentale dell'anoressia è descritta correttamente? Ma non dicevano il contrario), e via di improvvisazioni imbarazzanti.
 Queste motivazioni da arrampicata sullo specchio sembrano atte semplicemente a celare le vere motivazioni dei detrattori, perchè squalificherebbero quei cacciatori di gloria e visibilità che, su Twitter e simili, non esitano a scagliarsi contro qualsiasi cosa pur di farsi notare e di mostrarsi alla moda nell'essere più radicalmente progressisti di chiunque altro (questo è il motivo per cui tali personaggi finiscono immancabilmente per aggredirsi a vicenda, con lo scopo di annientare la concorrenza).

 Come osservato in precedenza, il regista di "Joker" non si sta adeguando all'ideologia dominante di Hollywood, quella che esige obbligatoriamente e ciecamente l'applicazione del politicamente corretto per riscrive la storia e la realtà, nonchè l'applicazione coatta della regola delle quote etniche e di sesso a qualunque situazione (a prescindere dal talento e dai dati di fatto) .
 Per la precisione, Phillips pecca nei seguenti modi (che illustriamo con un registro volutamente sguaiato), tutti ascrivibili alla banalissima scelta di descrivere la realtà secondo i modelli che la statistica conferma come i più frequenti, invece che edulcorarla con le menzogne allo scopo di non offendere nessuno: i delinquenti dei bassifondi appartengono a un'etnia ispanica o nera, invece di essere maschi bianchi ariani (perchè secondo i suddetti fanatici, i maschi bianchi eterosessuali sono da dipingere sempre come la causa di ogni male);  le donne non sono abbastanza migliori, più potenti, più sagge degli uomini (mentre è obbligatorio che le quote rosa siano sempre indiscutibilmente superiori); gli oppositori della piazza (cioè i progressisti) sono dipinti come violenti e distruttivi, dato che il regista li ritrae onestamente, attingendo alla cronaca, così come dipinge con schiettezza la ricca classe dirigente (i "trumpiani"), quando invece il regista dovrebbe ignorare la cronaca e dare un quadro idilliaco e nobile degli oppositori; il regista osa dire che Arthur è cresciuto male perchè gli mancava una figura paterna (quando invece dovrebbe dire che il maschio eterosessuale è il male incarnato, il patriarcato è la causa di ogni male, la famiglia eterosessuale non ha diritto di esistere); non c'è alcuna rappresentanza (leggi "quota obbligatoria") di qualunque genere di minoranza non eterosessuale.
 Come se qualcosa di questa campagna di indottrinamento coatto, identica al "pensiero unico" imposto da dittature e totalitarismi, importasse minimamente in termini di qualità, talento e obiettivi del film.

 La proiezione del film è stata anche preceduta da allarmismi relativi al rischio di qualche psicopatico che facesse strage nei cinema in cui  "Joker" sarebbe stato proiettato.
Non è accaduto.

Nessun commento:

Posta un commento