martedì 25 febbraio 2020

The Aviator (2004)

 "The Aviator" (2004), diretto da Martin Scorsese e scritto da John Logan, è un dramma biografico sulla vita dell'imprenditore, regista, aviatore e produttore cinematografico Howard Hughes jr. (1905-1976).
 Tra gli anni 1920 e il 1947, segnato da una fobia per i germi probabilmente indotta da un'epidemia di colera verificatasi durante la sua infanzia, Howard Hughes usa l'enorme fortuna di famiglia per inseguire le proprie ossessioni aeronautiche e cinematografiche, mietendo successi e incassando sconfitte, mentre colleziona storie d'amore (più o meno vere) con grandi donne del cinema come Katharine Hepburn e Ava Gardner. Oltre al suo disturbo ossessivo-compulsivo, che cresce fino a sopraffarlo periodicamente, Hughes deve anche fare i conti con la devastazione del suo fisico causata da terribili incidenti di volo, durante il collaudo degli aerei che progetta.

 Con una regia, una narrazione e una fotografia di sicura garanzia, grazie al nome di Martin Scorsese, questo bizzarro film sceglie un'ottica narrativa ben precisa per raccontare la variegata lotta sociale e personale che Howard Hughes condusse sin da giovane, ed è questa decisione a determinare il gradimento dello spettatore, perchè Scorsese prende quasi sempre le parti dell'imprenditore contro il resto del mondo, sorvolando sugli aspetti più oscuri del personaggio (la sifilide che gli corrodeva la mente) e celebrando trionfalmente i suoi (oggettivamente notevoli) successi nell'ingegneria aeronautica e nelle battaglie politiche (lui stesso fu un corruttore, ma andò contro un Congresso che aveva la pretesa di volerlo colpire pur essendo a propria volta corrotto da altri imprenditori).
 Se quindi, nella pellicola, l'imprenditore brilla nel campo del cinema e dell'industria, e l'uomo sprofonda nel vortice di una psicosi declinata in modi atroci, è anche vero che il contesto in cui si muove (i favolosi anni 1920 e successivi), pur essendo mirabilmente ricostruito in ambientazione, costumi, musica e iconografia, risulta allo stesso tempo curiosamente falso, come una parodia stilizzata in cui tutti i comprimari sono figure quasi caricaturali che recitano in un'epoca fittizia e idealizzata (il personaggio di Errol Flynn è il più rappresentativo di questa categoria). Sembra quasi che Scorsese voglia affermare che Howard Hughes sia l'unico essere umano "vero" di quella vicenda, l'unico di cui valga la pena raccontare le vicissitudini di quei decenni, con due sole eccezioni nelle belle figure dell'affascinante ed eccentrica Katharine Hepburn e della volitiva e seducente Ava Gardner.
 Se però si sceglie l'interpretazione più negativa del senso dell'opera, e cioè quella della metafora critica del sogno americano, ecco che il film acquista un altro significato, come se Hughes fosse lo specchio della sua stessa nazione: negli USA, non solo è tutto finto, ma si trasforma progressivamente in un incubo, a prescindere dai grandi successi di chi ci vive.

 Sul versante degli attori,  se Cate Blanchett e Kate Beckinsale lasciano un segno con la loro elegante e incisiva interpretazione delle memorabili Katharine Hepburn e Ava Gardner (in particolare, Cate Blanchett merita di essere ascoltata in lingua originale), non si può dire altrettanto del protagonista Leonardo DiCaprio, che pure ci mette tutto se stesso nell'interpretare una figura complessa e problematica come Howard Hughes: forse è la voce stridula e da ragazzino di DiCaprio, che non gli riesce di camuffare tanto facilmente; forse è l'aspetto troppo patinato, anche quando dovrebbe "fare spavento" (come nella lunga sequenza in cui Hughes, in preda ala sua ossessione psicotica, si rinchiude nella propria villa, nudo, senza pià radersi, intento a collezionare urina in bottiglie), ma il personaggio di Hughes risulta riuscito solo a metà, e cioè nella componente dei dialoghi e dell'interpretazione, che però viene sminuita da una levigata estetica "da pupetto" che nessun trucco riesce a smorzare.
In parti più o meno secondarie compaiono anche nomi come la cantante Gwen Stefani (Jean Harlow), il versatile Jude Law (Errol Flynn), Alec Baldwin (l'imprenditore Juan Trippe), che svolgono con impegno il loro ruolo, probabilmente divertendosi nell'assecondare le ambizioni di Scorsese e nel fare da contorno al concentratissimo DiCaprio.

Con la sua durata di 170 minuti, il film potrebbe spaventare per la potenziale pesantezza narrativa, ma la sua narrazione-fiume ha la capacità di scorrere con l'arguta leggerezza della cronaca scandalistica (che è ovviamente fondamentale per un film biografico e voyeuristico), tenendo desta l'attenzione proprio sfruttando la curiosità dello spettatore per il pettegolezzo pruriginoso. E mentre così lo alletta, il film gli illustra subdolamente un intero tessuto sociale storico, dalla corruzione dell'industria a quella della politica, dalla vacuità del jet set statunitense alle storture del capitalismo, dagli anni 1920 alla Seconda Guerra Mondiale, dalle commistioni tra finanza e scandali agli inconfessabili giochi di potere che accompagnarono la nascita della globalizzazione.

 Il perverso e voyeuristico fascino che le sequenze dedicate agli apici psicotici di Hughes esercitano senza dubbio su chi ha i l gusto dell'orrido e del morboso, si amplifica a dismisura se lo spettatore è anche un appassionato della serie The Simpsons, e quindi si ricorda con entusiasmo dell'episodio 10 della stagione 5, $pringfield (Or, How I Learned to Stop Worrying and Love Legalized Gambling), nel quale il signor Burns si fa cogliere da megalomania imprenditoriale, costruendo un favoloso casinò, ma sviluppa una germofobia ossessiva e si dedica alla progettazione di aerei.
 E' sia esilarante che disturbante riconoscere elementi cruciali del film nelle scene animate interpretate da Burns. Il suo modellino si chiama "spruce goose", in italiano "elefante elegante", cioè "oca di legno", come era spregiativamente chiamato il colossale Hercules progettato da Hughes. Ci sono scatole di fazzoletti di carta ovunque, anche sui piedi del signor Burns, perchè coi fazzoletti usa-e-getta Hughes evitava il contatto coi germi. E quando finalmente Burns decide di gettare tutte quelle carabattole, Smithers gli chiede "E i campioni di urina?", e Burns risponde "Quelli li teniamo", in riferimento a come Hughes conservasse la propria urina in bottiglie del latte. Divertimento memorabile.


domenica 16 febbraio 2020

"Snowden" (2016)

 "Snowden" (2016), diretto da Oliver Stone con sceneggiatura di Luke Harding (autore del libro The Snowden Files) e Anatoly Kucherena (autore del libro Time of the Octopus), è un film biografico e drammatico che racconta come Edward Snowden, lavorando per la CIA e la NSA a vario titolo, nel 2013 giunse alla decisione di denunciare pubblicamente l'abuso che le agenzie commettevano (e commettono tutt'ora?) intercettando e raccogliendo da internet ogni possibile informazione privata, contenuti di chat ed email compresi, sui cittadini di tutto il mondo.


 La storia di Edward Snowden, che ha occupato le cronache per mesi, è ben nota: gli Stati Uniti non gradiscono di essere stati colti con le mani nel sacco, mentre acquisiscono qualunque tipo di dato telematico internazionale per garantire la propria egemonia mondiale con ogni mezzo (dagli omicidi tramite droni ai ricatti), e trasformano quindi un occhialuto nerd millenniale, biondino ed educato, nel nemico numero, riservandogli un trattamento feroce degno di un terrorista,  finchè questi non trova rifugio in Russia.

 Genio informatico e "smanettone", definito dagli amici "un po' un automa", Snowden era cresciuto a pane e patriottismo, e nel suo fervore idealistico, nutrito dalla ben nota propaganda nazionalista statunitense, si era arruolato nelle Forze Speciali dell'Esercito Statunitense, convinto di dover fare la propria parte per liberare il resto del mondo dall'oppressione, portando la salvezza della democrazia. Fallita questa esperienza per motivi di salute, aveva offerto la propria, brillante mente alla nazione, lavorando per CIA e NSA, e sviluppando interi sistemi di sorveglianza elettronica, senza mai rendersi pienamente conto del potenziale negativo di simili strumenti. La sua ingenuità era tale da fargli guadagnare il soprannome di Snow White (Biancaneve) da parte dei suoi ben più smaliziati colleghi. Successive esperienze, fatte più o meno sulla propria pelle, lo condussero ad attriti con certi colleghi ambiziosi e spregiudicati, che usavano le informazioni carpite in segreto senza alcuno scrupolo verso le vite che distruggevano. Nel 2013, ci fu la proverbiale goccia che lo spinse a mollare tutto e a denunciare il comportamento di NSA e CIA, colpevoli di aver tradito lo spirito non solo della Costituzione degli Stati Uniti, ma anche tutti gli ideali dello stesso Snowden, che fino a quel momento aveva tenuto duro (anche a prezzo della propria salute), proprio nella convinzione di dover continuare a impegnarsi per garantire la sicurezza del proprio paese, a prescindere dalle mele marce in cui si imbatteva.

 Inevitabilmente, il regista Oliver Stone si è tuffato a pesce nell'occasione di narrare per immagine una vicenda intrisa di elementi in perfetta risonanza con le sue passioni socio-culturali e intellettuali, sposando senza esitare la causa della versione raccontata da Snowden: mentre altri critici hanno messo in dubbio l'onestà intellettuale del personaggio (che è comunque il creatore consapevole di molto del software di cui poi la NSA ha abusato), Stone crede invece allo Snowden idealista, con gli occhi pieni delle stelle e delle strisce della bandiera USA, forse un pochetto autistico, convinto di agire nell'interesse di tutti, e fondamentalmente incapace di concepire che nell'ambiente dello spionaggio si possano muovere personaggi meno che patriottici o addirittura disonesti.
 A riprova di ciò, Stone pone l'accento sullo spirito di sacrificio di Snowden, la cui abnegazione è tale da portarlo a immolare anche il proprio corpo sull'altare del dovere, prima distruggendosi le ossa delle gambe nelle Forze Speciali e poi rifiutando i medicinali per controllare l'epilessia, in quanto lo privano della lucidità necessaria per il proprio lavoro di informatico: come può qualcuno che dedica tutto se stesso alla causa, ci dice Stone, non essere sincero?
 Anche i colleghi di Snowden, in almeno due casi, sembrano essere stati consapevoli della peculiare ingenuità e sincerità del soggetto, tanto da volerlo aiutare e proteggere con discrezione: è il caso del personaggio interpretato da Keith Stanfield, che occulta la scheda microSD di Snowden con i dati trafugati prima che venga vista dai loro superiori, oppure dell'esperto di spionaggio elettronico Ben Schnetzer, che mostra a Snowden come funziona veramente il mondo in cui è immerso, e gli consiglia di fuggire prima che la sua crescente resistenza interna venga scoperta.

 Nel percorso di risveglio della coscienza di Snowden, Stone esalta il progressivo risveglio  dell'idealista che fa i conti con la realtà, ma ha anche cura di non dipingerlo come un ingenuotto che non ha capito nulla di come funziona il mondo: infatti, con l'intelletto che si ritrova, Snowden è in grado non solo di formulare (con mirabile proprietà di linguaggio) una denuncia del sistema, ma anche di montare una controffensiva che scoperchi il nido di vermi, mettendone a nudo gli inconfessabili segreti per dare al popolo la libertà di scegliere tra i diritti e la sicurezza, invece che subire le decisioni prese da altri. E' questa la vera essenza della Costituzione statunitense, è questo il vero spirito degli USA, ed è così che Stone smentisce i livorosi personaggi che lo accusano di non amare la propria patria, mostrando cone questi siano incapaci di accettare che qualcuno la voglia criticare per rimuoverne le storture e gli errori.

 Molto esplicita nelle metafore e nei paralleli (come il drone che precipita nel bel mezzo della festa hawaiiana, o la freddezza di Snowden quando va a caccia), la regia contrappone, con una fotografia limpida e luminosa, le ambientazioni naturali a quelle tecnologiche e claustrofobiche delle basi super-sicure di NSA e CIA, seguendo esclusivamente la parabola del protagonista, tramite il quale si scopre quanto necessario sui comprimari.
 La narrazione segue il classico schema della sequenza temporale portante ambientata nel presente (Snowden, già in fuga, incontra alcuni giornalisti investigativi in un albergo di Hong Kong) che si alterna alle sequenze della sua vita lavorativa passata che espandono le rivelazioni che lui fa progressivamente.

 Tra le numerose facce note degli attori, come il Ben Schnetzer del telefilm "The Truth About the Harry Quebert Affair" e Zachary Quinto e il figlio di Clint Eastwood, spicca per impegno e bravura l'attore protagonista, Joseph Gordon-Levitt.
 Gordon-Levitt incarna mirabilmente le peculiarità del personaggio di Snowden, coniugando la sua razionale e fredda pacatezza nell'approcciare la vita (o la sua "roboticità", come dice Snowden stesso) e i suoi sentimenti più profondi e mai esplicitati in modo emotivo, dal senso dell'etica e del dovere verso la patria (o meglio, verso i cittadini) all'amore che lo lega alla sua compagna: si tratta di una personalità atipica, rara, lontana dai canoni superomistici statunitensi e hollywoodiani, ma nello stesso tempo facilmente convogliabile nel solco squisitamente statunitense dell'eroe involontario e altruista, che una volta aperti gli occhi fa infallibilmente la cosa giusta.
 Sempre estremamente serio e riflessivo, il personaggio di Gordon-Levitt contribuisce a rafforzare la paranoica tensione che permea sottilmente tutta la storia: insieme all'ossessione di essere costantemente spiati, c'è infatti anche la gravità con cui Snowden vive il compromesso quotidiani tra i diritti del cittadino e gli abusi a fin di bene compiuti dalla NSA. E' quindi incredibilmente catartico e travolgente il momento in cui Snowden, dopo aver finalmente voltato le spalle a queste organizzazioni corrotte e deciso di smascherarle, si lascia andare in un liberatorio sorriso che simboleggia esplicitamente la rimozione del fardello morale che lo opprimeva. E' questo il momento in cui la soffocante tensione del film, che grava sullo spettatore col terribile peso della consapevolezza che l'argomento è atrocemente reale, si scioglie per dare una svolta redentrice, epica e piena di speranza, declinata dai limpidi e intelligenti dialoghi con cui Snowden (imbranato nella vita privata, ma incisivo e chirurgico sui mezzi di comunicazione) illumina letteralmente l'intera vicenda, spazzando via le menzogne del governo USA come un raggio di sole che perfora le nuvole. Stone sa benissimo che, sulla lunga distanza, CIA e NSA stringeranno semplicemente il laccio dei loro consulenti informatici, ma almeno per ora decide di chiudere con un finale di speranza, in cui confida che ci sarà sempre una persona con un minimo di decenza e umanità a dire di no alle perversioni in cui gli psicopatici a capo di aziende governative e multinazionali finiscono per trascinare tutti.

 Sorpresa finale: nell'ultima intervista che Snowden rilascia, Gordon-Levitt cede il posto al vero (e genuinamente più imbranato come attore) Edward Snowden, chiudendo il film con una accentuazione della componente documentaristica, a ricordarci che, per quanto ben filmato e diretto, ciò che abbiamo visto è tutto vero, e non avrà mai fine, non importa quanto noi si possa vigilare. 

giovedì 6 febbraio 2020

"Oblivion" (2013)

 "Oblivion" (2013), scritto e diretto da Joseph Kosinski, è un film di fantascienza avventurosa di grande effetto visivo, fortemente concentrato sulla figura del protagonista, un tecnico che manutiene la tecnologia su una Terra spopolata e devastata, finchè non smaschera le menzogne alla base della propria esistenza.


 Nel 2077, il tecnico-49 Jack racconta di essere uno dei pochi esseri umani rimasti sulla Terra, devastanta da una guerra senza quartiere contro invasori alieni chiamati Scavengers (sciacalli). Quelli come Jack, coordinati da una stazione orbitale chiamata Tet, si occupano dellla manutenzione e protezione delle idrotrivelle, colossali macchinari che prelevano l'acqua degli oceani per alimentare la fusione nucleare che sostenta il resto dell'umanità, trasferitasi su Titano, una delle lune di Saturno. Dopo essere sopravvissuto a un incontro con gli Scavengers che ancora infestano la superficie, Jack scopre che gli alieni hanno attirato sulla Terra una capsula di salvataggio contenente astronauti umani, rimasti ibernati sin da prima della guerra. Inspiegabilmente, questi astronauti sono sterminati dagli stessi droni da guerra che Jack manutiene quotidianamente e che fungono da guardiani delle idrotrivelle contro gli assalti degli Scavengers superstiti, Da questo momento, la vita di Jack cambia radicalmente, vedendo crollare tutte le premesse su cui era fondata.

 Ideato e diretto dallo stesso regista di "Tron: Legacy", questo film sfoggia fondamentali cifre stilistiche comuni, dall'algida narrazione che procede senza alcuna fretta, agli sterminati e desolati panorami disabitati in cui il protagonista si avventura durante l'epopea, passando per le vertiginose prospettive dell'asettico e perfetto appartamento ipertecnologico in cui abitano i protagonisti, collocato sopra le nuvole tempestose del pianeta. E' un fascino gelidamente elegante e stilizzato, quello che promana da questo immaginario di un futuro distortamente orribile, ma nello stesso tempo raccontanto con una rassicurante calma impersonale che consente allo spettatore di metabolizzarne gli aspetti angoscianti e di concentrarsi invece sul magnetismo ipnotico dell'esplorazione di un mondo divenuto nuovamente estraneo alla specie che lo dominava.
 Ambientazione e trama hanno ben poco di originale, ma è la confezione a fare la differenza, così ricercatamente fredda nella fotografia, nella limpidezza dei colori (anche nel deserto, sembra fare freddo) e nella purezza distaccata della colonna sonora elettronica (altro elemento che riporta a "Tron: Legacy").
 Altrettanto familiare è la definizione del protagonista. Non stupisce apprendere che Tom Cruise si sia interessato al progetto sin da prima del 2011, e abbia contribuito alla caratterizzazione del protagonista: il tecnico-49 Jack è un inconsapevole eroe per natura, che condivide con Cruise passioni quali la motocicletta (uno dei prodigiosi veicoli del futuro che Jack pilota con maestria), e che vive un'avventura disperata ed epica, da nobile guerriero solitario contro l'intero mondo, con toni che oscillano continuamente tra "La guerra dei mondi" (2005) e "L'ultimo samurai" (due film ben noti per essere stati fortemente plasmati dal divismo di Cruise).
 Anche in questo caso, l'usato sicuro funziona: Tom Cruise dà vita a un eroe d'azione che è anche astutamente rassicurante con la sua umanità e la sua innata bussola morale, compiacendo lo spettatore con il classico epilogo in cui l'uomo trionfa sempre sulle macchine, non importa quanto intelligenti, grazie al vantaggio di provare sentimenti d'amore che neppure la scienza più radicale può cancellare.

 Per gli appassionati di fantascienza realistica, lo scenario descritto da Jack risulta implausibile (e quindi sospetto) sin dall'inizio: l'idea che l'umanità, dopo una guerra globale, abbia le risorse per trasferirsi in massa fin su Titano (lontanissima luna di Saturno) è poco plausibile; che l'umanità, una volta giunta fin là, abbia bisogno proprio di prelevare acqua dalla lontanissima Terra per usare la fusione nucleare, è ridicola (l'idrogeno è presente in grande abbondanza ovunque, nel sistema solare; si stima che il 75% di Saturno sia composto da idrogeno). Ma è proprio la consapevolezza di questa falsità di fondo che aumenta il coinvolgimento nella visione, spingendo lo spettatore a notare consapevolmente tutte le piccole bizzarrie che indicano che qualcosa non torna, in questo scenario post-apocalittico gestito con la metodica organizzazione di un'azienda all'avanguardia. E quando finalmente tutti i pezzi del rompicapo vanno al loro posto, è ancora più stimolante cercare di immaginare una possibile soluzione che derivi dai pochi mezzi a disposizione degli umani superstiti (tra cui, ovviamente, la scaltrezza inspiegabilmente superiore e il cuore dell'uomo).

 Incentrata com'è sul personaggio interpretato (e definito) da Cruise, la trama non concede molto spazio ai comprimari, nonostante nomi quali quello di Morgan Freeman e di Olga Kurylenko, i quali si limitano a svolgere un compito funzionale al risveglio o alla realizzazione dell'eroe. Gli sviluppi, quindi, ristretti al solo personaggio di Jack, sono necessariamente lineari, per quanto di portata cosmica; l'azione è adeguatamente bilanciata e mescolata allo sviluppo del mistero che ruota intorno al vero destino della Terra e dell'umanità, e contribuisce a definire la caratterizzazione dei personaggi, per altro abbastanza schematica, anche se con il progedire della storia si comprende come in certi casi essa debba essere obbligatoriamente tale. Apparentemente confinata proprio a questo tipo di ruolo stereotipato e secondario, Andrea Riseborough svolge in realtà un efficace lavoro nello sviare lo spettatore, che cade nella trappola di classificarla come l'ennesimo "luogo comune" sulla moglie che attende a casa il marito che lavora.

 Come già si era capito in "Tron: Legacy", l'estetica visuale è un feticcio principe del regista, che in questo film ha dato a se stesso l'opportunità di scatenarsi con visioni planetarie di fortissimo impatto concettuale. Tra panorami immensi e surreali, dove piramidi capovolte fluttuano sopra gli oceani morenti, e ricurve tecnologie veicolari si dispiegano con leggerezza nei cromatismi del bianco e delle sfumature di grigio-azzurro , la visione più memorabile è probabilmente il bagno notturno nella piscina dal fondo trasparente, sospesa al di sopra di un tumultuoso cielo colmo di nubi ribollenti di lampi: un trionfo di immaginazione futuristica, lineare e pulita, grandiosa e trascinante, nella sua impossibile e fredda perfezione.

 E' stato osservato che, contrapponendo la tecnologia malvagia all'uomo "primitivo", con questo film Joseph Kosinski sembra regredire, e rinnegare la filosofia transumanista del suo precedente "Tron: Legacy", dove invece è una tecnologia estremamente avanzata a generare le nuove forme di vita del futuro, in un ambiente del tutto artificiale.
 Ma "Tron: Legacy" è del 2010, e non è stato scritto da Kosinski, mentre l'idea di "Oblivion" è opera sua, ed esiste sin dal 2005 (in forma di racconto breve): che sia questa, la visione più intima del regista?


mercoledì 5 febbraio 2020

"Magic in the Moonlight" (2014)

 "Magic in the Moonlight" (2014), scritto e diretto da Woody Allen, è una arguta e beffarda commedia cripto-sentimentale ambientata nei ruggenti anni 1920, incentrata sullo scontro tra una presunta sensitiva e un celebre illusionista che smaschera abitualmente i cialtroni.


 Il famoso illusionista Stanley Crawford, invitato sulla Costa Azzurra da un collega, si ritrova a dover sbugiardare una giovane medium statunitense, che si sta approfittando dell'ingenuità della ricca famiglia che li ospita. Ma non sembra esserci trucco, nei "numeri" della sensitiva, la quale non solo vede oltre l'identità fittizia di Crawford, ma ha "visioni" dei fatti più intimi della sua vita. Da sprezzante e implacabile scettico che era, Crawford inizia a dubitare: forse esiste davvero un mondo oltre a quello fisico?

 Con un ritmo vivace, dialoghi affilati e caratterizzazioni nitide, l'elegante e agile narrazione di questo film cattura persino lo spettatore meno interessato all'argomento di facciata, e cioè lo spiritismo d'epoca, condito con venature romantiche così sardoniche e cerebrali che a fatica giustificano l'etichetta "sentimentale" per una narrazione interessata soprattutto a discutere dell'eterna contrapposizione tra materialismo e spiritualismo, tra il desiderio di credere nell'aldilà per avere conforto psicologico e la volontà di vivere pienamente la vita senza aggrapparsi a illusorie promesse vincolate a un arbitrario bagaglio di regole, imposizioni e divieti superstiziosi.
 Nonostante l'argomento apparentemente oneroso, la narrazione mantiene sempre un tono brillante e leggero, sottilmente beffardo, anche grazie alle ambientazioni lussuose delle classi agiate in cui è ambientato il film, alla ricostruzione sontuosa di ambienti e abbigliamento, ai suggestivi panorami naturali, alle musiche deliberatamente scelte tra i pezzi più famosi e accattivanti, affiancati alle energiche sonorità dei Ruggenti Anni Venti.
 Per quanto più che l'umorismo sia il sarcasmo a dominare i toni dei dialoghi, la sardonica e raffinata cifra stilistica di Woody Allen risalta chiara, tanto nello sviluppo narrativo, quanto nel disincantato e logico carattere del protagonista, che affronta il cambiamento del proprio modo di essere (prima casca nella fola dello spiritismo, poi si lascia tentare dal "pensiero magico" della religione, e infine scopre cosa sia il vero, irrazionale amore) con un'impassibile accettazione, ma senza mai rinunciare a un approccio analitico, colto, involontariamente comico tra le righe, dominato costantemente dalla sua distaccata razionalità.
 La parabola narrativa che ne deriva mette inizialmente a disagio lo spettatore più razionale, che difficilmente digerisce uno sviluppo secondo cui il soprannaturale esiste, e per di più si manifesta quotidianamente con gli spiriti dei defunti che vanno alle sedute spiritiche per sollevare una candela; ma, in un secondo tempo, lo spettatore scope di essere stato beffardamente ingannato, con un colpo di scena "magico" (che peraltro lo spettatore a quel punto inizia a sospettare, ma anche a desiderare) a cui fa seguito un secondo finale riparatore, dove la razionalità trionfa, ma non senza aver fatto una generosa concessione al sentimento e ai bisogni emotivi dell'animo umano.

 Ottimamente scelti, gli attori interpretano con bravura e spontaneità i "tipi" che la sceneggiatura di Allen ha già definito puntigliosamente. Colin Firth affronta il ruolo più difficile ed esigente, incarnando lo studioso acculturato e razionale, costantemente sarcastico e sprezzante nei confronti degli ignoranti (di ogni ceto) che lo circondano, ai quali non risparmia osservazioni causticamente oneste sulle illusioni di cui infarciscono le loro vite. Notevoli sono i suoi dialoghi, dal lessico curato, forse un poco snob, ma soprattutto attento a utilizzare a pieno la ricchezza del vocabolario della lingua inglese. Emma Stone gli tiente testa senza fatica nel dare vita all'incantevole finta medium dallo sguardo candido e dal sorriso affascinante, mescolando astuzia e ingenuità nella sua fresca figura di giovane provinciale statunitense. Eileen Atknins, nei panni della vecchia e amabile zia del protagonista, è più un archetipo che un personaggio: con la sua saggezza spassionata e tranquilla, ma arguta, sembra essere un altro volto della personalità dello stesso Woody Allen (che ovviamente è la vera natura del protagonista).