lunedì 30 dicembre 2019

"Limitless" (2011)

"Limitless" (2011), diretto da Neil Burger e tratto dal romanzo "Territori oscuri" di Alan Glynn, è un incalzante film di fantascienza contemporanea.

 Scheda di "Limitless" su wikipedia.

 Il newyorkese Eddie Morra è il tipico scrittore mancato e divorziato che si ripromette da anni di scrivere un romanzo e nel frattempo vive a scrocco della sua fidanzata, finchè non viene lasciato. Incappando per caso nel suo ex cognato, Eddie assume un farmaco nootropo sperimentale (chiamato NZT-48) che gli aumenta le capacità cognitive, schiarendogli la mente e dandogli consapevolezza istantanea di qualunque ricordo presente nella sua memoria. Eddie completa subito il suo annoso romanzo, e si lancia immancabilmente nel mondo della finanza, attirandosi le ire della mafia russa.

 Basato su un'idea affascinante che è ricorrente nella fantascienza scritta da decenni, e in più armato del prodigioso arsenale visuale dei moderni effetti speciali, questo film fa di tutto per stregare lo spettatore fin dall'inizio, con una regia e una narrazione deliberatamente ipereccitate, per generare una sensazione di sovraccarico sensoriale che faccia vivere allo spettatore un assaggio dello stato alterato e accelerato in cui vive il protagonista della pellicola. Ed effettivamente, il film ci riesce: non dimentichiamo che il regista è lo stesso astuto ruffiano di  The Illusionist, che se ne intende di effetti speciali e narrazione ingannevole e manipolatrice.
 Se non fosse per alcune astute accortezze dei dialoghi (per esempio la frase che precisa che il farmaco NZT funziona meglio se sei già intelligente), il film sarebbe in parte contestabile, già durante la visione: ci sono almeno cinque punti in cu lo spettatore è più intelligente del protagonista e lo precede nel trarre certe ovvie deduzioni (mentre nel film è Morra a trarre sbalorditive deduzioni che lasciano tutti senza parole, partendo da labili indizi). Lo spettatore infatti anticipa che la scorta di NZT si esaurirà, che il farmaco avrà effetti collaterali, che la tasca segreta della giacca è stata svuotata dall'avvocato, che il misterioso concorrente finanziario è a sua volta vittima degli effetti collaterali del farmaco, che la mafia russa rivorrà i soldi prestati.
 Ma se si decide di sorvolare su questi aspetti, stando al gioco della sceneggiatura (che è autoconsapevole, tanto che il protagonista esordisce affermando che deve avere "fatto male i calcoli"), è possibile godersi questo film per quello che è: un'esaltante e scanzonata corsa sulle montagne russe, dove si continua a balzare freneticamente da  un contesto a un altro (fantascienza, azione, brivido, intrigo), passando da una situazione di difficoltà finanziaria a una fisica, ma sempre cercando una via di fuga cerebrale, in un continuo crescendo di esperienze diverse, momenti esaltanti, disorientanti alterazioni sensoriali, promesse ruffiane che si avverano appagantemente.
 Essendo calato in una rutilante New York che ci abbacina con le luci, il divertimento, la moda e il cibo, il film non lesina i luoghi comuni sul ventre molle della città, con i palazzoni popolari in cui si mescolano caoticamente varie etnie, la mafia russa che fa "Stato" a sé, e ovviamente il mondo più sordido di tutti, quello della finanza autoreferenziale.
 Quest'ultimo aspetto è quello in cui il film, solitamente brillante e aggressivamente patinato, si muove prudentemente: la finanza, che pure è un giro di denaro fine a se stesso, in cui sguazzano squali senza pietà, è quasi descritta come un mondo onesto, con multinazionali che si combattono, ma a suon di denaro vero per il controllo di proprietà concrete, e in apparenza agiscono correttamente, per quanto freddamente. Il protagonista, però, pur immergendosi completamente in quel mondo e facendovi un'originale e tempestosa carriera, si mantiene pulito, senza mai speculare sulla pelle degli azionisti, proprio come evita di sporcarsi le mani nello scontro con la mafia  russa: sebbene non venga in alcun modo sottolineato nel film, il protagonista ha un'etica che non vìola mai, quella di non uccidere e non approfittarsi dei più deboli, nonostante la superintelligenza che (come da stereotipo di n-mila produzioni filmiche, romanzesche e fumettistiche precedenti) dovrebbe renderlo del tutto indifferente alla vita e ai diritti degli altri esseri umani, divenuti così inferiori a lui. Ma ciò non accade: Eddie Morra mantiene la propria umanità, ed è proprio questo suo voler fare la cosa giusta, anche senza guadagnarci nulla, a rendercelo istintivamente simpatico, e renderci ancora più gradito l'idealistico finale, in cui finalmente il cattivo finanziere viene smascherato e presentato per il delinquente che è, mentre Eddie diventa addirittura un senatore, e respingendo i tentativi di ricatto e corruzione dello "squalo", promette implicitamente di esercitare il mandato in maniera onesta.
 Troppo ingenuo? Probabilmente sì, ma avevamo accettato la sospensione dell'incredulità e ci eravamo ripromessi di goderci questo film per quella favola moderna e sognatrice che è, dietro la scintillante patina della fantascienza, del thriller e degli incantevoli effetti speciali (uno su tutti, le lettere che piovono letteralmente tutt'intorno a Eddie quando riceve l'ispirazione a scrivere il romanzo).

 La colonna sonora, di Paul Leonard-Morgan, si accoppia perfettamente al film, e con la sua frequente riproposta del tema principale, oltre che con l'uso di brani già esistenti e particolarmente energici, conferma la natura fondamentalmente scanzonata e "leggera" della pellicola: i ritmi a volte travolgenti e a volte onirici, con picchi metallici, complementano e completano i vertiginosi artifici visivi della narrazione, ampliando la sensazione di sovraccarico sensoriale dello spettatore, ma anche in questo caso fermandosi sempre ben prima di sommergerlo veramente (e probabilmente è per questo stesso motivo che il protagonista ogni tanto è "stupido": non solo per esigenze di trama, ma per consolare lo spettatore, facendogli credere di essere comunque quasi alla pari con lui).

 Gli attori, dal mediamente famoso Bradley Cooper all'australiana Abbie Cornish (che sembra una giovane Nicole Kidman) passando per Robert De Niro, danno una prestazione più che digintosa, anche se non particolarmente memorabile: è inevitabile, in un film dove a contare è soprattutto il senso di meraviglia e lo sviluppo di una trama accuratamente progettata intorno agli eventi e al prodigio scientifico estremo.
 Se Bradley Cooper è abbastanza bravo nel passare da scapestrato/annebbiato a brillantone (anche grazie agli effetti speciali che gli illuminano gli occhi di azzurro), Abbie Cornish resta impressa per la sua effettistica e unica esperienza con il farmarco (quando diventa così furba da usare una bambina con pattini da ghiaccio ai piedi come arma contro il suo inseguitore). Robert De Niro è un efficace magnate, in cui si amalgamano i toni contraddittori del padre giusto ma severo e dello "squalo degli affari". Andrew Howard, attore gallese, si esibisce nel ruolo più esagerato e truce del film, quello del rozzo mafioso russo (!) che anche assumendo il farmaco, diventa brillante ma non perde il suo atroce accento russo né il suo amore per le sevizie fisiche.

Se guardate il film in lingua originale, vi divertirete a chiedervi cosa stia dicendo Eddie alla cameriera del ristorante italiano, quando, apparentemente, parla con lei nella sua lingua madre, grazie ai prodigi del farmaco NZT. Chissà se anche i dialoghi di Eddie in cinese, francese e russo sono altrettanto balordi?

mercoledì 25 dicembre 2019

"All Good Things" (2010) - "Love & Secrets"

 "All Good Things" (2010), in Italia "Love & Secrets", diretto da Andrew Jarecki e scritto da Marcus Hinchey, è un dramma criminale basato sulla vita dell'ereditiero Robert Alan Durst, che tra il 1980 e il 2001 si sarebbe macchiato di tre omicidi.

Scheda di "All Good Things" su wikipedia.

 Con Ryan Gosling e Kirsten Dunst a interpretare con bravura i protagonisti, il film inizia promettendo di essere uno psicodramma di qualità: la romantica storia che sboccia tra il ricco ereditiero e la popolana intelligente e studiosa, infatti, mostra venature inquietanti ancor prima di avere inizio; lei, troppo innamorata, non se ne accorge, ma lo spettatore nota immediatamente che lui nasconde una facciata da psicopatico. Col progredire degli eventi, gli indizi aumentano, la tensione cresce, e infine lei si ritrova in trappola, sposata a un rampollo ricchissimo e imprevedibilmente brutale, da cui non può divorziare senza restare povera in canna (la potente famiglia simil-mafiosa di lui gli dà accesso a un vitalizio, ma non gli ha intestato nulla).
 Il regista costruisce il mistero con tre piani narrativi temporalmente sfasati, anticipando così allo spettatore alcunio elementi che acquisiscono significato solo nella seconda parte del film, tra cui un enigmatico travestito che trascina sacchi neri da gettare in un fiume di notte: a non sapere che il film racconta fatti realmente accaduti, lo spettatore ipotizza immediatamente una citazione di "Psyco", e partendo da una premessa sbagliata, ci azzecca.
 Ryan Gosling è abile e convincente nell'interpretare l'indecifrabile ereditiero col suo fardello di un trauma psicologico infantile (vide la madre buttarsi dal tetto di casa, e andò a scuotere il cadavere per tentare di svegliarla) che lo rende disfunzionale nei momenti in cui la sua viziatissima vita incappa in qualche marginale difficoltà che per lui è inconcepibile, e soprattutto riesce a trasmettere il senso di furiosa violenza repressa che imperversa nella mente del suo personaggio, senza mai esplicitarla, dando letteralmente vita alla tensione che permea persino le scene più tranquille della prima parte del film. Kirsten Dunst è altrettanto brava nel delineare il suo commovente personaggio di donna innamorata e piena di sogni, che li vede spegnersi uno a uno, o che permette che siano calpestati nell'inutile tentativo di realizzare almeno quelli più importanti, mentre il cappio le si stringe intorno al collo e la disperazione inespressa cresce.
 Intrigante è anche la ricostruzione della scena newyorkese benestante degli anni 1970 e 1980, dalla moda al divertimento alla dissolutezza, nonchè degli intrecci tra potere economico e politico.
 Purtroppo (o forse no?), il regista deve anche fare attenzione a raccontare la vicenda senza rischiare una causa legale, in quanto Robert Alan Durst è ancora vivo, e sceglie quindi di non mostrare mai le scene di violenza dei crimini di cui Durst è accusato, tranne l'unico caso in cui Durst è stato effettivamente incriminato: solo in questa e in un'altra scena minore, il regista prende nettamente posizione nell'accusare Durst di essere un bugiardo e di aver ucciso scientemente, organizzando le cose per sviare le indagini. Molto più chiaro è invece nel raffigurare l'influenza esercitata dal denaro della famiglia di Durst su senatori e procuratori, che insabbiarono le indagini su Durst.
 L'esigenza di attenersi a un certo rigore cronachistico è ciò che impedisce al regista di indagare a fondo sulla personalità e le ragioni del protagonista, che alla fine risulta dipinto come un essere bipolare, in cui coesistono una gelida spietatezza criminale e una emotività infantile che scaturisce dall'incapace di controllare l'emersione del proprio io violento.
 Ma a mancare maggiormente è il culmine catartico che una storia di fantasia avrebbe obbligatoriamente richiesto: non necessariamente la punizione del malvagio di turno, ma un liberatorio momento di appagante rivelazione e illuminazione che metta a nudo i mostri del suo inconscio, anche dopo aver sancito la sua vittoria.
 E' invece all'insegna dell'ambiguità, nel non mostrare mai nulla di incriminante e di legalmente attaccabile,  che il regista riannoda tutti i fili della trama nel finale, facendoci capire quale sia la sua opinione sul personaggio, ma esitando un po' troppo nell'esplicitarla. Da qui deriva la generale delusione che dà il film, che non solo non riesce a proporre nulla di nuovo in termini di invenzioni narrative e analisi dei personaggi, ma col suo finale rinuncia anche a elargire una conclusione che sia, se non altro, in linea con gli elementi utilizzati a piene mani nella storia, e ormai relegati dallo spettatore al ruolo di stereotipi.

 Curiosamente, proprio questo film finì per condurre alla punizione di Dunst nella vita reale, dandoci quell'epilogo di trionfo della giustizia che molti spettatori avrebbero auspicato: in seguito all'uscita del film, il regista vinse l'ostilità di Durst tanto da riuscire a intervistarlo e produrre su di lui una miniserie, "Jinx" (2015), al termine della quale Durst si fece inconsapevolmente registrare dal proprio microfono (parlando da solo in bagno) mentre borbottava di averli uccisi tutti e tre.

 Il rigore cronachistico compare anche nella regia, volutamente fredda e meccanica, nel seguire i personaggi senza volerli raccontare; fanno eccezione le sequenze iniziali e finali, ricche di scene provenienti da (finti) filmati amatoriali che rappresentano l'innocenza perduta della giovinezza del protagonista.

 In Italia, il titolo non è stato tradotto, ma adattato, in un banalissimo "amore e segreti", scritto però in inglese: il perfetto epitaffio di una popolazione che rincorre affannosamente la terminologia inglese riempiendosene la bocca a ogni occasione, senza però averla studiata nè essere in grado di capirla al di là delle parole più semplici.
 "All Good Things"  è il nome del negozio naturista che il protagonista apre insieme alla moglie, all'insegna di un ingenuo romanticismo che rappresenta la sua componente psicologica non sviluppata, perchè bloccata dal trauma.
 E' anche un simbolo del suo desiderio di una vita semplice, lontana dagli intrighi e giochi di potere dell'impero familiare, il quale rappresenta la vita adulta da lui aborrita (proprio come aborrisce che la moglie voglia avere figli, studiare e laurearsi, agire di testa propria, parlare di se stessa).
 "All good things" è anche parte del detto che si completa con "come to an end", ed è uno degli indizi che mettono in guardia lo spettatore a inizio film.

The Curious Case of Benjamin Button (2008) - "Il curioso caso di Benjamin Button"

 "The Curious Case of Benjamin Button" (2008), in Italia "Il curioso caso di Benjamin Button", diretto da David Fincher, basato sull'omonimo racconto breve del 1922 di Francis Scott Fitzgerald, è un anomalo film in bilico tra il sentimentale e il fantastico.


 Alla fine della Prima Guerra Mondiale, nasce un bambino deforme che, già da neonato, presenta tutte le afflizioni corporee di un invecchiamento e un deteriormento corporeo che lo lasciano a un passo dalla morte. Allevato dalla governante di un ospizio, cresce credendosi un anziano come gli altri ospiti, ma col passare degli anni si rende conto che il suo corpo sta  ringiovanendo, come se fosse sotto l'effetto "simpatico" di un certo orologio della stazione ferroviaria, costruito perchè vada al contrario da un padre afflittto dalla perdita del figlio nella Prima Guerra. "Crescendo" al contrario, Benjamin esperisce la vita attraverso una prospettiva unica, intrecciando il proprio percorso con quello di persone che torneranno sempre da lui, in un modo o nell'altro, facendo sempre quadrare il cerchio della sua vita.
 La vicenda è raccontata dal diario di Benjamin, letto dalla figlia della donna che lui amò più di tutte, la quale giace ora in letto di morte, e sente il bisogno di riannodare l'ultimo filo sciolto della trama che è stata la discreta vita di Benjamin, svelandone la fine e il segreto che ella condivide con lui.

 Romanzo di formazione al contrario, questo film dallo svolgimento molto rilassato e meticoloso riesce a mantenere vivo l'interesse dello spettatore grazie a due elementi fondamentali: l'intrigante idea del personaggio che ringiovanisce col tempo, e il ricorrente cambio di scenario in cui il personaggio matura le proprie esperienze (dall'ospizio di New Orleans al bordello alla nave alla Russia e poi di nuovo a New Orleans e infine, chiudendo il cerchio, ancora all'ospizio).
 La narrazione sceglie un tono rassicurante, almeno in apprenza, evitando di puntare sul dramma in favore di un approccio minimalista e delicato. Il protagonista subisce naturalmente tutte le peripezie della vita e del cambiamento, ma non è ma travolto da grandi passioni, nè da tragedie sconvolgenti, neppure quando perde le persone che ama o la vita che desiderava. Andando oltre questo superficiale livello di lettura, si scopre un filone più amaro e malinconico che è la spina dorsale dell'intera narrazione e che ne spiega il ricorrente tono anticlimatico con cui si smorzano e ammorbidiscono ogni evento traumatico di distacco nella vita di Jeremy: l'allettante idea di ringiovanire col passare del tempo ha un suo prezzo, e implica una giovinezza capovolta in cui si costruiscono relazioni sociali diverse (vivendo in un ospizio, Benjamin è abituato a vedere morire chi gli sta intorno), nonchè una maturità negata in cui si rischia di fare da compagni di giochi ai propri figli, invece che da genitori. Benjamin vive esperienze memorabili, per quanto molto private, ma alla fine scopre di essere stato quasi uno spettatore dellla vita, e di aver ricevuto molto più di ciò che ha dato, da tutte le persone che hanno incrociato il suo cammino, tristemente destinato sempre a perderle, privo com'è della possibilità di invecchiare con loro. E' stata quindi una maledizione, la sua? Oppure è riuscito in ogni caso a vivere pienamente ciò che il caso gli ha assegnato, lasciando comunque una traccia di sè nella storia?
 Il doppio volto narrativo del film emerge anche nel contrasto tra la crudezza dell'arco narrativo del presente (in cui il grande amore di Benjamin sta morendo in ospedale, vecchia e malata) e la tonalità fiabesca del sottile elemento prodigioso (magico?) che connette i momenti cruciali della storia, dall'orologio che va all'indietro fino al colibrì che svolazza in luoghi impossibili, per accompagnare i personaggi nell'aldilà (come se si trattasse di un animale psicopompo). E' comunque un contrasto solo apparente, che si risolve come si è risolta anche la vita di Benjamin, con una struggente nota di malinconico abbandono che è anche promessa di riunione.

Di grande fascino e interesse è anche l'ampia corte di comprimari che entrano ed escono dalla vita di Benjamin, sempre all'insegna di una grande umanità di fondo e di una forte connotazione storico-sociale: dall'anziana che gli insegna a suonare il pianoforte e ad apprezzare i propri cari, alla malinconica moglie di un ministro britannico che diviene sua amante, alla governante dell'ospizio che lo adotta e lo cresce, ai marinai della sua nave, fino al padre che lo ritrova e si fa perdonare per averlo abbandonato.

Può essere considerato epico, un film che sceglie invece deliberatamente una narrazione estremamente intimista concentrata quasi unicamente sulla dimensione privata dei personaggi? Curiosamente, sì: nel ripensare alle innocue peripezie di Benjamin, quasi una formica che tira a campare ai margini del grande fiume della storia, rivivendo tutti i momenti che hanno dato valore alla sua esistenza, ci si accorge di quanto la sua surreale esistanza sia stata, in modo assai atipico, titanica.

 La recitazione di Brad Pitt e Kate Blanchett, che sembrano fare a gara nell'essere il più genuinamente "del Sud degli Stati Uniti" per accento e filosofia di vita, è contenuta e tranquilla, come lo è la regia, ariosa e solenne nel raccontare le piccole vite di questi anonimi personaggi, che attraversano pacatamente la storia prendendo atto dei suoi grandi momenti (come la Seconda Guerra mondiale o l'esplorazione dello spazio), ma sempre da spettatori, preferendo invece la propria dimensione intima e privata.
 La narrazione intreccia le brevi sequenze nel presente a numerosi e corposi flashback di diverse epoche, il che porta a due risultati pregevoli per i quali la pellicola ha giustamente vinto vari premi: il trucco che invecchia (o ringiovanisce) i personaggi in modo strabiliante, e il montaggio, che offre anche alcuni fascinosi momenti sperimentali (la ricostruzione dell'incidente di Parigi, i filmati d'epoca dell'uomo colpito dal fulmine).
 E' da consigliare l'ascolto in lingua originale, fosse solo per il fascino dell'accento del Sud degli Stati Uniti sfoggiato due protagonisti (quello che avrebbe il personaggio di Rogue degli X-Men se la sentissimo parlare).
 Coerentemente con l'ampio respiro storico di regia e narrazione, la colonna sonora del francese Alexandre Desplat è altrettanto grandiosa e orchestrale, ma nello stesso tempo misurata, molto più attenta ad accompagnare ed evocare le sequenze storiche piuttosto che a diventare protagonista.

martedì 10 dicembre 2019

"Vantage Point" (2008) - "Prospettiva di un delitto"

 "Vantage Point" (2008), in Italia "Prospettiva di un delitto", diretto da Pete Travis su soggetto di Barry Levy,  non è certo un giallo come il titolo nostrano lascerebbe credere, ma invece un film d'azione con una costruzione narrativa atipica  e una verniciatura "politica" ed edificante, volenterosamente onesta, ma abbastanza superficiale.


 A Salamanca, in Spagna, il presidente USA interviene a un convegno sulla guerra al terrorismo, ma è oggetto di attentato durante il suo discorso al pubblico nella Plaza Mayor. Tutto ciò accade nei primi minuti di film, sotto gli occhi di una produttrice tv che coordina le riprese per la copertura mediatica dell'evento. Da quel momento, la narrazione si "riavvolge" per cinque volte, ripercorrendo gli eventi secondo l'ottica sempre diversa di vari personaggi: il problematico veterano, agente della sicurezza del presidente USA; il presidente USA stesso; il buon poliziotto spagnolo sotto copertura; il generoso e umano turista statunitense; il terzetto di terroristi a capo dell'operazione.
 Ogni sequenza svela nuovi aspetti dell'attentato, ma soprattutto fa cadere le maschere di doppiogiochisti e infiltrati vari, finchè le fila di tutti i personaggi non si riannodano nel presente e la storia riparte, prendendo un'estenuante piega da film d'azione, con un interminabile inseguimento a colpi di utilitarie europee. In un meccanismo a orologeria ben studiato dal punto di vista drammatico, ma fortemente basato sulle coincidenze dal punto di vista logico, la fragorosa risoluzione è conseguenza indiretta di eventi che proprio l'attentato iniziale ha scatenato.

 Dal punto di vista dell'intrattenimento, questo film funziona molto bene: personaggi con le facce giuste, narrazione serrata, gioco dei flashback che coinvolge per via dei nuovi indizi che vengono progressivamente svelati, linearità narrativa, spettacolarità dell'azione (la devastazione causata dalle esplosioni di due bombe), emozioni che sconvolgono ma che sono mediate da personaggi forti e rassicuranti nel loro nobile eroismo, coinvolgente meccanismo di interconnessioni e incastri, buoni sentimenti, retorica patriottica statunitense camuffata, e la rassicurante promessa che il bene (gli USA) vince sempre sul male (i terroristi).

 Ma il meccanismo "sperimentale" dei flashback multipli, da alcuni paragonato alla tecnica dello storico film "Rashomon" di Akira Kurosawa, spinge anche lo spettatore a riflettere sulla struttura della narrazione, e a notare i difetti non da poco che alla prima visione erano fuggiti alla mente conscia, troppo distratta dal concitato incalzare degli eventi e dalla voglia di dipanare subito la matassa narrativa.
 L'ingerenza delle coincidenze.
 Troppe cose capitano nel momento giusto, nello sviluppo della trama, specialmente nelle scene di inseguimento in cui l'inseguitore di turno viene seminato, ma per puro caso compie sempre la scelta giusta per tornare sulla pista del terrorista.
 La dimensione geografica di Salamanca è incomprensibile: nonostante il labirinto di strade in cui avviene l'inseguimento principale, le automobili come i personaggi appiedati arrivano tutti "al sottopassso dell'autostrada" nello stesso istante utile. O a Salamanca ci sono troppe scorciatoie, oppure tutte le strade portano al sottopasso.
 La fiera degli stereotipi.
 Il nobile presidente USA che decide di non contrattaccare (bombardando un villaggio in Medioriente) ma di dare un segnale di forza con la volontà di pace, non va neanche commentato: gode di meno credibilità che tutte le dette coincidenze messe insieme.
 Il turista nero è un luogo comune vivente: il bonaccione statunitense che, col suo gran cuore, salva tutti quanti; anche se è un anziano in sovrappeso, macina chilometri e chilometri di corsa per arrivare in tempo al sottopasso, senza neppure un doloretto alla milza; anzi, ha ancora il fiato per tuffarsi e salvare la bambina senza la madre.
 La bambina senza la madre, vittima dell'insensata violenza dei terroristi, è il simbolo dell'innocenza violata, parecchio telefonato. Ed è pure l'elemento catartico finale che ferma i malvagi. Un po' troppo.
 Il terzetto di terroristi, tra cui un improbabile doppio agente che ha militato per anni nella sicurezza presidenziale statunitense, è cattivo e basta: il loro scopo è tradire e uccidere perchè la guerra infurii per sempre. E che senso ha?
 Come se non bastasse, questi terroristi sono spietati assassini che sparano, ammazzano, piazzano bombe, torturano. Però frenano se una bambina gli attraversa la strada mentre viaggiano su un'ambulanza con a bordo il loro prigioniero. (Volendo, questo dettaglio, derivante dal brevissimo contatto visivo che il terrorista aveva stabilito con la bambina poche ore prima, in un bar, si riallaccia al generale discorso di riscoperta dell'umanità fondamentale delle persone che questa pellicola sembra portare avanti: anche la produttrice televisiva, cinica e serva del potere, mostra un lato umano quando prende dolorosamente atto della morte della giovane inviata, con cui aveva avuto un diverbio sugli argomenti "politici" e "scomodi" che bisognava omettere dal servizio televisivo).

 Regia e fotografia sono tipicamente da Hollywood: giustamente spettacolari; molto attente a esaltare l'urbanistica della città con ariose inquadrature aeree; maniacali nel descrivere lo spericolato inseguimento automobilistico; attente ai dettagli della narrazione; abili nel descrivere il caos che segue l'attentato e le esplosioni, evidenziando con le diverse scene soggettive quanto uno stesso fatto possa essere oggetto di più interpretazioni ed equivoci. L'ambientazione spagnola è sempre convincente, sebbene Salmanca non sia proprio Salamanca (le scene della piazza sono state girate in Messico).

 Tra gli attori, spicca la presenza di Sigourney Weaver, forse perchè sottoutilizzata. Weaver, come altre celebrità (relative) quali William Hurt e Dennis Quaid, eroga una recitazione onesta e competente, senza possibilità di approfondimento o di grande analisi, come d'altra parte richiede il genere di film in questione (che, lo ripetiamo, non è un giallo, ma un film d'azione con una particolare struttura).

 Il resto degli attori, con la simpatica presenza di Matthew Fox (reso celebre dal telefilm "Lost"), si impegna a fondo, soprattutto nel correre e sparare.

 La locandina, con la sua immagine a mosaico, risulta così suggestiva da promettere molto più di quanto il film riesca a mantenere: il potenziale caleidoscopio di prospettive annunciato dall'immagine composita viene effettivamente messo in scena, ma  in un modo che, in ultima analisi, risulta annacquato e banalizzato: le caratterizzazioni sono deboli e convenzionali; la molteplicità di interpretazioni viene ricondotta a una sola sequenza di azione e "intrigo" assai lineari e convenzionali; il messaggio e la morale edificante sono parecchio manicheistici, proprio come da tipica e dozzinale produzione hollywoodiana che mira al botteghino e deve quindi compiacere un pubblico facilone e semplicistico

giovedì 5 dicembre 2019

"Savages" (2012) - "Le belve"

 "Savages" (2012), in Italia "Le belve", di Oliver Stone, è un appassionato, vitale e sensuale film drammatico, d'azione, romantico e altro ancora, trascinante nella sua aggressiva narrazione e travolgente nella focosità che anima tutti i personaggi.

Scheda di "Savages" su wikipedia

 Nella idilliaca cittadina di Laguna Beach, in California, due giovanotti (un veterano della guerra in Iraq e un fricchettone pacifista e idealista), amici per la pelle, amano la stessa seducente donna, e tutti insieme gestiscono felicemente un'impresa di coltivazione e vendita di marjuana di qualità sopraffina.  Nella loro esistenza da sogno irrompe la violenza spietata e sanguinaria del cartello della droga messicano di Baja, che vuole annettersi la loro impresa. I due giovanotti, però, sanno a loro volta mordere, per via dei legami con altri ex soldati e con un agente della CIA tanto corrotto quanto abile a mantenere duplici rapporti con tutte le fazioni in gioco: ne scaturisce una sanguinolenta spirale di brutalità, inganni, attacchi, contrattacchi, tradimenti, sequestri, cambi si alleanza e ricatti che travolge tutti, mettendo a nudo le loro anime, e sfociando in un doppio epilogo di morte e di vita.

 Crudo, secco, lucido e gelido, "Savages" è un film affascinante nel suo ribollente caos narrativo che mescola ingredienti apparentemente eterogenei, ma cela invece una controllata metodicità creativa, con la quale il regista vuole analizzare il mondo attuale e riflettere sulla sua eterna dualità tra ciò che è e ciò che si vorrebbe che fosse, tra idealismo e pragmaticità, tra speranza e cinismo.
 Carnalità, passionalità, istintualità: è questo il magma primevo di emozioni elementari che motiva e muove tutti i personaggi, anche quando essi si sforzano di rivestirle con la patina della civiltà e della razionalità (memorabile e simbolica è Salma Hayek, quando si strappa la perfetta parrucca della sua "immagine" di madrina del cartello dei narcotrafficanti). Proprio in questa caratteristica sta la chiave di lettura del film: come già detto, sotto lo strato vorticante di intrighi e passioni, apparentemente rimescolati in un marasma informe, si cela una ragionata struttura di simmetrie, specularità e duplicità, che invitano all'analisi della realtà cercando la propria chiave di lettura (non è un caso che, a inizio film, il prosaico ex-soldato Chon spieghi che la droga è l'unica risposta razionale a una realtà impazzita).
 Come le proverbiali medaglie, tutti i personaggi hanno infatti due facce, in forte contrasto tra di loro; allo stesso modo, le due ambientazioni del film (il cupo e sotterraneo Messico di scantinati, celle e torture; la solare e paradisiaca California di spiagge, vegetazione e belle abitazioni) sono le facce di una stessa realtà, indissolubilmente interconnesse, i cui stili di vita così diversi improvvisamente e continuamente si capovolgono nel loro opposto; hanno un bel dire i critici sul presunto manicheismo di Oliver Stone nel raffigurare queste due realtà come contrapposte, perchè la vera intenzione della sua opera è molto diversa e chiara: si tratta di una sintesi dei due mondi, basata sull'idea che uno non può esistere senza l'altro.
 Duplice è anche lo stile registico, che passa dal montaggio frenetico, quasi da videoclip, a momenti di calma in bianco e nero.
 Duplice è il ruolo della notevole Blake Lively: come voce narrante, rivela una saggezza e una visione profonda della vita e dei personaggi; come personaggio della storia, di cui la voce narrante è il monologo interiore proveniente da un prossimo futuro, è invece una sensuale ochetta bionda, viziata e frivola.
 I suoi amanti, Ben e Chon, oltre che essere due grandissimi amici (e forse amanti tra di loro, lascia intendere la sceneggiatura), non solo mostrano connotazioni caratteriali antitetiche (Ben, l'idealista e benefattore, diventa uno spietato "mediatore" col cartello, dopo aver ammazzato una persona per la prima volta), ma formano essi stessi le due facce di una sola medaglia, uniti e contrapposti come sono (pacifico e diplomatico Ben; soldato disincantato e violento Chon).
 L'elenco di duplicità continua con i principali antagonisti: la madrina Elena e il suo scagnozzo Lado del cartello del narcotraffico sono tanto spietati e sanguinari nel trattare i loro affari criminali quanto nel difendere la propria famiglia e i propri valori, per i quali provano un sentimento primordiale che li spinge ad atti estremi (anche di sacrificio personale).
 E duplice è anche e soprattutto il finale del film, che non anticiperemo in questa recensione, ma che conferma in maniera estremamente esplicita la chiave di lettura della dualità (esso può far infuriare chi invece si è fermato allo strato superficiale di quest'opera e si sente quindi preso in giro, credendo che si tratti di una "autoriale" imitazione dell'opera di Quentin Tarantino da parte di un regista che vuole marcare il territorio affermando di essere arrivato per primo).

 Rimarcata sin dal titolo (i "selvaggi" del titolo originale sono infatti questione di prospettiva: per i californiani, la violenza omicida e torturatrice dei narcotrafficanti messicani è roba da selvaggi; per i messicani, i liberi costumi sessuali del terzetto californiano sono roba da selvaggi), l'ambivalenza delle due culture in conflitto è imperniata sulla diversa mentalità di fondo, mai esplicitata, ma sottesa frequentemente nel film tramite immagini ricorrenti.
 Se, da un lato, il terzetto di giovani californiani celebra la vita vivendola in tutta la sua bellezza ed esuberanza, dall'altro i messicani praticano e attuano il culto sudamericano della Santa Muerte, la cui sinistra presenza si dipana per tutto il film nella forma di feticci scheletrici della dea.
 Dalla Wikipedia:  Nuestra Señora de la Santa Muerte, o semplicemente Santa Morte, è una divinità messicana di origini pre-colombiane, con un culto di una decina di milioni di adepti in Messico e nelle altre aree ispanofone dell'America Latina. Deriva dalla dea azteca della morte Mictecacihuatl; è raffigurata come uno scheletro abbigliato nello stile delle donne dell'Europa medievale, come le statue delle sante della religione cattolica.
 Simili icone appaiono più volte nel film: ce n'è una sull'auto dello scagnozzo Lado; c'è un'edicola votiva davanti al parcheggio in cui Chon e Ben consegnano la "merce" agli uomini del cartello; ci sono le maschere usate dai boia messicani del cartello per giustiziare i traditori e i nemici.
 E ci sono infine le maschere indossate brevemente (ma divenute un'icona del film) da Ben e Chon quando decidono di contrattaccare usando gli stessi metodi del cartello: il loro gesto, inutile sotto l'aspetto logico (la loro identità è già nota, e come se non bastasse, i due si smascherano davanti a una telecamera), è però la conferma finale della visione del regista; Ben e Chon adottano la mentalità messicana per reclamare il proprio stile di vita californiano, e si trasformano fisicamente con le maschere, incarnando leteralmente l'intercambabilità delle due culture e rivelandone l'inestricabile unità.
 La cotaminazione funziona anche al contrario: le comunicazioni dal cartello messicano a Chon, in tremendo contrasto con gli agghiaccianti contenuti delle chiamate (dai video di truculente decapitazioni alle immagini delle torture a cui è sottoposta la sfortunata "O"), sono precedute da una gioiosa e giocosa suoneria ("The Elephant Never Forgets" di Jean Jacques Perrey) che diventa il tormentone del film; ogni volta che il ritmo allegro, da luna park, di questa canzone si innesca, i personaggi cadono in un silenzio colmo di terrore, che si trasmette allo spettatore.

 E infatti, coerentemente con la volontà del regista, tutta la colonna sonora è variegata e molteplice, e spazia dalle sonorità latine agli strumenti elettronici, dal sensuale al fracassone, dal reggae al country, dal western al rap, in un continuo incontro tra classico e moderno che riflette il conflitto tra le due culture incapaci di accettare di essere una il riflesso dell'altra. Con  nomi come Bob Dylan, Peter Tosh, Massive Attack, Electric Light Orchestra, Thievery Corporation, John Taverner, e Gustavo Santaolalla, le musiche vanno dalla idilliaca liricità classica ai suoni sporchi, crudi e frenetici del rap ispanico, toccando sempre corde emotive profonde dello spettatore.
 Sul versante degli attori, la già citata doppia prestazione di Blake Lively è rimarchevole soprattutto per la differenza di toni con cui interpreta il suo personaggio (dall'evocativo nome di "O", iniziale mai esplicitata) in due diverse fasi della vita. In particolare, come voce narrante, l'attrice mostra il proprio talento nella maniera più efficace, interpretando i testi senza alcun bisogno di fae affidamento sulla propria avvenenza per convincere lo spettatore.
 I due protagonisti, Taylor Kitsch (Chon) e Aaron Taylor-Johnson (Ben), danno vita in modo competente e convincente a quelli che sulla carta erano lo stereotipo di yin e yang, cioè personaggi schematicamente contrapposti ma inseparabili come possono esserlo un ex soldato e un attivista per i diritti umani; ma, soprattutto, sono naturalmente credibili nello scolpire l'improbabile amicizia che li lega, grazie alla palese sintonia del loro sodalizio, che trapela da ogni scena recitata insieme.
 Benicio  Del Toro è letteralmente spaventoso, nel ruolo di "devoto" padre messicano ancorato ai valori di una volta, inumanamente brutale nel metterli in pratica quando svolge il proprio lavoro di assassino, torturatore e intrallazzatore, con una coerenza che lo rende ancora più alieno, nel suo incarnare una radicata mentalità primitiva, inattaccabile dalla modernità e ferocissima nel volersi preservare a ogni costo.
 Salma Hayek, spietata madrina a capo del cartello della droga, ma anche madre amorevole di una figlia che la respinge insieme al suo stile di vita, delinea una figura intensa, drammatica, quasi da tragedia greca nel suo tormento personale, capace di amare la famiglia fino al sacrificio personale, quanto di assistere imperturbabile alle torture più efferate su chi l'ha tradita.
 John Travolta, tra le celebrità e i protagonisti, è forse il meno convincente, perchè troppo caricaturale nell'incarnare un untuoso e subdolo agente dell'FBI che si lascia corrompere per fare la bella vita: anch'esso personaggio duplice, stretto tra i due fuochi dell'ambizione e delle disgrazie familiari, è coerente col disegno narrativo, ma non riesce a convincerci del tutto di essere un agente federale amareggiato, invece  che un agente immobiliare dalla parlantina zoppicante.