giovedì 31 ottobre 2019

"The Departed" (2006) - "The Departed - Il bene e il male"

 "The Departed" (2006), in Italia "The Departed - Il bene e il male", diretto da Martin Scorsese, è un poliziesco nero che rielabora liberamente il film  asiatico "Internal Affar" (2002) (e la trilogia di cui fa parte).


 In una Boston particolarmente essenziale e quasi anonima, relegata com'è sullo sfondo della vicenda, la malavita irlandese (guidata da un boss dal cognome italiano) infiltra un proprio uomo nella Polizia di Stato, mentre un'unità della stessa Polizia scarta un aspirante poliziotto per poi proporgli comunque di entrare sotto copertura nella malavita irlandese.
 Da qui si sviluppa una narrazione parallela della missione dei due giovani, di come siano sempre sul punto di smascherarsi a vicenda, del loro rapporto con i superiori, siano essi il capitano di Polizia o il boss criminale: come ampiamente sottolineato dalla critica, un tema fondamentale della loro esistenza è la ricerca di una figura paterna che sostituisca quella effettiva, perduta troppo presto.
 La specularità dei quattro personaggi in questione è estremamente evidente, quasi schematica nella sua esposizione, tanto che i due giovani finiscono per amare e condividere la stessa donna, nonchè stabilire legami col "padre" dell'altro, ma non va confusa col fine ultimo della narrazione, il quale è invece riflettere sulla natura dell'essere umano. Il sottotitolo italiano, con cui concorda la critica, sostiene che tale riflessione verte sul "bene" e sul "male" che coesistono nell'uomo e che determinano le scelte e le azioni dei due protagonisti, entrambi costretti a fingersi diversi da ciò che sono, mentre militano tra le fila del nemico.
 Ma, a voler ben guardare, il film non sembra interessato alle categorie di "bene" e di "male", nè tanto meno a discettare sulla loro esistenza: la guerra tra malavita e Polizia è declinata solo in meri termini di legalità e illegalità, e le scelte dei due protagonisti non sono determinate da un'incertezza tra "bene" e "male", quanto dall'esigenza di sopravvivere, di forgiare rapporti umani per rendere sopportabile la vita, e infine di definire la propria identità come persone. E' in questa ottica puramente individualista che i due giovani (le palesi facce della stessa medaglia) mentono, uccidono, tradiscono, scelgono e vivono, in contrapposizione al comportamento ben più astratto dei loro "padri putativi", i quali ormai conducono la loro esistenza in un certo modo perchè quello è il modello che ormai hanno interiorizzato e da cui non sanno più staccarsi, sebbene abbiano perso di vista i motivi per cui lo seguono (questo aspetto è particolarmente sottolineato dal boss malavitoso, che a 70 anni suonati continua a delinquere, a fare sesso trasgressivo in modo meccanico, senza obiettivi per il futuro, ma è anche un informatore dell'FBI per garantirsi la libertà di soddisfare i propri capricci di narcotrafficante, come il suo "figlioccio" gli rinfaccia e come la sua prostituta filosofa gli fa spesso notare). E quindi il vero tema di un film è forse la preponderanza dell'istinto di sopravvivenza dell'essere umano, che fa facilmente strame di secoli di civiltà e religione e strutture sociali e filosofia ed etica, quando sono gli interessi personali a venire intaccati.
 Scritto e diretto in maniera lineare, elegante e sicura, il film  è coinvolgente, trascinante e intrigante, e riesce ad affascinare e a tenere lo spettatore incollato per tutti i suoi 151 minuti, nonostante il tono di fondo nero fino alla disperazione, intriso di un pessimismo che nega ogni redenzione, e non si attenua neppure nel finale con soprese multiple, in cui all'ecatombe di personaggi di ogni lato della barricata fa seguito la morte dell'unico superstite, che in teoria se la sarebbe meritata, ma nella pratica ci ha dimostrato di avere un proprio senso dell'onore e ci è quasi divenuto simpatico, pur nella sua perdizione.

 Involontariamente, il film offre anche qualche momento lieve. Il premio della critica va infatti alla psichiatra della Polizia, la più imbranata, vulnerabile e dilettantesca che sia mai vista: si fa abbindolare e sedurre dall'infiltrato in cinque secondi, si lascia turbare e sedurre dal rabbioso poliziotto sotto copertura, è oggetto di manipolazioni psicologiche da chiunque le rivolga la parola, e non coglie il minimo indizio su niente della personalità di chicchessia. Non ha mai avuto pazienti, prima di questo film? E' uscita dall'università il giorno prima? Se questo è il supporto psicologico che la Polizia del Massachussets dà ai suoi uomini, non c'è da stupirsi che l'organizzazione vada a rotoli.

 Regia, fotografia e sceneggiatura filano di comune accordo, nel raccontare la vicenda con grande perizia e fascino, sia visivamente che in termini di ritmo e dialoghi: considerando il regista coinvolto, è impossibile sollevare lamentele sotto questi aspetti. Il citazionismo colto è all'ordine del giorno, sia esso in senso cinematografico (riferimenti a film di gangster classici come "Little Ceasar", "Scarface") che storico (il boss criminale è basato sulla reale figura del criminale Whitey Bulger, che fu anche un informatore dell'FBI).

 E' un po' diverso il discorso degli attori, dove la coesistenza di così tante celebrità funziona molto bene finchè si parla di Leonardo DiCaprio, Matt Damon, Mark Wahlberg e Martin Sheen, tutti capaci di delineare con cura il loro personaggio nei due aspetti fondamentali (e cioè introspettivamente e in termini di relazioni con gli altri personaggi). Per Jack Nicholson, notoriamente, questo non vale: i suoi eccessi di protagonismo esasperatamente istrionico, la sua resa fin troppo sopra le righe ed esagerata del laido e squinternato boss criminale, le continue bizzarrie (improvvisate?) quasi in ogni una scena, finiscono per stancare, nonostante regia e montaggio facciano del loro meglio per impedire all'attore di strabordare e di compromettere la logica della narrazione in funzione di un esibizionismo che sfocia sempre nella stessa figura narrativa (il pazzo fuori controllo).
 Non stupisce che Mark Whalberg abbia ricevuto un riconoscimento come attore non protagonista, data l'intensità con cui rende il suo aggressivo e furibondo personaggio secondario del sergente di Polizia, il cui vero ruolo non può essere apprezzato se non alla fine, nel momento in cui la sua piccola parte finalmente acquisisce il senso e lo scopo che merita.

 La colonna sonora utilizza sia brani rock e pop già esistenti sia nuove musiche composte da Howard Shore, rendendo con efficacia l'atmosfera tesa, drammatica e nello stesso tempo piena di energie ribollenti sotto la superficie dei protagonisti: la cifra irlandese di Boston è ottimamente resa da trascinanti brani come "I'm Shipping Up to Boston" dei Dropkick Murphys.

mercoledì 30 ottobre 2019

"Akira" (1988)

 "Akira" (1988), scritto e diretto da Katsuhiro Otomo, è un film fantascientifico d'animazione nipponico dio elevatissima qualità grafica, che ha contribuito in modo decisivo a rendere popolare l'animazione giapponese in tutto l'Occidente. E' l'adattamento di un manga dello stesso Otomo, con trama e finale ampiamente rielaborati.


 Alzi la mano chi tra i miei coetanei non lo pronuncia "Akìra" quando sarebbe da pronunciare "àkìrà", per colpa della pronuncia del nome dell'omonimo personaggio umano del cartone "Devilman" nel doppiaggio italiano dell'epoca.

 Nonostante io non sia mai stato un fan dei protagonisti iniziali (una banda di giovani scapestrati, imbottiti di droghe, senza futuro, senza cultura e senza ambizioni), nonostante abbia detestato sin dall'inizio l'ambiguità con cui il non-protagonista (Kaneda) viene presentato come un eroe motorizzato e iconico quando invece è solo un grandissimo bluff spinto esclusivamente dall'ostinazione, nonostante la stranezza dell'equivoco di chi pensa che Kaneda sia in effetti Akira, nonostante la nausea degli ennesimi "orfani" ("Saint Seiya" docet, dato che tutti e 90 gli orfanelli-guerrieri  iniziali sono figli del vecchio Kido), nel caso di "Akira" basta un piccolo sforzo per vedere oltre questa cortina commerciale con cui l'autore Katsuhiro Otomo si adeguava superficialmente agli stilemi dell'epoca, per poi confezionare una narrazione cyberpunk post-apocalittica che parlava invece del futuro della società in modo adulto.
 La manipolazione genetica senza limiti, la violazione di qualunque confine etico nel nome di Prometeo, l'abuso di potere e responsabilità attuato da una politica sempre più burocratica e miope, la corruzione liberista della politica stessa, il contrasto interno dei poteri fondamentali di uno stato e la conseguente tentazione golpista del potere militare (per cui Otomo qui sembra parteggiare), la spersonalizzazione di una società sempre più sovraffollata dove i reietti vengono gestiti dall'elite dominante tramite l'elemosina del minimo necessario per tenerli in vita senza provare senso di colpa.
 Tutto questo è declinato in un film animato e diretto con una qualità e un impegno e una ricchezza tali da renderlo praticamente senza tempo (persino i telefoni a gettoni, così anacronistici per la nostra linea temporale, in quel loro futuro divergente hanno una logica), ma soprattutto è ampiamente dissimulato in una cornice narrativa che concede un enorme spazio all'azione più frenetica, spostandola dalle trascinanti guerre tra bande di motociclisti dotati di moto ovviamente futuristiche a scene di battaglie telecinetiche e ipertecnologiche, coinvolgendo persino cannoneggiamenti orbitali, e chiudendo infine con la più classica delle mostruosità giapponesi, e cioè lo scontro con un Kaiju come mai se ne erano visti prima in termini di ripugnanza del corpo della creatura e realismo nell'illustrarne l'abominevole proliferare di organi.

 E' sorprendente, rivendendo "Akira" dopo molti anni, scoprire la pervasiva e sottile influenza che ha esercitato su successivi prodotti divenuti a loro volta memorabili. La caduta dei colossali cavi della sfera criogenica contenente Akira, e la sfera stessa che emerge dalle nubi, non sono forse fin troppo simili all'umbilical cable che si contorce in "Neon Genesis Evangelion" (1995), e all'ascesa della Luna Nera di questo stesso universo animato?
 E, ancora più incredibile, ma forse anche forzato: il trono olimpico su cui siede Tetsuo allo stadio, non è singolarmente simile al trono su cui siede il divino Abel in "Saint Seiya: La leggenda dei guerrieri scarlatti" (sempre 1988) poco prima di morire?

martedì 29 ottobre 2019

"Mine" (2016)

 "Mine" (2016), scritto e diretto da Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, viene classificato come thriller, è però più che altro un percorso catartico e di rinascita di un soldato che si ritrova da solo in Medio Oriente, nel bel mezzo di un deserto, con un piede su una mina.


 Impossibilitato a muoversi, con i soccorsi che tardano ad arrivare, il soldato deve sopravvivere ai pericoli concreti del deserto e a quelli che scaturiscono dalla sua psiche. Le condizioni estreme a cui è sottoposto fanno letteralmente materializzare il suo inconscio, generando spunti di riflessione sulla guerra, la vita privata, l'amore, il senso dell'esistenza.


 Con l'avanzare della narrazione, sempre più labile si fa il confine tra cosa è vero e cosa è invece soltanto immaginato: gli indigeni che gli fanno visita senza aiutarlo, i predatori notturni che lo assalgono, i ricordi che lo tormentano, il clima torrido che lo fa rosolare, le riserve di acqua e cibo che si esauriscono. E la soluzione finale ci costringe definitivamente a dubitare di gran parte delle cose che abbiamo visto.

 Il dizionario cinematografico Morandini sottolinea che si tratta di un "progetto ambizioso" (come dimostra una sceneggiatura molto attenta a simmetrie ed echi e simbolismi (il momento in cui il soldato Mike poggia il piede a terra e dà una svolta alla propria vita è il leitmotiv di tutti i flashback che ripercorrono la sua esistenza), "di 2 registi esordienti e contro la guerra" (come attesta l'inatteso e sardonico finale).

 Ci si chiede anche se il ritmo del terzo atto rallenti eccessivamente, quando, paradossalmente, le rivelazioni sul passato di Mike si susseguono freneticamente e, soprattutto, si protraggono oltre il necessario: si tratta di situazioni molto stereotipate (padre violento, madre che muore di malattia, fidanzata che lui ha difeso come un cavaliere senza macchia), che in questa epoca di film frenetici come videoclip, lo spettatore può intuire senza tanta fatica e senza l'esigenza di farsi spiegare tutto nel dettaglio.

 Il protagonista è interpretato da Armie Hammer, attore che fa sempre un buon lavoro nell'essere rassicurante e farsi benvolere dallo spettatore anche quando è nel mezzo delle crisi più terribili; per sua sfortuna, che soffre di una fama di jettatore dai tempi di "Lone Ranger", ed è sparito dal grande schermo.

"A Knight's Tale" (2001) - "Il destino di un cavaliere"

 "A Knight's Tale" (2001), in Italia "Il destino di un cavaliere", scritto e diretto da Brian Helgeland, è una  leggera commedia rosa con ambientazione medievale e qualche ambizione di originalità.
 

 Con una trama esile e risaputa, giocata sull'ironia che però ogni  tanto finge di essere serietà, questo film mette in scena il classico gruppo di personaggi maschili che si ridicolizzano a comando (a meno che non siano il cattivissimo cattivo, o il povero padre vecchio e cieco), affiancati da donne emancipate e infallibilmente superiori, le quali invece restano sempre trucemente serie anche quando ridono. L'apparato narrativo oscilla tra lo storico e il fantastico, mettendo in scena personaggi storici come Geoffrey Chaucer (il padre della letteratura inglese) o il nobile Edoardo (il principe nero), per poi utilizzare musica rock nei canti popolari da stadio o nelle scene di ballo delle feste dei nobili (e attenzione, non è musica extradiegetica). Nonostante le rimostranze di una parte del pubblico, non c'è nulla di anomalo nell'avere una colonna sonora tratta dal più celebre rock moderno: l'anomalia sta nel vedere come queste canzoni vengano cantate e ballate dai personaggi, che quindi conoscono anacronisticamente testi e modi di fare musica moderni (per non dire del protagonista che sembra trasformarsi in un emulo di Tony Manero).
 La narrazione si sforza di essere vivace, ma indulge eccessivamente nelle stucchevoli scene di amoreggiamento a distanza e nelle interminabili contese delle giostre di cavalieri (inevitabilmente tutte uguali); il film dura tragicamente due ore e dodici minuti circa, mettendo a dura prova la pazienza dello spettatore smaliziato.
 Il film si ostina di creare agganci contemporanei nell'interpretazione della dinamica dei tornei, soprattutto per la descrizione del tifo del pubblico, che è palesemente una trasposizione delle attuali tifoserie calcistiche, con una velata critica al costo dell'intrattenimento sportivo che arricchisce i potenti e lascia comunque poveri i popolani che si fanno accecare dalla strategia del panem et circenses.
 La contaminazione moderna risalta anche nell'abbigliamento femminile e nelle forzature che esso comporta: l'emancipa nobildonna Jocelyn indossa capi trasposti dall'epoca odierna e riletti in chiave medievale, a volte così audaci (la maglia aderente e semitrasparente sotto il gilè) che in un contesto storico l'avrebbero vista vittima di flagello e lapidazione per opera degli onnipresenti chierici non appena fosse uscita di casa.

 Tergiversando a lungo, lo sviluppo della trama riceve finalmente un'impennata nel terzo atto, dove i nodi troppo a lungo rimandati vengono al pettine, e lo scontro col cattivissimo "cavaliere nero" (non il principe Edoardo, si badi bene) porta finalmente in scena tutte le figure chiave dell'epica cavalleresca, rendendo loro giustizia: non solo c'è il malvagio cavaliere nero, ma c'è anche l'eroe che incarna invece il cavaliere puro e retto, sebbene non di nobili natali, seguito dai suoi uomini che lo sostengono incondizionatamente anche nella caduta in disgrazia; e soprattutto c'è il principe in incognito, saggio e giusto, che premia l'eroe per le scelte di onore e correttezza fatte in passato senza alcuno scopo di guadagno, chiudendo finalmente il cerchio narrativo che restava in sospeso sin dalle prime decine di minuti.

 Coerentemente col tono narrativo tenuto, senza mai rinunciare alla goliardia e al citazionismo di epigrammi che si muta in auto-citazionismo, il film si accomiata con una scena successiva ai titoli di coda in cui i comprimari ci allietano con una gara di flatulenze.

 La recitazione è onestamente ben gestita da tutti gli attori, ma il tono farsesco della vicenda, che vira al massimo sul romantico più dozzinale, impedisce di apprezzare il loro effettivo talento.

venerdì 25 ottobre 2019

"The Illusionist" (2006) - "The Illusionist - L'illusionista"

 "The Illusionist" (2006), in Italia "The Illusionist - L'illusionista", diretto da Neil Burger, è un film quasi omonimo del racconto breve da cui è stato tratto, "Eisenheim the Illusionist", una romantica favola d'ambientazione ottocentesca che mantiene la cosa più importante che il titolo promette.


 Con una sorniona e ruffianesca fotografia e una regia le quali elargiscono frequenti ammiccamenti visivi alla narrazione cinematografica pionieristica dell'epoca in cui il cinema stava avendo origine (la fine del 1800, appunto), come i colori che tendono al seppia o le sfumature in nero per la transizione delle scene o certi momenti in cui la pellicola "accelera", questo film genera volutamente un sentore di romantica nostalgia nello spettatore, che infatti si commuove nell'assistere a questa lineare e schematica storia d'amore tra una nobildonna, promessa sposo di un arrogante e fanatico principe (erede alla corona austriaca) che la usa come un oggetto e la brutalizza, e un povero ma gentile e talentuoso popolano, capace di compiere illusioni che sembrano prodigi.

 Come la componente visiva, anche i protagonisti sono pensati per essere svenevolmente piacevoli, col loro carattere tranquillo, malinconico, silenziosamente intenso, e quindi costruiscono una narrazione che li riflette, nel suo farsi prima struggente e poi disperata, quasi necrofila: sembra infatti di assistere a una tragedia alla "Romeo e Giulietta", in cui gli amanti muoiono suicidi, e non si può non parteggiare per il buon poliziotto austriaco, che pur essendo fedele al principe e succube alla potenza imperiale, ricostruisce comunque il crimine con onestà professionale, e raccoglie le prove che incastrano l'assassino, portandolo al suicidio.

 Ma eravamo stati avvertiti sin dal titolo, e l'illusionista ce lo ha ripetuto durante la storia, solo che noi non gli abbiamo creduto. Nel mondo, tutto è illusione: il cinema, la storia, i prodigi che l'illusionista compie sul palcoscenico, le convenzioni sociali, le distinzioni di classe. Di vero c'è solo l'amore, come il poliziotto finalmente comprende in seguito alla felice ricostruzione finale degli indizi disseminati in tutto il film: la vicenda cui abbiamo assistito è invece andata in modo assai diverso, e ha avuto una zuccherosissima conclusione positiva.

 Mentre ci accorgiamo di essere stati presi in giro, e magari ci commuoviamo pur sapendo che la melensaggine finale (elegantemente narrata più per immagini che per dialoghi, i quali sono sempre sobriamente asciutti ed essenziali per tutto il film) è stata scritta proprio per indurre questa reazione emotiva, ci rendiamo conto di esserci divertiti e di aver voluto credere ai prodigi simil-soprannaturali che l'Illusionista ha eseguito, perchè il versante fantastico era proprio perfetto per il melodramma a cui abbiamo assistito.
 Magari ci potrebbe venir voglia di puntualizzare che ci sono stati mostrati trucchi esageratamente perfetti, e che non basta sentirci dire che erano trucchi: noi vogliamo sapere come è possibile far crescere un albero da un seme in pochi secondi, oppure proiettare ologrammi realistici in un teatro, a fine 1800, ma non è questo il vero ricordo che ci resta del film.

 Il merito va anche agli attori: Edward Norton, Jessica Biel e Paul Giamatti danno vita a tre personaggi ruffianamente accattivanti, raccontandoli con un compassato minimalismo di recitazione e dialogo che li rende ancora più gradevoli e, per paradosso, li caratterizza in maniera incisiva. E questo anche se i due romantici amanti si rivelano infine essere due cinici calcolatori, guidati da una spietatezza tale da aver inscenato la morte di lei per spingere al suicidio il principe (il quale quindi non aveva commesso alcun omicidio, e quindi forse non era così malvagio come lei ci aveva fatto convenientemente credere, ma era comunque diventato un personaggio scomodo, dato che lei si era innamorata di un altro e non voleva più tenere fede agli impegni presi in precedenza).

"Godzilla" (2014)

 "Godzilla" (2014), diretto da Gareth Edwards su soggetto di David Callahan, è un film di fantascienza avventurosa del filone dei "mostri", che riavvia narrativamente la saga cinematografica statunitense dell'omonimo mostro di origine giapponese.


 Accattivante e intelligente rilettura ragionata del mito di Godzilla, questo film dimostra il valore e lo studio con cui è stato realizzato sin dal'arguto e felice prologo in cui filmati (veri) degli esperimenti nucleari nel Pacifico degli anni 1950 si mescolano a presunto materiale secretato che appartiene a entrambe le superpotenze dell'epoca (USSR e USA) e che ribalta letteralmente il significato della loro corsa agli armamenti atomici.
 Con un bel ritmo narrativo che regge fino alla fine, la vicenda bilancia il catastrofismo mostruoso e spettacolare con le vite private degli esseri umani coinvolti nella vicenda, mentre l'azione si sposta dalle Filippine a una centrale nucleare giapponese fittizia (apocalitticamente devastata a pochi anni dall'incidente di Fukushima), alle Hawaii, al monte Yucca in Nevada (famigerato deposito delle scorie radioattive USA), fino a San Francisco (teatro dell'epico scontro finale tra Godzilla e i suo avversari).
 Ogni sequenza contribuisce anche allo sviluppo della trama, e all'esposizione dell'articolato scenario scientifico con cui gli autori riescono a rendere credibile non solo l'esistenza di intere specie di mostri (kaiju) in un'epoca geologica remotissima e letalmente radioattiva del pianeta, ma anche il risveglio di alcuni di essi in quest'epoca, dovuto proprio alle attività nucleari dell'umanità (dai sottomarini nucleari degli anni 1950 fino all'ossessiva ricerca moderna di materiale fissile per scopi bellici), argomento ricorrente del film che costituisce un solido aggancio alla "paura atomica" che era il terreno da cui scaturì il concetto originale di Godjira.
 Per una volta, è un sollievo vedere un film hollywoodiano che mette in scena l'esercito (la Marina degli Stati Uniti) senza dover per forza ricorrere a una visione semplicisticamente manicheista, sia essa un militarismo esaltato da registi reazionari oppure un ingenuo pacifismo a tutti i costi capace solo di dipingere i militari come un branco di fanatici privi di cervello. Ciò significa ovviamente mostrare le forze armate USA per quello che sono: una vasta organizzazione, tecnologicamente avanzata, fortemente strutturata, guidata da persone che hanno competenza e umanità, nel bene e nel male, e che agiscono nell'interesse della popolazione.
 Purtroppo questa accortezza non basta per salvarci, almeno questa volta, dai famosi momenti "facciamo questa cosa perchè sì" e "oh cavolo, è venuto fuori un disastro, chi se lo aspettava".
 Prima con gli scienziati che pensano bene di NON distruggere le due larve di mostri perchè vogliono studiarle, e poi col generale che decide di spazzare via i mostri con una bomba nucleare, la quale ovviamente contiene materiale radioattivo e finisce nelle zampe del mostro che ne ha bisogno per deporre le uova.
 Ma non è forse questa un'onesta e realistica descrizione della natura umana, nonchè di ciò che accade nella nostra realtà ogni giorno, senza che nessuno vi si opponga? Non a caso, il film mette in scena una centrale nucleare che viene distrutta da un terremoto, e i depositi di scorie nucleari che nessuno sa come smaltire: due realtà concrete che è stato folle perseguire, ma che nonostante questo esistono.
 Questo approccio funziona sul versante di tutti i protagonisti umani, che non sono superuomini niciani capaci di risolvere ogni cosa, ma esseri umani (appunto) coinvolti in una lotta più grande di loro, e impegnati più che altro ad arginare i danni collaterali. Non a caso, la narrazione è corale e non esiste un effettivo protagonista, nonostante l'attenzione che il film riserva a Ford Brody, il giovane militare figlio dell'unico scienziato che aveva compreso la portata della minaccia dormiente dei mostri, e che effettivamente costituisce un (sofferentemente eroico) modello di abnegazione che svolge fino in fondo il proprio dovere di soldato verso i civili, senza però mai rinunciare alla famiglia a cui vuole riunirsi, e marciando (letteralmente) attraverso ogni genere di avversità per riuscirci (con tanto di idea finale che incredibilmente e credibilmente riesce a dare man forte a Godzilla durante la battaglia finale). Qualcuno potrebbe preferire i personaggi che vanno di moda oggi, cioè quei vacui e cinici bastardi individualisti, guidati solo dall'egoismo, e quindi più "realistici", ma seriamente: sapendo che a tali personaggi sono affidati il nostro futuro e le sorti del mondo, preferiremmo vedere in quel ruolo qualcuno che ci somiglia quando siamo al nostro peggio, oppure qualcuno migliore di noi, guidato da ideali e da coerenza che siano un modello e un esempio a cui tendere per diventare persone decenti?

 Come sceneggiatura e regia si impegnano scrupolosamente per rendere la portata globale ed epocale della riemersione di una biosfera perduta, così gli attori in carne e ossa interpretano con onestà i loro ruoli, conferendo una sensibile umanità a personaggi avventurosi altrimenti abbastanza stereotipati. D'altra parte, come può esistere una simile storia di fantascienza senza il giovane soldato (Aaron Taylor-Johnson) dal grande cuore che riesce stoicamente ad anteporre il dovere di aiutare i civili al proprio interesse, ma non rinuncia neppure per un istante a ritrovare i propri cari? E si può forse fare a meno dell'eccentrico scienzato giapponese (l'immancabile Ken Watanabe) che per tutta la vita aveva previsto una catastrofe, venendo sistematicamente sbeffeggiato dalla "scienza ufficiale", e che muore proprio assistendo al realizzarsi delle sue fosche profezie?

 La solenne e inquietante colonna sonora attinge a un'ampia gamma di sonorità orchestrali per rendere con impetuosa efficacia l'argomento principe del film, e cioè la sinistra potenza di Godzilla, un'entità che non è colossale solo per la sua stazza, ma anche perchè rappresenta un intero ecosistema sconosciuto all'uomo, ignaro di concetti come bene e male. E' il giusto contraltare di una fotografia che alterna foschi panorami notturni a scene in pieno sole (come nel deserto di Yucca), le quali risultano comunque venate da una tinta tenebrosa, coerentemente con l'atmosfera di sottile terrore primordiale che permea l'intera pellicola.

giovedì 24 ottobre 2019

"Phone Booth" (2002) - "In linea con l'assassino"

 "Phone Booth" (2002), in Italia "In linea con l'assassino", diretto da Joel Schumacher e scritto da Larry Coen, è un bizzarro e accattivante film "da brivido" e giallo, basato su una trovata intrigante che, incredibilmente, riesce a reggere per tutti gli 81 minuti della durata della pellicola e dà vita a un prodotto narrativo singolare e meorabile nella sua apparente semplicità.


 A Manhattan (New York), un arrogante pubblicista newyorkese dalla parlantina sciolta e dai  modi di un venditore di auto  usate, Stuart Sheppard (Colin Farrel), è perennemente impegnato a manipolare clienti, riviste, fornitori, e chi più ne ha più ne metta: scaltro e cinico, mente platealmente o distorce la verità a piacere, per indurre celebrità, giornalisti e via dicendo a seguire i suoi desideri e stipulare contratti con lui.
 Ma, mentre "Stu" si prepara a telefonare da un'anonima cabina telefonica a un'aspirante attricetta molto carina, per illuderla di poterla aiutare nella sua carriera (e, significativamente, si leva l'anello nuziale prima della telefonata), nella sua vita irrompe un fattore che tutta la sua smaliziata loquacità non è in grado di arginare: un cecchino, che ha preso di mira la sua cabina telefonica da un qualche palazzo circostante, gli dimostra di conoscere tutti i suoi dati e i suoi segreti, e lo minaccia di morte se non renderà pubblica la sua infedeltà alla moglie.

 Da questa singolare premessa, in apparenza uno scoglio contro cui la nave del film deve per forza schiantarsi, si sviluppa invece una singolare rarità narrativa dal ritmo incalzante e dalla narrazione limpida e coinvolgente. Quasi fedele al canone aristotelico dell'unità di tempo e di luogo (anche se quest'ultima non è perfetta), il film riesce ad avvincere lo spettatore nel raccontargli una storia che routa per quasi tutto il tempo intorno a un pubblicista in abiti costosi, barricato in una cabina telefonica. Non ci sono flashback, non ci sono divagazioni sui comprimari, non ci sono sottotrame: c'è solo la crescente disperazione di un giovanotto modaiolo che, vittima dei giochi mentali sempre più sadici di un misterioso persecutore invisibile, tenta senza successo di usare la propria facondia per uscire da questa trappola in cui è andato a infilarsi, solo per vedere la propria psiche che viene implacabilmente sezionata e smantellata, uno strato alla volta, mentre intorno a lui si radunano prostitute furiose, forze di Polizia, mediatori, un pappone, un venditore ambulante, la moglie, la potenziale amante. E ogni volta che il giovanotto cede al panico o si ribella al persecutore, qualcuno muore o una persona a lui cara viene presa di mira.
 La tensione è sempre palpabile, anche se declinata in forme diverse, a seconda della svolta imprevista che la sceneggiatura compie: lo spettatore si chiede alternatamente come potrebbe Stu cavarsela (e si immedesima in lui quasi senza rendersene conto), e chi possa essere questo persecutore. Perchè qualcuno dovrebbe agire così? Mentre la personalità del giovanotto viene progressivamente messa a nudo, anche le possibili motivazioni del cecchino vengono formulate e sistematicamente scartate, in un gioco di inganni così esplicito da essere a sua volta un inganno.
 Nel crescendo di eccitazione e ansia, ravvivato da trovate che evidenziano ossessivamente il livello di pianificazione totale di questa improbabile trappola, il pungente e incessante scambio di battute tra Stu e l'implacabile cecchino fa scaturire elementi di critica e riflessione socio-tecnologica: la cabina telefonica rappresenta le ultime vestigia di un mondo che sta scomparendo, mentre la comunicazione portatile digitale è già una realtà quasi onnipresente, che annuncia la morte della privatezza classica (e l'inevitabile nascita di nuovi modi per ingannare il prossimo nei rapporti interpersonali, da parte di chi si relaziona agli altri principalmente con la menzogna); la brillante facciata di ricchezza, benessere e moda dei ceti borghesi medio-alti nasconde uno sterile e triste mondo di vuotezza e sotterfugi; la vita di coppia monogama non può reggere alle tentazioni di una brulicante società sempre più egoista, individualista, avida nell'immediato e priva di ideali e senso di collettività; le nuove tecnologie portano sì un cambiamento, ma senza mai sfiorare le barriere tra le classi sociali; e la feccia come gli squali della finanza o i ricchi depravati (categorie delle precedenti vittime del cecchino) finisce sempre per farla franca, proprio grazie a questi cambiamenti che portano vantaggi riservati ai ricchi (se non entra in scena un irrealistico e consolatorio giustiziere che prende la situazione nelle proprie mani).

 La risoluzione catartica del film è apparentemente positiva, nonostante il costo (o forse proprio per via di quello): dopo che finalmente il giovanotto e la Polizia riescono a orchestrare una reazione senza che il persecutore se ne accorga, "Stu" si confessa pubblicamente mettendo a nudo le proprie colpe e insicurezze, sua moglie lo perdona, e il persecutore suicida.
 Ma il film ha ancora una piccola sorpresa da proporre: è una scena reale, quello che Stuart vive mentre è in ambulanza, sotto gli effetti di un sedativo, oppure sta semplicemente sognando? Davvero il suo persecutore ha orchestrato questo complicatissimo piano solo per redimerlo dai suoi peccati e costringerlo a vivere una vita migliore?
 E, a questo punto, lo spettatore di interroga sulla complessità e aleatorietà del piano della cabina telefonica: davvero un essere umano, per quanto astuto, avrebbe potuto architettare e fare funzionare una simile trappola?
 Oppure la sequenza finale onirica funge da chiave di lettura metafisica? Il regista ci sta forse dicendo che il persecutore è in realtà una figura soprannaturale, una sorta di angelo della redenzione che per salvare certe persone non esita a torturarle psicolgicamente e persino ad ammazzare qualcuno?
 E ne è valsa davvero la pena? Oppure il buon Stuart, apparentemente redento, sta solo aspettando la prossima occasione per tornare ai vecchi vizi?

 Regia e fotografia brillano nel servizio alla sceneggiatura, tanto nel ritmo quanto nel raccontare visivamente le tematiche del film, con particolare enfasi sull'alienazione di una città tentacolare e brulicante come New York, con le sue sterminate facciate di palazzi dietro cui accade chissà cosa, nonchè sulla variegata e disperata umanità che brulica ai piedi di questi palazzi, in una palese visualizzazione delle barriere tra ceti sociali che la democrazia e la mentalià politicamente corretta si rifiutano di riconoscere come tali (da notare le inquadrature panoramiche, che privilegiano angolazioni a livello delle strade e rivolte verso l'alto, proprio a sottolineare la separazione tra due mondi inconciliabili). E' visivamente altrettanto efficace e nitida la discesa nella disperazione e paranoia del protagonista umano, singolarmente affiancato da una cabina telefonica che, come ultimo baluardo di un'epoca al tramonto, è a sua volta un simbolico protagonista della narrazione.
 Il passo sicuro e la visione lucida della sceneggiatura si riflettono anche nei dialoghi, scritti con grande cura per raccontare personaggi e storia in modo chirurgico, oltre che bilanciare le esigenze narrative con quelle della caratterizzazione, la quale è a sua volta declinata in un efficace equilibrio di pulsioni che coesistono in chiunque: emotività, razionalità, decenza e istinto di sopravvivenza.

 Particolarmente beffarde e socialmente taglienti sono le battute dell'assassino, che bersaglia e smonta le ipocrisie sociali più comuni, dalle abitudini delle forze di Polizia (con o senza stampa presente) al cinismo del mondo dell'informazione, passando per la falsità dei rapporti di coppia.
"You're cheating."
"I'm not cheating on Kelly. I never have."
"Then what do you call it?"
"Look, you're a guy... sometimes you want to know it's a possibility. It's like having a beautiful home... but you still dream of that quick vacation. You know, some nice hotel room with a great view, maybe a pool. It's just a fantasy. You never leave home."
"Do you hear what you're saying? Kelly is a home and Pam is a motel. I'm sure they'll both appreciate that." 
 Gia in circolazione da qualche anno, l'attore Colin Farrell si impegna a fondo e con bravura nell'interpretare un uomo comune, nel bene e nel mane, la cui facciata esteriore, costruita con tanta cura, si sgretola progressivamente, facendo emergere la disperazione di una psicologia fodamentalmente sofferente e insicura, forte e sincera nella sua umanità, nonchè propria della stragrande maggioranza delle persone.
 Da notare anche come, la fase finale in cui Farrell affronta la catarsi e la rinascita è anche quella in cui il suo personaggio, prima di mettersi completamente a nudo e rigenerarsi, sembra quasi sparire dalla narrazione, ingoiato dal gorgo della surreale situazione, sopraffatto dall'enormità dei suoi antagonisti (la "voce" e il mondo rappresentato dalla cabina telefonica).

 Sulla "voce" telefonica dell'assassino, Kiefer Sutherland, è necessaria una riflessione, per evitare di commettere l'errore di liquidarla snobisticamente come poco credibile.
 Innanzitutto, in un film che contempla lucidamente l'evoluzione della comunicazione tra i temi principali, la perfetta nitidezza della voce (che dovebbe scaturire da una cornetta di una cabina telefonica, ed essere quindi come minimo un po' disturbata e attutita) è palesemente una scelta narrativa che si ricollega all'ambiguità del finale: più che dal telefono, la voce sembra provenire dall'etere, e si combina con le sue qualità di onniscenza e onniveggenza, quasi fosse quella di una divintà (o di un suo messaggero).
 La qualità della voce e il suo tono asciutto e aspro, mantenuti volutamente impersonali anche nelle scene in cui in apparenza l'assassino rivela la propria psicologia di sadico e manipolatore, sono altri indizi che contribuiscono a rafforzare l'idea di essere in presenza di un personaggio che sta interpretando un ruolo, ma la cui vera natura va molto al di là di un semplice essere umano, legittimando l'interpretazione metafisica dell'astuta scena finale: psicotico e geniale assassino seriale, spietato angelo custode che redime con metodi brutali, oppure angelo sterminatore che concede un'ultima possibilità di pentimento?

 Sul versante dei comprimari, il capitano Ramey (Forest Whitaker) calca parecchio la mano nell'interpretare un poliziotto che incarna il lato umano non solo della Polizia, ma anche della stessa New York, con il suo metodo di lavoro che concede grande spazio all'intuito, alle sensazioni, alla sensibilità e alla componente personale, cosa che poi l'assassino gli rivolge sadicamente contro, costringendo Stuart a porgli umilianti sulla sua vita matrimoniale. Abbastanza esagerata è anche la contrapposizione manichea tra il poliziotto nero buono (Ramey) e il collega bianco fanatico e stupido, i cui metodi avrebbero causato sicuramente una o più morti inutili.



mercoledì 23 ottobre 2019

"Shin Godjira" (2016) - "Shin Gozilla"

 "Shin Godjira" (2016), in Ialia "Shin Godzilla", è una Annata pazzesca.

Scheda di "Shin Godjira" su wikipedia

 E lo è nel senso letterale, essendo stato scritto a co-diretto da Hideaki Anno, cioè il padre di "Neon Genesis Evangelion"; e com'è inevitabile con autori dalla visione così peculiare e radicale, "Shin Godzilla" (nome occidentale del film) è talmente ricco degli stilemi di Anno da divenire visivamente, stilisticamente e narrativamente molto simile a un colossale episodio di NGE.
 Il parallelo è talmente forte che si può nominare direttamente "Operazione Yashima" come modello concettuale (fortemente modificato e potenziato) della trama, nella quale Anno riesce astutamente ad affrontare i temi che da sempre gli sono cari (e che guarda caso sono temi tipici della saga di Godzilla, tanto da far pensare che NGE ne sia un omaggio!): l'evoluzione, la fiducia nella potenza della tecnologia, le sfide all'umanità che deve superare se stessa, la mutazione urbanistica del Giappone che diventa quasi un superorganismo tecnologico in cui i giapponesi abitano come una creatura collettiva...

 A rischio di anticipare la trama, questa è pur sempre la storia di un mostro che calpesta il Giappone, sebbene Anno la narri applicando i propri stilemi a raffica, e spingendoci a chiedere: ma lo spettatore che non è anche un fan di NGE, come reagirà davanti a questa spudorata esibizione istrionica di talento, quasi un po' arrogante?

 Tanto per dare un'idea di come operi Anno e di cosa attende lo spettatore, ecco una carrellata dei suoi stilemi.
 La narrazione sincopata, costantemente scandita da enormi didascalie (in ideogrammi) che identificano luoghi e organizzazioni e ruoli (satiricamente sempre più elaborati, mentre l'efficacia delle istituzioni nel fronteggiare la crisi si riduce); i dialoghi in cui si alternano il ritmo lento della caratterizzazione e quello incalzante dello sviluppo della chiave politica o pseudo-scientifica della trama; la disorientante disuguaglianza della scansione narrativa (da un lato, si indugia a lungo nell'attenzione a ogni parola di ogni dialogo, riflettendo la lentezza dell'incedere di Godzilla attraverso il Giappone; dall'altro, gli improvvisi balzi in avanti, con fuoriscena che vengono spiegati in altri dialoghi, riflettendo anche qui come il pur lento Godzilla avanzi inesorabilmente e raggiunga magicamente il suo obiettivo ogni volta); le malinconiche musiche, solenni e liriche, che accompagnano con tono dolente le scene più spettacolari e ricche d'azione; l'attenzione alle peculiarità delle affollatissime città giapponesi (gli iconici fotogrammi con centinaia di biciclette, o grovigli di cavi elettrici, o edifici colossali simili ad antiche fortezze).
 E, ironicamente, le tecniche che in NGE sembravano una scelta dettata dall'esigenza di risparmiare: personaggi immobili ripresi più o meno in un angolo di un campo lungo, mentre parlano tra loro osservando un panorama urbano peculiare. Ma in questo film Anno non deve certo tirare la cinghia: e quindi, lo fa per scelta stilistica o per beffardo autocitazionismo?
 (Ed ecco che ci risiamo: il fan di NGE ha il sopravvento sul tizio che cerca di fare un'analisi del film in esame).

 In quanto film di mostri, "Shin Godjira" è coerente con la propria natura, e di mostri ce ne elargisce ben tre (ma non dirò come), giocando sempre tutto sul tema primevo della genesi di Godzilla (e cioè l'irresponsabilità criminale dell'uomo nel gestire le scorie radioattive, dopo aver risvegliato un mostro incontrollabile come l'energia atomica, di cui Godzilla è una nota metafora). Ma, come sostiene uno dei personaggi, l'algida Hiromi Ogashira (versione in carne e ossa della Rei Ayanami di NGE), l'uomo sembra essere il vero mostro, in questo film, e sempre figlia dell'uomo è la divinità razionale e onnipresente che sfida il dio-mostro Godjira. E' ovviamente questa la già citata visione della tecnologia di Anno: pervasiva nella sua onnipresenza, ciclopica nella "unificabilità" industriale di macchina da guerra nazionale priva difetti con cui il Giappone risponde all'assalto della natura impazzita, sistematica nell'avere sempre la risposta giusta. E' fiducia cieca e assoluta, quella che Anno ripone in questa tecnologia industriale? E' per lui il simbolo del Giappone, dal modo quasi religioso in cui la dipinge come una divinità infallibile?

 Il finale, che vede il trionfo dell'ingegno umano e del progresso tecnologico, lascia però una porta aperta a un possibile ritorno del mostro,  declinato in chiave fantascientifica così tipica della narrativa contemporanea (senza confini geografici) da risultare, a posteriori, così banale da essere ovvia. 

 E alla fine, non ho risposto alla domanda che tutti chiaramente ci poniamo: ma il film mi è piaciuto o no?

venerdì 18 ottobre 2019

"12 Monkeys" (1995) - "L'esercito delle dodici scimmie"

 "12 Monkeys" (1995), in Italia "L'esercito delle dodici scimmie", è un film di fantascienza diretto da Terry Gilliam e basato su un cortometraggio di Chris Marker.


 Visivamente ancora convincente dopo 24 anni, è un divertente e ritmato prodotto dalla narrativa solida, che riesce a ribaltare il becero stereotipo della definizione di "fumettone", solitamente applicata dalla critica a quei film che ritiene scadenti, e quindi confezionati secondo i criteri poveri e semplicistici della non-arte dei fumetti (e complimenti per lo snobismo e l'ignoranza in merito). Se c'è una cosa in cui il cinema di fantascienza raramente riesce a convincere, infatti, è proprio il tema del viaggio nel tempo, che per motivazioni di vario tipo  viene gestito in maniera particolarmente ignorante e contraddittoria (i motivi vanno dall'ingerenza semplificatrice dei produttori, solitamente troppo attenti al botteghino, fino alla storpiante esigenza di farsi capire da una platea molto vasta e variegata, che solitamente cerca un intrattenimento immediato, e non gode della capacità analitica, logica e di approfondimento che tipica invece dei poveracci che leggono i fumetti). Ecco invece che "L'esercito delle dodici scimmie" è costruito così bene, e soprattutto funziona così fluidamente, da potersi dignitosamente paragonare a un classico fumetto Marvel, o a un bel racconto di fantascienza dell'epoca d'oro statunitense, incentrato sui viaggi nel tempo: col suo canovaccio è infatti difficile non pensare a certe epopee dei Vendicatori o dei Fantastici Quattro degli anni 1970-1980, per non parlare di romanzi come "La fine dell'eternità" di Isaac Asimov.

 Tra gli elementi più intriganti del meccanismo narrativo, c'è il concetto della "storia" che avviene comunque, a prescindere dall'influenza esercitata dai viaggiatori temporali. Siamo quindi molto distanti da "A Sound of Thunder" di Ray Bradbury (a prescindere che abbiate letto il racconto, visto il film del 2005 o guardato il relativo ed esilarante episodio di "Treehouse Of Horror" di "The Simpsons"): i viaggiatori temporali non causano scompensi che si propagano come onde in uno stagno, ma sono invece travolti e annullati loro stessi dalla complessità della storia in cui piombano, cosa che il regista sottolinea ripetutamente e con grande logica (non ci vuole nulla a sbagliare "mira" nel viaggio temporale, considerando banalmente che la Terra si muove, ed ecco quindi che un viaggiatore può essere internato in un manicomio, oppure trovarsi nel mezzo delle trincee francesi della Prima Guerra mondiale, incapace di parlare la lingua locale, oppure diventare un profeta medievale che preannuncia eventi con troppo anticipo, e così via). Notevole è l'ultima telefonata che il protagonista Cole fa al numero dell'azienda di pulizie: apparentemente, essa non era parte del flusso temporale esistente (e infatti nel futuro gli scienziati la ricevono "dopo", come dice il viaggiatore temporale Josè), ma la sua presenza viene comunque metabolizzata dalla "Storia" e trasformata da potenziale fattore destabilizzante in fattore neutralizzante (è a causa sua che Cole muore e la "Storia" può proseguire nel suo drammatico percorso). Va notato inoltre che il ricordo d'infanzia del protagonista, che egli rivive in sogno come leitmotiv della storia, è a sua volta oggetto di alterazione: all'incirca al trentottesimo minuto, nel ricordo compare un uomo in fuga con valigia, il quale ha il volto di Brad Pitt; invece nel finale, quando la sequenza ha finalmente luogo "in diretta", l'uomo in fuga è abbigliato e pettinato allo stesso modo, ma è un altro personaggio della storia: si tratta quindi di una ulteriore alterazione indotta dalla presenza di Cole, oppure solo di una confusione tra ricordo e sogno?

 Per una discreta parte della pellicola, il regista gioca inoltre a farci credere che questo sia un film sul paradosso della predestinazione (che però forse all'epoca non era così di moda), salvo poi sbeffeggiarci nel finale, dove invece anche questa trappola viene evitata (a meno che non siate Asimov, difficilmente riuscirete a essere credibili nell'adottare questa soluzione), chiudendo la vicenda in termini malinconicamente fatalisti: sarà proprio per la filosofia di accettare con rassegnata calma una vita che non possiamo controllare, che il tono drammatico della pellicola viene improvvisamente alleggerito da situazioni ironiche più o meno esplicite ("You went to a party?") o da una colonna sonora agrodolce come può essere uno scherzoso brano di fisarmonica sovrapposto a momenti cruciali dello sviluppo della trama?

 A dare spessore alla (coerente) mutevolezza umorale di questa narrazione contribuiscono anche i tre attori principali, che dimostrano di aver ben compreso le intenzioni del regista: Bruce Willis passa in modo convincente da viaggiatore ossessionato dalla missione a poveraccio con la mente così obnubilata da credere (o voler credere) che tutta la vicenda sia solo frutto della sua psiche malata; Madeleine Stowe espone efficacemente la parabola di una scettica psichiatra che, davanti alle crescenti prove di una verità ben diversa dalle sue teorie, si fa progressivamente coinvolgere dalle presunte fantasie del suo paziente, fino a prendere le redini del comando per fare attivamente fronte alla situazione (sebbene uno spettatore smaliziato non possa evitare di porsi la classica domanda: ma questa non ha mai letto fumetti o romanzi di fantascienza, nè visto film del genere? O anche: possibile che nei film dell'orrore siano tutti così stupidi da non scappare alla prima occasione?); Brad Pitt è il più istrionico di tutti, nel mettere in scena un ricco, squilibrato e viziato giovinastro che è anche un fautore di ogni possibile teoria del complotto (e probabilmente si merita un applauso solo per aver memorizzato gli allucinanti e onnicomprensivi monologhi che snocciola a tutta velocità, sciorinando interpretazioni capaci di affermare tutto e il contrario di tutto). 

 Il regista utilizza il personaggio di Pitt per mettere in ridicolo ciò che lui stesso invece probabilmente propugna: infatti, la paranoica voce fuori campo che guida il povero Cole non viene mai spiegata completamente, ma, guarda caso, essa dimostra di aver ragione proprio quando sostiene una delle più futuristiche teorie del complotto (gli impianti di sorveglianza dei viaggiatori temporali sono nascosti nei loro denti), teoria anticipatrice che non è difficile associare a ciò che accade al giorno d'oggi a ognuno di noi quando incorporiamo ogni genere di tecnologia indossabile, per soddisfare un falso bisogno indotto dalla pubblicità, così condizionati da farlo anche a costo di sacrificare una crescente parte dei nostri stessi diritti (ma ovviamente ciò vale solo per il mondo "civilizzato" che può permettersi certi lussi, pagati sulla pelle di altri che invece non ne vedranno mai neppure l'ombra per tutta la loro miserabile vita).

 Visivamente, oltre all'idea liberatoria dell'eliminazione di cinque miliardi di esseri umani e alla pulizia della superficie planetaria, sono da segnalare i suggestivi e desolati panorami urbani spopolato del futuro, gli orripilanti formicai sotterranei in cui sopravvivono i superstiti, e gli altrettanto squallidi panorami urbani odierni in cui vive la fetta povera della popolazione (c'è poi davvero tanta differenza tra i due mondi descritti in questo film, si chiede Gilliam? L'umanità è solo capace di dividersi in una classe dirigente che vive irresponsabilmente e arrogantemente nel benessere, e una classe lavoratrice da sfruttare e brutalizzare?).

 Per l'angolo finale della citazioni: a parte l'omaggio esplicito e ben scritto a Alfred Hitchcock (di cui vediamo addirittura sequenze di "Vertigo" e "Gli uccelli"), a noi spettatori italiani sfugge invece la citazione di una delle Quartine del matematico arabo Omar Khayyam, tradotte e adattate in inglese da Edward Fitzgerald nel 1800, autore che le ha rese una parte fondamentale della letteratura britannica:
"Yesterday this day's madness
did prepare...
tomorrow's silent
triumph of despair.
Drink, for you know not
Drink, for you know not
why you go, nor where. "
(Non è difficile scorgere in queste parole proprio la trama e la filosofia del film!)

Chiosa finale: come osserva Morando Morandini, il titolo è una falsa pista, cosa assai rara nella storia del cinema.

"The Pyramid" (2014) - La piramide

 "The Pyramid" (2014), in Italia "La piramide", diretto da Grégory Levasseuer su sceneggiatura di Daniel Meersand e Nick Simon, è un film dell'orrore che sfrutta ancora una volta lo stra-abusato filone archeologico egizio, mettendo gradevolmente in scena tutti gli stereotipi classici e moderni per fornire un'ora e mezza di piacevole intrattenimento con emozioni fasulle che però ci spingono a stare al gioco.


(Oppure: e se il mostro di "Alien" fosse vissuto nell'Antico Egitto?)

 Da un lato, abbiamo: una Piramide a tre facce del tutto sepolta dalle sabbie, un labirinto semi-iniziatico, le creature feline spaventose, una divinità ctonia in attesa del sacrificio.
 Dall'altro, abbiamo: gran parte del film basata sui filmati soggettivi delle onnipresenti telecamere, anche se alla fine il regista rinuncia a questo asfissiante e obsoleto trucchetto; un gruppo di personaggi che è la fiera dei luoghi comuni, con il padre archeologo ostile alle novità, la figlia archeologa incredibilmente bella e intelligente e volitiva che riesce per miracolo a ferire il mostro, la donna cronista virile e determinata che bullizza tutti, l'uomo della telecamera che ha paura e piange,  ma alla fine è l'unico a sfoderare gli attributi e ad affrontare il mostro; le citazioni cinematografiche un po' dozzinali nella loro pretenziosità; il tentativo di creare suspence a tutti i costi; l'intenzione di spaventare lo spettatore con improvvisi rumoracci assordanti (per fortuna il regista è il primo a stancarsene).

 La psicologia dei personaggi, oltre che basata su tipi convenzionali, è tagliata con l'accetta, e le loro isteriche interazioni sono molto semplicistiche, come è tipico di questi film di "sopravvivenza", dove contano più l'atmosfera claustrofobica, il mistero del labirinto dove si declinano minacce classiche (il corridoio che si riempie di sabbia) e altre più moderne (le varie creature sono in formato digitale).

 Per i fan di Martin Mystère e della storia occulta che non viene insegnata a scuola, gli sceneggiatori hanno cura di titillarci con l'ipotesi (vana) che la piramide sia quella di Akhenaton (faraone che impose un culto solare monolatrico, anticipando il monoteismo ebraico rappresentato da sacerdoti con un nome egizio quale Mhosis), per mettere in scena un po' di simbologia spicciola (i cani randagi che abbaiano contro chi sta per aprire la prigione di Anubi), per raccontarci che la piramide è così antica da precedere tutte le altre, e per mostrarci infine una parete mobile che su un lato mostra sculture egizie, e sull'altro mostra invece bassorilievi in stile sconosciuto, forse appartenenti a una civiltà ancora più antica.
 Come se non bastasse, fanno capolino anche i resti mummificati di un Massone giunto fin lì nel tardo 1800.
 Ce n'è quindi per sbizzarrirsi nel creare un impianto narrativo storico-mitologico degno delle migliori avventure mysteriane, se non fosse che questo è un film dell'orrore in cui contano maggiormente le morti dei protagonisti, tutte più o meno atroci, finchè non si giunge al rituale culminante della religione egizia: il giudizio di Anubi, dio dell'oltretomba che strappa il cuore dei defunti (o dei vivi) per pesarlo sulla bilancia e vedere se esso sia puro, cioè più leggero di una piuma di Maat, dea della verità. E' probabilmente questa la rivelazione più interessante del film: gli dei egizi esistono in forma fisica, sono immortali, e hanno vissuto davvero le vicende tramandate dal mito; il feroce Anubi, incapace di trascendere come fecero Osiride e gli altri, fu quindi imprigionato in quella piramide dagli stessi Antichi Egizi, che non ne potevano più di offrirgli sacrifici umani.

 Forse per compensarci della non eccelsa qualità dei dialoghi e della trama, il film si conclude con un finale "non consolatorio" (come direbbe Umberto Eco), lasciandoci un po' sulle spine riguardo a cosa accadrà adesso, ma soddisfacendo il nostro gusto di criticoni che non si aspettano certo che Anubi sia sconfitto da un taglietto alla gola e dall'assalto di un po' di gatti Sfinge famelici (avete presente Catwoman nel film "Batman Returns" del 1998?).

 Da notare che gli omaggi cinematografici al genere archeologico si spingono forse ad ammiccare a Indiana Jones, ma soprattutto a scimmiottare "Alien", prima con le indecifrabili creature che corrono velocissime nei cunicoli e aggrediscono quando non te l'aspetti, e poi con Anubi stesso che alita sulla nostra bellissima archeologa bionda.

 Sicuramente per caso, il film scimmiotta anche le idee e parte del finale del coevo "As Above, So Below" (in italiano "Necropolis - La città dei morti"), senza però riuscire a imitarne l'approccio decisamente più approfondito all'occultismo misterico ("As Above, So Below" si occupa di alchimia nei labirinti sotterranei di Parigi, e l'alchimia può essere fatta risalire ai culti misterici di Grecia ed Egitto, scaturiti a loro volta dagli insegnamenti del dio Thot, per cui tutto torna: se volete dare un senso a "The Pyramid", guardatevi anche "As Above, So Below").

mercoledì 16 ottobre 2019

"Meet Joe Black" (1998) - "Vi presento Joe Black"

 "Meet Joe Black" (1998), in Italia "Vi presento Joe Black", diretto da Martin Brest e scritto da Bo Goldman, viene normalmente descritto quasi esclusivamente come un film romantico, sebbene abbia alcune notevoli carte per titillare gli appassionati del fantastico e si presti a riflessioni non banali sul senso della vita.


Scheda di "Meet Joe Black" su wikipedia

 Nel 1924, il commediografo italiano Alberto Casella scriveva una commedia intitolata "La morte in vacanza", in cui immaginava che la Morte si incarnasse in un corpo umano per prendersi un periodo di riposo.
 Nel 1934, un film omonimo trasponeva la commedia sul grande schermo, mantenendo il tema della Morte che si innamora di una donna comune, e facendole inoltre dimenticare il proprio ruolo, interrompendo quindi il ciclo vitale della Terra.
 Oltre ad aver ispirato varie vicende di "Dylan Dog", il film potrebbe essere stato alla base della saga fumettistica "Secret Wars 2" della Marvel, la quale vedeva un essere onnipotente (l'Arcano) assumere forma fisica per capire il significato dell'incompletezza e del desiderio che affliggono gli umani (giungendo nei suoi 6 mesi di avventure persino ad annientare la Morte, interrompendo il ciclo della vita).
 Nel 1998, il film viene rifatto col titolo di "Meet Joe Black" ("Vi presento Joe Black").

 La dose di glucosio che caratterizza i dialoghi di certi personaggi è sicuramente elevata, il desiderio di fare cassetta con la presenza di un leccatissimo e già celebre Brad Pitt è piuttosto palese, la durata complessiva di 180 minuti può mettere alla prova gli spettatori più stoici, e l'adorabile monoespressività della insolita e intensa bellezza di Claire Forlani può spingere forse all'esasperazione, ma il film ha molte altre carte da giocare: tecnicamente di buona fattura, in termini di regia, fotografia e sceneggiatura, gode anche della sontuosa ed emotiva colonna sonora del celebre Thomas Newman.
 Se si riesce quindi a guardare oltre i difetti, e ci si lascia incantare come un amante dei fumetti che vuole vedere una qualche trasposizione di qualità del fantastico sul grande schermo, ecco che il film sviluppa concetti intriganti e propone riflessioni di una certa sensibilità.
 Idee come poter parlare con la propria Morte nei giorni che precedono la propria dipartita; incontrare un'entità metafisica assoluta che ha assunto forma umana e che si rivela essere non una divinità onnipotente ma un ingranaggio solo parzialmente consapevole all'interno di un cosmo comunque cieco; vedere come la Morte cambi atteggiamento e carattere a seconda del mortale che la riconosce.
 Quest'ultima caratteristica merita una digressione, per segnalare le sequenze ospedaliere dedicate all'anziana donna giamaicana, malata di tumore e lacerata tra il desiderio di vivere e quello di morire; sequenze in cui Joe Black (e qui Brad Pitt si dimostra davvero bravo) diviene automaticamente una divinità della morte dell'Obeah (il sistema di credenze che gli schiavi centrafricani portarono con sè nelle Americhe, ibridandolo con le credenze cristiane), e lo fa cambiando accento, carattere, mimica e modo di fare, e si lascia quindi commuovere dal dolore dell'anziana donna, concedendole ciò che desidera e ricevendo da lei una illuminante rivelazione sulle conseguenze della sua stessa umanizzazione.

 Da qui, andando oltre lo scopo della cassetta, il film riesce quindi anche a trattare sottilmente la tematica dell'occultamento della morte nella nostra società: i malati vengono isolati in ospedali (o dietro altre mura), dove ai sani viene risparmiata la visione della sofferenza, dell'agonia, del dolore e del degrado corporeo; e l'augurio che tutti si fanno è quello di morire rapidamente e improvvisamente. E il film segue esattamente questa metodologia, sia per la pulita e dolce morte della donna giamaicana, sia per il fuori scena in cui il protagonista Bill Parrish finalmente incontra il proprio destino, spingendoci così prima a criticare la zuccherosa mancanza di realismo di queste scene, e poi a renderci conto che è così che la nostra società e mentalità gestiscono la morte: rimuovendola.

 Da reinterpretare è quindi il percorso della giovane Susan: in apparenza una donna romantica che si innamora scioccamente della Morte, attratta dal suo bel faccino di attore famoso, Susan compie invece il percorso di accettazione della morte come parte della vita (e quindi la scena di amore ci riporta al freudiano intreccio di Thanatos ed Eros), rifiutandone la negazione a tutti i costi che è l'impulso imperante della nostra mentalità. Significative in questo senso sono, prima,  la scena in cui Susan prova un brivido di natura cosmica, quando sfiora con l'intuito la vera essenza di Joe Black, e poi, la scena in cui, ritrovando il suo vero amato (riportato in vita dalla Morte stessa come regalo d'addio), Susan accetta l'intero impianto soprannaturale del film, nonchè l'improvvisa dipartita del padre, senza averla vista accadere, semplicemente dicendo "Vorrei che tu avessi conosciuto mio padre"; e così facendo lei, il film sembra auspicare che tutti quanti riscoprano nuovamente questa filosofia.

 Rimasta per ultima, ma sicuramente prima in termini di qualità, è l'interpretazione di Anthony Hopkins, qui impegnato nel ruolo di un magnate dell'informazione di vecchio stampo, e cioè dotato di etica professionale e senso di responsabilità, che deve fare i conti con i giovani dirigenti rampanti del suo consiglio d'amministrazione, ansiosi solo di fare profitto e vivere nel lusso, infischiandosene delle conseguenze delle loro scelte, non solo per le vite di migliaia di lavoratori, ma anche per il futuro stesso della società. E' ciò che Hopkins spiega con poche, stringate e pregnanti frasi, che definiscono la vera statura morale del personaggio; e non è certo un caso che, al termine della propria vita, chiedendosi se dovrebbe aver paura di ciò che lo attende, Hopkins si senta rispondere dalla Morte: "Non un uomo come te". Mentre gli altri personaggi risultano definiti, ma abbastanza monodimensionali, incastrati come sono in un ruolo narrativo obbligatorio per l'avanzamento della trama, Hopkins può invece dare del suo meglio sia nei pochi momenti ironici che in quelli più intensi, rendendo credibili e logiche anche le parti più stucchevoli che gli vengono assegnate (non è infatti ovvio che, sapendo con certezza di dover morire a breve, perchè la Morte stessa glielo ha annunciato, un uomo voglia i propri cari intorno a sè e divenga più comprensivo e magnanimo con tutti, nel tentativo di lasciare loro un'eredità positiva e che permanga negli anni a venire?). Diametralmente opposti (anche perchè collocati all'inizio e alla fine del film) sono i "predicozzi" che Hopkins riserva alla figlia Susan (che non ha ancora capito cosa sia il vero amore, e si accontenta di vivacchiare con l'insipido e infido Drew) e alla Morte stessa (che parla invece continuamente dell'amore che prova per Susan, ma sta invece comportandosi come un bambino egoista e viziato, disposto a rompere il proprio giocattolo piuttosto che rinunciarvi).
 In maniera speculare a Hopkins, Brad Pitt fa del suo meglio nel rappresentare le molteplici facce della morte: spietata nel proporre il patto a Parrish, buffamente impacciata nello scoprire l'umanità (e quindi eroticamente irresistibile per una donna insoddisfatta), aspra quando mostra il volto del culto Obeah, brillante e comica nella risoluzione della trama relativa alla fusione aziendale orchestrata dall'immorale e disonorevole arrampicatore Drew (il famoso detto "la morte e le tasse" diventa qui letterale), solenne e giusta nel sontuoso ed epico finale strappalacrime, contornato da grandiosi fuochi d'artificio e musiche di un'orchestra nettamente intenzionata a farci piangere a tutti i costi.
 E il film in sè, ci è riuscito?

 (Come contraddittorio a questo sproloquio, vi lasciamo con il responso critico di Rotten Tomatoes: "film glacialmente lento, e privo di eventi. Nominato ai Razzie Award come peggior rifacimento". Abbiamo visto la stessa pellicola?)

martedì 15 ottobre 2019

"No Country for Old Men" (2007)

 "No Country For Old Men" (2007), in Italia “Non è un paese per vecchi”, film di Joel ed Ethan Coen stracelebrato e pluripremiato, è un ibrido tra il noir (una sfilza di violenti ammazzamenti a cui non si può porre freno, personaggi squilibrati e cupi che si scontrano e si inseguono restando sempre prigionieri della loro caratterizzazione unidimensionale, una opprimente brutalità che avvolge tutto in un manto di pessimismo e sfiducia nell’uomo, personaggi patetici e impotenti di contorno che tentano invano di arginare la violenza e ne vengono travolti o annichiliti) e il western aggiornato (il territorio di confine tra USA e Messico, nell’epoca degli anni 1980, in cui infuriano scontri tra bande di trafficanti di droga delle due sponde).


 I primi quaranta minuti sono interessanti e coinvolgenti, nonostante la scarsa originalità dei personaggi. La vicenda è incentrata su una "caccia del gatto al topo", scatenata dalla usurata figura narrativa dell’assassino a pagamento (Javier Bardem) che impazzisce e diventa un inarrestabile flagello per il gruppo di personaggi principali di questa narrazione corale; il suo bersaglio è uno zoticone cocciuto (Josh Brolin), il cui destino è prevedibile fin dall’inizio; l’anziano sceriffo (Tommy Lee Jones) che li insegue senza mai raggiungerli ha il ruolo di macinare banalità da vecchietto che guarda sconsolatamente un cantiere, usando la filosofia spicciola per sopportare un mondo che chiaramente non può cambiare né frenare.
 In seguito, la galoppata del film perde vigore e comincia a girare a vuoto, avendo rivelato che la tensione narrativa iniziale sfruttava uno schema narrativo effettistico che si ripropone con continui ritocchi cosmetici (a livello di tecnica narrativa) atti a celare questo autoriciclo narrativo, Altri personaggi immorali di contorno entrano in scena in pompa magna solo per essere spazzati via poco dopo. Le pretenziose riflessioni sul fato e la necessità si ripetono stancamente, senza andare a parare da nessuna parte. Il finale anticlimatico, invece di stupire, strappa uno sbadiglio, mentre indugia senza scopo e si dilunga intorno a tre personaggi che non hanno più alcunchè da offrire (lo zoticone e sua moglie, quasi priva di personalità fino all'ultimo; l’assassino la cui personalità rimane incomprensibile; lo sceriffo, sempre meno interessato alla vicenda e sempre più preso da inutili ricordi di giovinezza); e, soprattutto, insiste a ribadire ciò che era già stato palesato e che lo spettatore non ha alcun interesse a sentire di nuovo.

 Ma forse l’interesse degli autori non è rivolto all’esile trama e ai piatti personaggi, quanto a ottenere una impeccabile esecuzione tecnica di regia, fotografia, sonoro (la colonna sonora quasi non esiste), effetti speciali, virtuosismi creativi della violenza degli ammazzamenti, citazionismo cinematografico: un esercizio di stile che risulta quindi eccezionale per i cinefili, ma può apparire pretenzioso e fine a se stesso ai profani che si aspettavano un altro tipo di sostanza, invece della impalcatura pseudofilosofica che si sono trovati davanti (e soprattutto che impiega due ore per dire sempre la stessa cosa). Serviva davvero questa interminabile metafora per spiegarci che la nostra società continua a incattivirsi e degradare, specialmente nelle zone di confine dove vive chi non ce l’ha fatta e non può godersi il lusso e i benefici di abitare tra gli agi e i servizi delle grandi città?
 Dopo i titoli di coda, quando i giochi sono chiusi, lo spettatore si accorge che c'è una sola cosa che gli resta impressa, di questo pretenzioso film che vorrebbe (?) discettare di morale ed etica, e questa cosa è la logica conseguenza che si deve trarre dalla sequenza iniziale: se lo zoticone non avesse ceduto all'unico impulso di umanità presente in tutta la vicenda, sarebbe riuscito a farla franca e a scappare con i soldi.

"Logan" (2017) - "Logan - The Wolverine"

 "Logan" (2017), in Italia "Logan - The Wolverine", diretto da James Mangold, è un film supereroistico appartenente al filone narrativo degli X-Men, ma diverso da tutto il resto della produzione supereroistica recente, non solo per la distanza dal tono narrativo sguaiatamente carnevalesco che intride le altre produzioni cinematografiche Marvel (il cosiddetto Marvel Cinematic Universe, in cui imperversa implacabile l'umorismo coatto preteso dalla proprietaria, la Disney), ma anche per la natura "ipotetica" della narrazione (ambientata in un futuro alternativo in cui ai personaggi può succedere letteralmente di tutto).
 Essendo ambientato in un futuro possibile dell'anno 2029, il film gode di una vantaggiosa libertà che ai lettori di fumetti è ben nota per la sua relativa rarità: violare la regola per cui ai supereroi (ma ovviamente non solo quelli), ormai diventati icone commerciali, è proibito invecchiare e morire nelle serie regolari. I pochi tentativi della Marvel negli anni 1980 e 1990 in questo senso ebbero vita breve; alla DC, invece , il discorso generazionale riuscì meglio ed ebbe una ragionevole durata: dalla morte di Flash (Barry Allen), che resistette qualche decennio prima di essere rinnegata, al figlio di Green Arrow che raccolse il testimone del padre, alla dipartita di Green Lantern (Hal Jordan) cui succedettero Lanterne più giovani, ai supergruppi come la Justice Society Of America che aveva cura di invecchiare i supereroi classici e di accogliere i vari "figli d'arti" per preparare la futura generazione di eroi. In tutti i caso, però, gli autori dovettero infine ideare trucchi per riportare la situazione allo status quo più convenzionale e universalmente noto, per essere certi di rendere allettanti questi fumetti anche e soprattutto per il lettore occasionale. 
 Tornando alla Marvel, nell'ambito degli X-Men, il loro nume tutelare, Chris Claremont, pur avendone scritto le storie per decenni, trasformandoli in un successo internazionale e in una macchina per fare soldi (nonchè generare testate "figlie" dedicate a una pletora di gruppi X), negli anni 1990 si vide bocciare i suoi intriganti tentativi di evolvere gli X-Men con un progressivo ricambio generazionale: idee come la morte del Professor X, oppure l'invecchiamento e l'uccisione di Wolverine (che poi sarebbe divenuto uno zombi al servizio della malvagia organizzazione mistico-marziale nota come "La Mano"), destinate a ricomparire poi in altra forma e per mano di altri autori.
 Le cose sono cambiate solo di recente, quando nel 2013 la Marvel ha deciso di sfruttare le idee di Claremont, ma senza riconoscergli la paternità. Ed ecco quindi la scelta di eliminare Wolverine per sostituirlo definitivamente (?) con una sua versione femminile in Death of Wolverine: da questa storia, e dalla serie Old Man Logan (ambientata in un futuro alternativo in cui Wolverine è sensibilmente invecchiato, e si sposta infine nella nostra realtà perchè la Marvel non vuole mai buttare mai via niente) prende piede il film "Logan".

 Con una premessa che garantisce una tale libertà narrativa, gli autori si possono scatenare nel dipingere il classicissimo futuro drammatico a tinte fosche, qui però delineato in termini più sottili rispetto alla palese tragedia globale di film come "X-Men: Days of Future Past".
 In "Logan", il celebre sogno a là Martin Luther King del professor Charles Xavier, e cioè la coesistenza pacifica dell'homo superior e dell'homo sapiens, senza odio e discriminazione, è andato in frantumi: la sua "scuola per giovani dotati" non esiste più, i suoi migliori allievi sono morti, da due decenni non nascono nuovi mutanti, e Xavier stessko è diventato un vecchio malato di demenza e dai poteri fuori controllo, costretto a nascondersi dall'orrore che ha causato involontariamente, affidandosi alle cure di altri due mutanti superstiti che, come lui, sono sconfitti, malati e  privi di una qualunque speranza per il futuro. Costoro sono Wolverine, il cui fattore rigenerante sta progressivamente perdendo efficacia, e Calibano, la cui pelle albina lo obbliga a vivere sempre al chiuso.
 La narrazione ha un tono amaro, quasi deprimente, degno dello stoico filone fumettistico "morte e distruzione" del miglior Chris Claremont. Mentre questo "crepuscolo degi eroi" prende progressivamente forma, lo spettatore si chiede: è la fine dell'Era delle Meraviglie, la Marvel Age?
 Neppure le scene di azione, in cui un imbolsito Wolverine riesce comunque a dare il fatto loro ai soliti teppisti ispanici e piantagrane di varie categorie, riescono a stemperare l'amarezza di assistere al tramonto di due personaggi iconici come Wolverine e il Professor X, ancor più significativo perchè rappresentativo di un mondo che perde per sempre i suoi difensori e si piega sotto il giogo di una tecno-econocrazia (nel senso che sono gli interessi del mercato a stabilire le modalità dell'esistenza delle persone e i loro diritti).
 Ma siccome questo è anche un film di supereroi classico, non può mancare la rivelazione di una trama portante che denuncia l'esistenza di un complotto mondiale dietro la situazione attuale: è stato tramite il controllo alimentare della popolazione, che una multinazionale ha di fatto soppresso le deviazioni genetiche che portano alla nascita di umani mutanti.
 C'è quindi un nemico che agisce dietro le quinte.
 Ma è sufficiente l'esistenza di una cospirazione che può essere combattuta, per consolare lo spettatore? Solo in parte, perchè non ci vuole molto a rendersi conto di come questo futuro sia in realtà una metafora del nostro presente: cos'è infatti il condizionamento della vita delle persone tramite il cibo, se non un parallelo dell'intorpidimento globale che l'iperconnessione permanente a internet causa alle nuove generazioni, le quali vivono ora una vita maniacalmente individualista in un mondo virtuale, beatamente ignare che intanto, nella realtà i loro fondamentali diritti vengono alienati e trasformati in merci per cui bisogna pagare?
 La cospirazione va oltre il semplice controllo del DNA dei cittadini: in Messico, la multinazionale Transigen, con l'aiuto di Zander Rice (figlio dello scienziato che creò lo scheletro di adamantio di Wolverine), ha creato una generazione selezionata di bambini mutanti da trasformare in perfetti soldati. Dopo la fuga dei bambini, una dei quali si rivela essere una copia femminile di Wolverine, e quindi tecnicamente sua figlia, la narrazione prende per un istante una piega positiva di speranza per il futuro: esiste una nuova generazione mutante, nonostante tutto, e ora bisogna portarla al sicuro, a costo di imbarcarsi in un pericolosissimo viaggio su strada attraverso gli Stati Uniti.
 Ma ancora una volta, è la disperazione che torna ad avere il sopravvento: esiste davvero un luogo dove le giovani cavie possano essere al sicuro dalla tentacolare Transigen?
 La meta di salvezza, un luogo chiamato Eden, indicato dalla bambina tramite precise coordinate geografiche, non è forse solo una fantasia basata su un fumetto di supereroi, e alimentata dalle allucinazioni del Professor X?  Che speranza hanno, un vecchio paralitico demente e un selvaggio assassino il cui corpo sta soccombendo al veleno del suo stesso scheletro di adamantio,  di portare a termine questa missione, braccati come sono da un esercito di mercenari cibernetici?  

 Coerentemente col tono mantenuto finora, il film sviluppa e conclude tutti questi elementi secondo la logica catartica del riscatto tramite il sacrificio definitivo, per consentire il passaggio del testimone generazionale.

 Oltre alla goduriosa abbondanza visuale di artigli sanguinolenti sfoderati ovunque per decapitare e tranciare e squartare e infilzare in ogni modo l'infinita schiera di mercenari della Transigen, è soprattutto l'unità narrativa tragica a costituire il punto di forza dell'atto di chiusura di questo dolente film  incentrato sull'eroica fine dell'epoca dei mutanti e sulla rinascita che la nuova generazione porterà. Un po' meno convincente è invece il non-dilemma con cui Logan vive e accetta la propria improvvisa paternità, forse perchè il personaggio calca un po' troppo il ruolo del burbero guerriero che sa di portare solo dolore nelle vite dei propri cari.  
 Ovviamente, come già dicevamo, l'industria dell'intrattenimento non consente di eliminare le icone più popolari, Se la citata scomparsa fumettistica di Wolverine è stata seguita dall'arrivo del suo futuribile alter ego anziano tra gli X-Men del presente (senza citare qui le porte girevoli del "paradiso dei mutanti", che dai tempi della prima morte di Fenice ha generato una sequenza di resurrezioni senza fine), nell'universo cinematografico sono stati gli eventi del film "X-Men: Days of Future Past" a far ripartire l'intera linea temporale, alterandola sin dagli anni 1970, e azzerando o quasi ogni sviluppo cinematografico finora visto, compreso il futuro di "Logan": e ciò riconduce anche i film dei supereroi nell'alveo narrativo dei fumetti Marvel.

 Nella narrazione c'è spazio anche per due "cattivi" di lusso, oltre al già citato Zander Rice: uno è il famigerato Donald Pierce, che nei fumetti esordì come cyborg umano e potentissimo industriale, nonchè membro del tenebroso Club Infernale di New York; l'altro è Wolverine stesso, clonato col nome di X-24 per essere la perfetta macchina assassina che Logan non ha voluto essere (e che ci riporta alle idee di Chris Claremont che ai suoi tempi furono bocciate).
 Anche X-23, cioè la "figlia" di Wolverine, proviene da altri media, ma il suo percorso è più tortuoso: creata per una serie animata degli X-Men, è stata poi introdotta anche nell'universo fumettistico Marvel.
 Piccola apparizione per Rictor, un mutante capace di generare scosse sismiche, qui annoverato tra i bambini creati dalla Transigen: considerando che Rictor faceva parte dell'atroce "nuova generazione" creata dalla mediocre scrittrice Louise Simonson, a imitazione del lavoro di Claremont, il destino di oblio a cui va incontro il gruppo di marmocchi di mutanti alla fine di questo nuovo film sembra segnato. Non a caso, la trama stessa non si sbilancia minimamente su cosa sia davvero "Eden" e sul perchè i bambini saranno al sicuro, una volta superato il varco tra le montagne: davvero esiste  un luogo "sicuro", in un 2029 in cui una multinazionale può scatenare una guerra nel cuore degli USA senza avere che difficoltà minime con le forze di Polizia? E' più probabile e realistico che questa scorciatoia narrativa si traduca invece nell'ennesima trappola per i mocciosi.

 Le interpretazioni dei due protagonisti del film sono particolarmente azzeccate. Da un lato, c'è l'intensa e sofferente prestazione artistica  di Hugh Jackman, a suo agio nei convincenti panni di un Wolverine invecchiato, indebolito, che arranca a ogni passo, che desidera e pianifica la propria morte, ma non cede per il bene prima di Xavier e poi della "figlia" che ha scoperto di avere, fino a mutare il proprio destino di sconfitta in un eroico sacrificio in cui, prima di sconfiggere i propri nemici, Wolverine sconfigge la parte peggiore di se stesso. Dall'altro lato c'è Patrick Stewart nei panni dell'anziano e indifeso Professor X, che coi suoi (apparenti) vaneggiamenti e i suoi dialoghi così lamentosi e intrisi del bisogno di un invalido, commuove chiunque abbia visto un proprio parente cadere vittima di una devastante malattia neurologica come il morbo di Alzheimer.
 E' inoltre da segnalare l'energica e sfacciata prova di Boyd Holbrook, che riesce nell'impresa memorabile di rendere accattivante e quasi simpatico un malvagio come il cyborg Donal Pierce, nonostante le sue azioni brutali, violente e inumane di certe scene; forse è perchè comunque dare vita a un personaggio più antipatico e piatto dell'originale a fumetti era impossibile, ma Holbrook definisce un Pierce a suo modo capace, determinato e pure dotato di un umorismo brillante, che offusca persino le sue scene più atroci e riprovevoli (le quali sembrano quasi una forzatura degli sceneggiatori che, resisi conto che il personaggio era fuori controllo, hanno grottescamente calcato la mano per renderlo esecrabile agli occhi dello spettatore).

 Come ci si aspetta sempre da questi film di supereroi, la cura della fattura tecnica è elevata. Sceneggiatura ben costruita (carente forse solo delle scene della orribile morte degli X-Men e dell'identità del vero "Eden); ritmo narrativo costante ma non concitato (anche perchè in un film con un sottofondo amaro come questo non ha senso); scene di battaglia spettacolari ma senza esagerare; discreto uso di effetti speciali per i poteri più scenografici dei bambini mutanti; regia competente, capace di seguire i personaggi da vicino e dare la giusta collocazione geografica senza dilungarsi sui paesaggi; dialoghi e caratterizzazioni opportunamente affilati, chiari e concisi.