venerdì 11 novembre 2022

Gods of Egypt

 "Gods of Egypt" (2016), diretto da Alex Proyas e scritto da Matt Sazama e Burk Sharpless, è un film statunitense a tema fantamitologico.
 
 Stroncato ripetutamente e con motivazioni curiose, questo film è  da godere per quello che è: una classica avventura da videogioco, e quindi corredata di un barocco immaginario visivo fastosamente ibrido, con una solida trama strutturata secondo il classico schema del personaggio che, a causa della propria immaturità, deve ancora assurgere allo stato di eroe, e acquisisce tale consapevolezza solo dopo aver compiuto il percorso di caduta in disgrazia e redenzione, aprendo infine gli occhi sul vero significato dell'essere un dio.
 
Il mondo in cui ci si muove è quello variegato e contraddittorio della mitologia egizia, su cui gli autori si sono documentati con diligenza, sia per la connotazione degli dei, sia per gli eventi in cui sono coinvolti, sia per la molteplicità di versioni divergenti che in diverse epoche è stata data della stessa teologia, per motivi quasi sempre politici. E' intelligente l'utilizzo della doppia natura della dea dell'amore Hathor, che mantiene anche il volto di signora del mondo dei morti, in una trovata narrativa "originale" che giustifica questa doppiezza legandola alla trama. E' ben trovato il momento in cui Ra convoca il figlio Set per comunicargli di averlo scelto come erede del fardello del tragitto solare, coerentemente  con il mito secondo cui Set, per quanto visto come divinità negativa, accompagna Ra nella sua missione quotidiana di difesa del mondo. Inevitabili sono le scelte specifiche tra le varie versioni del mito: per esempio, la suddetta Hathor è vista qui come la compagna di Horus, e si ignorano quindi le varianti in cui è invece sua madre. Il dio solare Ra, qui riconosciuto come divinità al di sopra di tutte le altre (e quindi nella sua incarnazione di Amon-Ra, nata durante la XII Dinastia), risiede oltre la stratosfera, naviga su una grandiosa barca celeste che rappresentare il tragitto diurno del sole, e deve quotidianamente scontrarsi con Apopi, la mostruosa incarnazione della notte e del caos. Ra è presentato come il padre di Set e Osiride, sebbene tradizionalmente ne sia il fratello: esiste comunque una tarda variante del mito in cui Ra sarebbe il vero padre di Set.

Il soggetto della storia è estremamente classico, e attinge alla mitologia nota, sviluppandola in maniera tecnicamente divergente, ma ampiamente consolidata nella narrazione di tipo supereroistico e/o avventuroso. E' una trama fortemente lineare, sebbene narrata in un modo corale che richiede un minimo di sforzo mentale per ricavare le chiare connessioni narrative (senza che il dio di turno debba continuamente esibirsi in uno spiegone per aiutare i bambini meno svegli). Il geloso e sterile Set, dio del deserto e della violenza, uccide il fratello Osiride e la cognata Iside, acceca il nipote Horus e prende il potere sull'Egitto, ma questo è solo l'inizio: impossessandosi degli organi vitali più importanti degli altri dei (dalle ali della propria sposa all'occhio di Horus, passando per il cervello di Thoth), ambisce a raggiungere un livello di potere che gli consentirà di vivere in eterno e ricreare il mondo da zero, dopo averlo fatto consumare da Apopi. La prospettiva umana di questo colossale scontro divino è rappresentata dal ladruncolo Bek e dalla sua sfortunata compagna Zaya: partecipi dell'intrigo per restituire il potere a Horus, il loro ruolo più importante (che però non li rende illogicamente più furbi o potenti degli dei) è quello di fungere da catalizzatori per la presa di coscienza etica da parte delle divinità protagoniste.

 Come tipico nelle produzioni Hollywoodiane, i siparietti umoristici hanno un ruolo non indifferente, che va dagli scambi di battute e frecciatine bisbetiche tra dei e umani fino al sarcasmo di Hathor, che preferisce una spaventosa gita tra i demoni dell'Oltretomba alla fatica di camminare nel deserto. Assai esasperata è l'istrioneria dell'onniscente Thoth, che riesce a essere il dio più comico del film, ma anche quello con il più profondo talento analitico, in un convenzionale ma ben riuscito contraltare (che, su diversi livelli, caratterizza necessariamente tutte le divinità del film).
 
 La componente digitale ha successo nel creare ambientazioni baroccamente egizie e irresistibilmente evocative nella loro sfavillante opulenza di palazzi, georglifici, oro e pietre preziose, ma zoppica più di una volta nell'animare i mostri colossali e le agitate e feroci sequenze di battaglia, dove la risoluzione dei dettagli sembra perdersi per strada. Convince poco anche la trasformazione degli dei dalla forma umana a quella di animali antropomorfi metallici, per via dell'eccesso di "fantascientificità" delle loro figure, molto distante (forse troppo) dall'iconografia bidimensionale a cui siamo abituati (è anche vero che sarebbe stato difficile usare questa iconografia per inscenare le ambiziose battaglie aeree con cui i produttori del film miravano a ottenere il tipico spettacolo smargiasso e fracassone dei film di Hollywood).

 Tra gli attori spiccano Gerald Butler (il cui "malvagio" Set, per quanto esaltatamente spietato, ha i suoi credibili momenti in cui lo spettatore può provare un minimo di empatia), Élodie Young (una Hathor capace di passare dall'acido sarcasmo al sacrificio supremo in nome del proprio ruolo divino) e il veterano Geoffrey Rush (un solenne, ma nello stesso tempo amorevole e giusto, dio Ra che è "padre di tutti"). Molti altri film dimostrano quanto sia difficile rendere la caratura di una divinità, proiettata su piani dell'esistenza incomprensibili ai mortali, eppure incarnata in un corpo fisico, e quindi soggetta ai capricci dell'umore e della fisicità: gli attori di Gods of Egypt ci riescono con efficacia, facendo propri certi dialoghi che, in un altro contesto, sarebbero ridicoli, ma qui illustrano invece la sfaccettata complessità dei molteplici volti di ogni divinità, con alcuni tocchi memorabili come quando Horus fa pesare la propria divinità sul ladruncolo mortale Bek, oppure quando Ra sentenzia ieraticamente e onniscientemente nelle situazioni di crisi che deve affrontare.

A fronte della natura piuttosto schietta del film, che mira chiaramente a intrattenere senza altre pretese, puntando sull'evocazione suggestiva e spettacolarizzata di un mondo di fantasia (come tutti i mondi basati su credenze religiose), la cui iconografia è saldamente parte dell'immaginario collettivo, non si capisce quindi la corsa alla stroncatura delle recensioni presenti su internet, basate quasi sempre su motivazioni acidamente pretestuose e poco consistenti, tanto da far pensare a un'operazione concertata a tavolino per far affondare il film.
 Che senso ha, se non quello della capziosità, contestare aspetti risibili come l'etnia degli attori di un film che non solo è stato prodotto a Hollywood, negli Stati Uniti, ma è anche ambientato in un'epoca fittizia, mai esistita, in cui può letteralmente essere accaduto di tutto? Sembra di assistere a una replica della solita farneticazione di certi gruppi che sostengono ideologicamente che gli Antichi Egizi dovevano essere per forza tutti quanti neri come i Nubiani, perché in Africa ci sono solo neri-neri (si vedano le crociate Afrocentriche contro il videogioco Assassins Creed Origins). E veramente qualcuno contesta l'assenza di accento mediorientale, come se gli dei egizi parlassero davvero in inglese? Nessuno di questi denigratori si è reso conto che si tratta di un film implicitamente "doppiato", come accade per tutti i film storici o fantastici ambientati in regioni non anglofone?
 Non può mancare l'immarcescibile e sprezzante paragone con i videogiochi, come se ciò svilisse il film: noi l'abbiamo usato, ma in senso opposto, perché consci dell'elevatissima qualità narrativa che è stata raggiunta dai videogiochi moderni, in termini di documentazione storica, solidità delle trame, complessità delle caratterizzazioni, accuratezza delle ambientazioni. Cosa aspettano i presunti recensori, che vorrebbero  essere più competenti e illuminati del volgo, ad abbandonare l'uso di questo presuntuoso, datato e ormai falso luogo comune come pietra di paragone negativa?
 E' imbarazzante anche leggere i commenti sdegnati di chi puntualizza che l'architettura di questa immaginaria età dell'oro egizia, nella quale gli dei e gli umani coesistevano, presenta impossibili soluzioni sviluppate solo in seguito e da altri popoli: c'è davvero bisogno di spiegare che questo film è una storia di fantasia, che non è mai accaduta, e che gli dei egizi in carne e ossa alti due volte gli esseri umani non sono mai esistiti e non hanno mai convissuto con l'umanità, e quindi neanche le loro favolose città sono mai esistite? Che senso abbia reclamare un realismo architettonico e storico, in un contesto del genere, lo può sapere solo chi si nasconde dietro queste scuse fittizie per stroncare il film, occultando altre motivazioni faziose e inconfessabili.
 Altrettanto desolante è l'impreparazione dei recensori improvvisati che contestano al film il tradimento della mitologia egizia: oltre a ignorare la complessità e la contraddittorietà della stessa (come abbiamo già spiegato in precedenza), sembra proprio esserci una lacuna colossale sull'argomento, tanto da far pensare che la stroncatura faccia affidamento sul pregiudizio deliberato del lettore, nonché sulla sua superficialità. Incredibilmente, c'è chi ha autorevolmente dileggiato la raffigurazione di Ra, lasciando intendere che un tizio su una "astronave" che combatte un "mostro/demone" è una specie di baracconata del tutto avulsa dal contesto: eppure, al lettore prudente basta consultare Wikipedia per scoprire come essa sia aderente al personaggio (e lo abbiamo già detto), e quindi per farsi venire qualche dubbio sulla sincerità e l'affidabilità della stroncatura dell'esperto di turno.

lunedì 7 novembre 2022

"A Monster Calls" - "Sette minuti dopo la mezzanotte"

 "A Monster Calls" (2016), in Italia "Sette minuti dopo la mezzanotte", scritto da Patrick Ness e diretto da Juan Antonio Bayona, è un film fantastico e drammatico di una coproduzione statunitense-britannico-spagnola, basato sull'omonimo romanzo scritto proprio da Patrick Ness.

 Il dodicenne irlandese Connor O'Malley vive un'adolescenza difficile, tra la madre gravemente malata, il padre assente e divorziato che vive negli Stati Uniti, l'algida nonna che pensa solo al lavoro e i compagni di classe che lo bullizzano. Incapace di elaborare il dolore e i propri sentimenti, Connor riceve aiuto dal proprio inconscio, che si manifesta nei suoi sogni a occhi aperti sotto forma di un colossale mostro arboreo, forma umanizzata di un albero di tasso che sorge in un cimitero vicino alla casa di Connor. A ogni sua visita notturna, il mostro racconta a Connor un ingannevole racconto fantastico e moraleggiante, che funge da catalizzatore catartico e che serve al ragazzino per affrontare (in maniera drammatica e violenta) i propri blocchi psicologici, nonché a elaborare le emozioni che sta reprimendo (e che si risolvono nella forma di un ultimo racconto, opera dello stesso Connor).

 Con i toni della favola (certi eventi estremi causati da Connor nella "realtà" non hanno le conseguenze che la logica e la legge richiedono), questo complesso film è un racconto del passaggio all'età adulta (o se si preferisce una definizione impropria, ormai costantemente abusata e usata a sproposito, un "romanzo di formazione"), classico dal punto di vista del concetto, ma narrato in maniera originale, e arricchito da un'insolita venatura gotica, densa di simbolismi e simmetrie. L'albero di tasso, che qui si presenta al ragazzo come albero curativo, è un albero velenosissimo, ma una sua molecola è effettivamente usata anche per terapie mediche antitumorali, e sorge in un cimitero (che nel mondo onirico è l'ossessione di Connor, nonché il luogo della sua catarsi); dal mostro non giunge la cura per la madre malata, come spera Connor, ma piuttosto la cura per la psiche dello stesso Connor, la quale culmina proprio con l'inevitabile morte della madre; costei, lungi dall'essere una semplice vittima della vicenda, è in realtà fattrice della salvezza del figlio, perché, come si scopre nel finale, la figura del mostro-albero scatturisce proprio dal lascito culturale e immaginario che lei gli ha amorevolmente trasmesso con il proprio talento artistico. Sono da notare anche le numerose e variegate annotazioni, che vanno dalla sfaccettata caratterizzazione del protagonista (tutt'altro che una semplice vittima da compatire stucchevolmente, ha invece i suoi difetti e lati oscuri) alle convinzioni culturali dell'autore (non importa quali disastri combini, Connor non viene mai punito dagli adulti, che di fronte alla sua domanda "non sarò  punito?", danno sempre la programmatica risposta "A che scopo?).

 In questo interessante impianto narrativo, di per sé già accurato e ragionato, notevoli sono i tre racconti del mostro, sia per la concezione di ambigue fiabe dove il bene e il male sono difficili da riconoscere, sia per l'esecuzione tecnica: si tratta infatti di sequenze animate con una tecnica stilizzata e impressionista, molto evocativa e incisiva, che riflette con efficacia il messaggio trasmesso dalle storie. Nel percorso di acquisizione dell'autoconsapevolezza del protagonista, quindi, rientrano anche le scelte tecniche come questa, apice di una regia competente, le cui cupe scelte visive e cromatiche e la cui fotografia dimostrano una profonda comprensione del testo che vogliono narrare.

 Nel ristrettissimo gruppo di attori, il giovanissimo scozzese Lewis MacDougall (classe 2002) svolge un ottimo lavoro, aiutato anche dalla sua peculiare fisionomia, nel raffigurare il bizzarro e indecifrabile protagonista, col suo carattere chiuso e ostico. Nei panni dell'efficiente e gelida "nonna in carriera" c'è nientemeno che Sigourney Weaver, attrice che pur essendo del 1949, è sempre così in forma da essere poco credibile nei panni di una nonna (a meno che la figlia non abbia al massimo 22 anni), e per metà del film ci si aspetta che butti via le palandrane per imbracciare un lanciafiamme e bruciare il mostro-albero. Quest'ultimo, notevolmente ben visualizzato dalla grafica computerizzata, vanta il notevole apporto della voce cavernosa ed evocativa di Liam Neeson, che gli conferisce la giusta dimensione di solenne e sfuggente creatura ancestrale, a metà tra il genius loci e l'archetipo psicanalitico.