mercoledì 4 marzo 2020

"The Endless" (2017) + "Resolution" (2012)

 "The Endless" (2017), scritto e prodotto e diretto da Justin Benson, con Aaron Moorhead come coproduttore e co-direttore, è un elegante film dell'orrore, arcano e sottile, enigmaticamente angosciante come le opere di H.P. Lovecraft e claustrofobicamente riflessivo come le opere di Stephen King.


 I fratelli Justin e Aaron ricevono una videocassetta da Camp Arcadia, una comune da cui erano fuggiti anni prima dichiarando che si trattava di un "culto ufologico della morte". Scontento della vita miserabile che conduce, il fratello minore Aaron insiste per tornare a visitare Camp Arcadia, dove lui ricorda invece che si mangiava bene e si conduceva una vita appagante. Reticente, Justin accetta, solo per scoprire altri bizzarri enigmi a quelli che, da ragazzo, lo avevano spinto a fuggire da quel posto: come mai i membri del culto sembrano non essere invecchiati di un giorno? E chi sono quelle persone, accampate in tende e camper e case isolate, che sembrano ripetere ciclicamente le stesse azioni fino alla loro morte?

 Il sottogenere "lovecraftiano" dell'orrore è quello che, invece di ricorrere alla repulsione e all'interesse morboso generati da effettacci truculenti, sbudellamenti e atroci violenze, preferisce terrorizzare sottilmente lo spettatore, istillandogli un infestante malessere psicologico che nasce da una situazione apparentemente normale e prosaica,  genera un crescendo di sorprendenti bizzarrie e culmina in una rivelazione di terrore cosmico, incontrastabile e impossibile da definire nel ristretto ambito dei parametri della mente umana.
 E' questo, ovviamente, ciò che accade in "The Endless", dove lo spettatore vive e cerca di decodificare la vicenda scegliendo di volta in volta la prospettiva che più preferisce: quella razionale e sospettosa di Justin, o quella credulona e ottimista di Aaron. Gli indizi sono presenti in abbondanza, ma filtrati da strati di contesto differenziato che rende difficile unificarli. In più, come ormai codificata da anni grazie al film "The Ring", alla vicenda si aggiunge anche la falsa e irresistibile traccia dei messaggi soprannaturali che si manifestano sotto forma di vecchie videocassette spedite per posta o immerse in un lago, oppure fotografie Polaroid portate dal vento, o anche hard disk sepolti nel terreno.
 Lo scorrere del tempo, l'evolversi delle persone, il mutamento dei supporti tecnologici su cui viene registrata l'informazione, sono tutti elementi fondamentali in questa narrazione.
 Sullo sfondo, si muove un'entità non umana, che per un tempo inimmaginabile è esistita in perfetta solitudine nelle Americhe e che ha iniziato a incorporare in sè (letteralmente o quasi) l'uomo bianco sin dal suo arrivo in quel continente (la zona  è abitata dagli indiani, cioè dai pellerossa, cioè dai nativi americani, che però sanno come evitare tale entità).
 In questo scenario, il  rapporto tra i due fratelli, inizialmente simile a una zavorra reciproca di cui entrambi vorrebbero liberarsi, viene analizzato e fatto evolvere in parallelo allo svelarsi del mistero soprannaturale, finchè non sfocia in una soluzione che evita felicemente le due trappole della banalità: la stucchevolezza e la violenza.

 La produzione indipendente significa ovviamente uno stanziamento modesto per gli effetti speciali, il che a sua volta dimostra che una storia dell'orrore valida non ne ha davvero bisogno.
 Il film brilla per via dell'uso creativamente simbolico delle scenografie convenzionali, nonchè per una serie di suggestive trovate visive, ottenute con un'idea azzeccata e uno sforzo digitale minimo che conferiscono alla narrazione un tono surreale in crescendo, che funge da efficace cornice alla componente epico-storica del mistero che si annida nelle foreste di questo angolo sperduto degli Stati Uniti d'America. E' inevitabile, per certi aspetti, paragonare la resa della visione cosmica di questo film al mistero alla base del famoso telefilm "Lost": visioni impossibili, resti di abitazioni o accampamenti con tracce criptiche di oscuri eventi passati, oggetti antichi che portano con sè un messaggio da decifrare, e la generale affermazione che ogni cosa intorno a noi abbia un significato recondito, nascosto dietro un'apparenza banale. La differenza sta nel fatto che, mentre in "Lost" questa visione si perde per strada, e si conclude con una dichiarazione di resa degli autori, in questo film essa giunge a compimento e si rivela nella sua completezza.


 Lo spettatore che ha la capacità di adattarsi al placido e anticlimatico ritmo narrativo, nel quale si mescolano il realistico e l'onirico, si rende rapidamente conto di come la costruzione narrativa punti sulla solidità della sostanza (come in "Primer") e sul piacere della scoperta progressiva della trama, invece che sulla superficialità sensazionalistica e commerciale dello spavento a tutti i costi. E' quindi un film lontano dall'approccio superficiale delle produzioni dozzinali del cinema di massa, da sconsigliare calorosamente a chi si aspetta di fare un salto sulla sedia ogni due minuti, e soprattutto a chi si aspetta una narrazione preconfezionata e stereotipata in cui sin dall'inizio di capisce dove si andrà a parare.

Una regia intelligente, che sfrutta le tecnologie moderne per proporre suggestive e significative inquadrature aeree, si affianca a dialoghi generalmente asciutti e mirati, poco propensi allo spiattellamento di spiegazioni e teorie, ma anche capaci di improvvisi cambiamenti di registro e stile, quando il personaggio e il momento lo richiedono. Memorabile, con tocchi deliberatamente umoristici che spaventano (!) lo spettatore impreparato, è il momento della rivelazione del significato degli eventi in corso.

 Il film riprende tematiche e persino personaggi di "Resolution" (2012), degli stessi creatori.

Recensione di "Resolution" su Bollalmanacco.



 In "Resolution", è Mike Danube a entrare in una zona controllata dall'entità, per costringere il proprio miglior amico a disintossicarsi dal crystal meth, trascorrendo una settimana intera incatenato alla parete di una baracca. In questo periodo, Mike incappa in indizi e "messaggi" dell'entità, tutti sotto forma di fotografie, dischi di vinile, videocassette e simili, in un crescendo parossistico di situazioni inesplicabili, fino alla rivelazione finale che segna il destino di entrambi gli amici.

La fondamentale differenza rispetto a "The Endless" sta nel fatto che "Resolution" non dà alcuna spiegazione sull'entità, ma si concentra sull'idea delle nostre vite come narrazione diretta da qualcun altro: persino Mike si accorge, di tanto in tanto, che qualcuno lo sta "inquadrando", e che la "pellicola" su cui la sua vita viene filmata è arrivata alla fine del rotolo (citando quindi capostipiti come "The Blair Witch Project" e "The Ring", ma portando il loro discorso verso nuovi territori).
 Lo stile del disvelamento del mistero è comunque lo stesso, anche se declinato in modi diversi (Mike scopre, per esempio, supporti mnemonici con possibili finali alternativi alla propria vicenda, e riesce quindi a sventarli), e ciò fa emergere un altro parallelismo con "The Endless": in entrambi i film, i protagonisti sono due giovani uomini, fratelli in un caso e grandi amici nell'altro, caratterizzati da una rara e profonda umanità che li porta ad agire sempre e comunque in modo pacato, sobrio e di grande empatia; nessuno di loro fa mai uso di violenza, e neppure dà mai in escandescenze; davanti alle peggiori manifestazioni di un'umanità abbrutita (gli spacciatori di crystal meth, la mafia indiana, lo stesso amico tossicomane che diventa aggressivo), la loro risposta è sempre e solo quella della civiltà e della decenza (persino quando Mike usa un taser!).
 Nel panorama cinematografico odierno, questo aspetto è più unico che raro, e offre una rinfrescante alternativa alla narrativa fortemente ideologica di Hollywood e dei telefilm che si accodano. Il risultato è un film dell'orrore unico nel suo genere, capace di mescolare l'enigma cerebrale alla finta metanarrazione, la tossicodipendenza alla cronaca del degrado sociale delle nazioni capitaliste, le conseguenze dei grandi eventi della Storia alle fasi di sviluppo della tecnologia dell'informazione.

 Non ci sono ovviamente celebrità in questo film, ma i produttori e registi e scrittori Justin Benson e Jason Moorehead dimostrano un certo mestiere nell'impersonare gli omonimi Justin e Aaron di "The Endless" (con apparizione breve in "Resolution" che indica l'esistenza di un solido piano narrativo sin dall'inizio): l'omonimia sarà forse indizio di una componente autobiografica?
 E' più articolato, invece, il curriculum di Peter Cilella, che dà credibilmente vita al positivo e altruista Mike di "Resolution"), bilanciando l'ostinazione, la curiosità, il buon cuore e la tenacia richiesti dalla sceneggiatura. E' invece un altro artista molto indipendente Vinny Curren, che nei panni dell'amico tossicomane ne descrive la parabola di dipendenza con efficacia, alternando momenti di sincera commozione ad altri di subdola perfidia e malvagia schiettezza dettate dall'astinenza.

domenica 1 marzo 2020

"Cowboys & Aliens" (2011)

 "Cowboys & Aliens" (2011), diretto da Jon Favreau e basato sul fumetto omonimo di Scott Mitchell Rosenberg (il fondatore della Malibu Comics), è un ibrido di due generi, cioè il western e la fantascienza, proprio come promette il titolo.

Scheda di Cowboys & Aliens su wikipedia

 L'ex criminale amnesiaco Lonergan e l'ex colonnello Dolarhyde, ora allevatore di bestiame, (entrambi con un passato assai discutibile) devono assemblare un'eterogenea banda di disperati (il predicatore, l'inetto barista-medico, il bambino, la donna volitiva, i delinquenti bianchi, i messicani, gli Apache superstiti) per braccare mostruose creature su veicoli volanti che hanno rapito i loro cari e che danno a loro volta la caccia all'oro. Durante il tragitto, violenti scontri a fuoco assai impari con i "demoni" (perchè un cowboy non sa cosa siano gli alieni) costringeranno gli umani a fare i conti con loro stessi e col proprio passato, fino al conflitto e alle rivelazioni finali.

 Lungo 118 minuti e dotato di due celebrità come Daniel Craig e Harrison Ford, questo film coniuga l'epopea della frontiera americana (in particolare la corsa all'oro, nel Nuovo Messico, nella seconda metà del 1800) e la fantascienza dallo stile barocco di H. G. Wells (non a caso, il suo "La guerra dei mondi" è del 1897), sfruttando a piene mani le caratteristiche e i luoghi comuni di entrambi i generi, e invertendoli dove necessario: ecco quindi il duro e silenzioso fuorilegge che però si è redento (a carissimo prezzo, come da puritana regola della narrativa statunitense) e che ora brandisce, unico tra tutti, un'arma aliena che risponde alla sua mente, ed ecco anche che gli alieni, pur capaci di compiere viaggi interstellari, sono sulla Terra a scavarne le rocce, per cieca bramosia del rarissimo metallo che noi chiamiamo oro.

 Dalla sua il film ha una bella fotografia, gli stupendi panorami selvaggi che vanno dalla vastità dei deserti alle profondità dei canyon, le suggestive acrobazie ed evoluzioni a bordo delle navette aliene,  l'azione delle sparatorie e battaglie a cavallo, la colonna sonora tipicamente western, alcuni validi attori che si trovano perfettamente a loro agio nei ruoli assegnati, un moderato tocco di umorismo che non svilisce i personaggi, la pulizia dei dialoghi, l'intelligenza delle scenografie e le caratterizzazioni che si definiscono coerentemente con lo svilupparsi della narrazione. La trama è solida e la sceneggiatura ne gestisce ogni aspetto, senza lasciare fili sciolti.
 Eppure, qualcosa non funziona come dovrebbe: nonostante le misurate e colte citazioni ai classici di entrambi i generi coinvolti, nonostante la narrazione da manuale, il film non riesce a fare presa sullo spettatore.
 Come mai?
 Sebbene questo sia un film hollywoodiano mirato a sbancare al botteghino (come dimostra la battaglia per i diritti sul fumetto, combattuta nel 1997 tra due diverse case cinematografiche), il regista compie scelte narrative che non appagano lo spettatore medio(cre) di questo genere di pellicole, ma parlano invece al lettore di fumetti, abitualmente più cerebrale, e non solo per le suddette citazioni, ma anche per i meccanismi narrativi, tra i quali c'è sicuramente materiale tipicamente cinematografico (il medico inetto che infine si riscatta), ma c'è anche e soprattutto la citata ottica puritana, secondo cui il cattivo che vuole redimersi deve anche pagarne il prezzo (si veda per esempio la reazione del pubblico al mutamento del supercriminale Magneto nei fumetti della Marvel, quando lo sceneggiatore Chris Claremont lo portò tra i "buoni"). Ciò spiega l'inadeguato riscontro nelle sale, ma perchè lo spettatore d'elite (nel senso degli appassionati di fumetti) resta a sua volta insoddisfatto?
 Sarà per la lentezza delle sequenze di caratterizzazione dei personaggi, le cui conversazioni col cuore in mano risultano anche un po' stucchevoli? Sarà perchè tutti i "cattivi" umano, alla fine, non sono pèoi così cattivi? Sarà perchè l'uso di così tanti stereotipi finisce per dare l'impressione di un esercizio di stile che suona privo di sincerità? Sarà che l'innegabile intelligenza narrativa di fondo finisce per togliere spontaneità ed entusiasmo a una narrativa (quella western) che invece richiede un approccio più istintivamente epico, nonchè di pancia?
Oltre ai già citati Daniel Craig e Harrison Ford, che interpretano rispettivamente i personaggi archetipi dell'enigmatico straniero dagli occhi di ghiaccio e del potente allevatore di bestiame, cinico e dittatoriale, che però stravede per la famiglia (estendendola addirittura a un indiano, cioè, volevo dire "a un nativo americano"), spicca la presenza di una bellissima Olivia Wilde, che proprio per la sua raffinatezza estetica, è in apparenza una nota stonata nel gruppo di personaggi luridi e squinternati a cui si unisce (ma solo in apparenza, appunto: questo è invece un indizio rivelatore della sua effettiva natura, che si palesa durante il colpo di scena, tipico della narrazione fantascientifica, che si svolge all'incirca a due terzi del film).
Nell'ambito del fumetto supereroistico statunitense, il progetto di "Cowboys & Aliens" potrebbe dovere qualcosa all'albo 272 di Fantastic Four (vol.1) del 1984, dove l'avventura intitolata Cowboys & Idioms metteva in scena un mondo alternativo in cui una nuova frontiera western si mescolava a tecnologie futuribili fortemente ispirate anche a "La guerra dei mondi", tanto che la scena del film in cui lo stormo di velivoli alieni sfreccia sul deserto sembra una trasposizione della scena del fumetto in cui un gruppo di "valchirie" ipertecnologiche sopraggiunge su un panorama simile.
Come nota di colore finale, vale la pena di menzionare che la casa editrice Bonelli declinò la proposta di fare del suo personaggio di Tex Willer il protagonista di questo film: l'associazione del fumetto di Tex alla fantascienza non deve stupire i profani, dato che il creatore di questo personaggio ha proposto sin dagli inizi della serie una spiccata propensione alla commistione di generi, e Tex non è estraneo agli incontri con creature di altri mondi.








martedì 25 febbraio 2020

The Aviator (2004)

 "The Aviator" (2004), diretto da Martin Scorsese e scritto da John Logan, è un dramma biografico sulla vita dell'imprenditore, regista, aviatore e produttore cinematografico Howard Hughes jr. (1905-1976).
 Tra gli anni 1920 e il 1947, segnato da una fobia per i germi probabilmente indotta da un'epidemia di colera verificatasi durante la sua infanzia, Howard Hughes usa l'enorme fortuna di famiglia per inseguire le proprie ossessioni aeronautiche e cinematografiche, mietendo successi e incassando sconfitte, mentre colleziona storie d'amore (più o meno vere) con grandi donne del cinema come Katharine Hepburn e Ava Gardner. Oltre al suo disturbo ossessivo-compulsivo, che cresce fino a sopraffarlo periodicamente, Hughes deve anche fare i conti con la devastazione del suo fisico causata da terribili incidenti di volo, durante il collaudo degli aerei che progetta.

 Con una regia, una narrazione e una fotografia di sicura garanzia, grazie al nome di Martin Scorsese, questo bizzarro film sceglie un'ottica narrativa ben precisa per raccontare la variegata lotta sociale e personale che Howard Hughes condusse sin da giovane, ed è questa decisione a determinare il gradimento dello spettatore, perchè Scorsese prende quasi sempre le parti dell'imprenditore contro il resto del mondo, sorvolando sugli aspetti più oscuri del personaggio (la sifilide che gli corrodeva la mente) e celebrando trionfalmente i suoi (oggettivamente notevoli) successi nell'ingegneria aeronautica e nelle battaglie politiche (lui stesso fu un corruttore, ma andò contro un Congresso che aveva la pretesa di volerlo colpire pur essendo a propria volta corrotto da altri imprenditori).
 Se quindi, nella pellicola, l'imprenditore brilla nel campo del cinema e dell'industria, e l'uomo sprofonda nel vortice di una psicosi declinata in modi atroci, è anche vero che il contesto in cui si muove (i favolosi anni 1920 e successivi), pur essendo mirabilmente ricostruito in ambientazione, costumi, musica e iconografia, risulta allo stesso tempo curiosamente falso, come una parodia stilizzata in cui tutti i comprimari sono figure quasi caricaturali che recitano in un'epoca fittizia e idealizzata (il personaggio di Errol Flynn è il più rappresentativo di questa categoria). Sembra quasi che Scorsese voglia affermare che Howard Hughes sia l'unico essere umano "vero" di quella vicenda, l'unico di cui valga la pena raccontare le vicissitudini di quei decenni, con due sole eccezioni nelle belle figure dell'affascinante ed eccentrica Katharine Hepburn e della volitiva e seducente Ava Gardner.
 Se però si sceglie l'interpretazione più negativa del senso dell'opera, e cioè quella della metafora critica del sogno americano, ecco che il film acquista un altro significato, come se Hughes fosse lo specchio della sua stessa nazione: negli USA, non solo è tutto finto, ma si trasforma progressivamente in un incubo, a prescindere dai grandi successi di chi ci vive.

 Sul versante degli attori,  se Cate Blanchett e Kate Beckinsale lasciano un segno con la loro elegante e incisiva interpretazione delle memorabili Katharine Hepburn e Ava Gardner (in particolare, Cate Blanchett merita di essere ascoltata in lingua originale), non si può dire altrettanto del protagonista Leonardo DiCaprio, che pure ci mette tutto se stesso nell'interpretare una figura complessa e problematica come Howard Hughes: forse è la voce stridula e da ragazzino di DiCaprio, che non gli riesce di camuffare tanto facilmente; forse è l'aspetto troppo patinato, anche quando dovrebbe "fare spavento" (come nella lunga sequenza in cui Hughes, in preda ala sua ossessione psicotica, si rinchiude nella propria villa, nudo, senza pià radersi, intento a collezionare urina in bottiglie), ma il personaggio di Hughes risulta riuscito solo a metà, e cioè nella componente dei dialoghi e dell'interpretazione, che però viene sminuita da una levigata estetica "da pupetto" che nessun trucco riesce a smorzare.
In parti più o meno secondarie compaiono anche nomi come la cantante Gwen Stefani (Jean Harlow), il versatile Jude Law (Errol Flynn), Alec Baldwin (l'imprenditore Juan Trippe), che svolgono con impegno il loro ruolo, probabilmente divertendosi nell'assecondare le ambizioni di Scorsese e nel fare da contorno al concentratissimo DiCaprio.

Con la sua durata di 170 minuti, il film potrebbe spaventare per la potenziale pesantezza narrativa, ma la sua narrazione-fiume ha la capacità di scorrere con l'arguta leggerezza della cronaca scandalistica (che è ovviamente fondamentale per un film biografico e voyeuristico), tenendo desta l'attenzione proprio sfruttando la curiosità dello spettatore per il pettegolezzo pruriginoso. E mentre così lo alletta, il film gli illustra subdolamente un intero tessuto sociale storico, dalla corruzione dell'industria a quella della politica, dalla vacuità del jet set statunitense alle storture del capitalismo, dagli anni 1920 alla Seconda Guerra Mondiale, dalle commistioni tra finanza e scandali agli inconfessabili giochi di potere che accompagnarono la nascita della globalizzazione.

 Il perverso e voyeuristico fascino che le sequenze dedicate agli apici psicotici di Hughes esercitano senza dubbio su chi ha i l gusto dell'orrido e del morboso, si amplifica a dismisura se lo spettatore è anche un appassionato della serie The Simpsons, e quindi si ricorda con entusiasmo dell'episodio 10 della stagione 5, $pringfield (Or, How I Learned to Stop Worrying and Love Legalized Gambling), nel quale il signor Burns si fa cogliere da megalomania imprenditoriale, costruendo un favoloso casinò, ma sviluppa una germofobia ossessiva e si dedica alla progettazione di aerei.
 E' sia esilarante che disturbante riconoscere elementi cruciali del film nelle scene animate interpretate da Burns. Il suo modellino si chiama "spruce goose", in italiano "elefante elegante", cioè "oca di legno", come era spregiativamente chiamato il colossale Hercules progettato da Hughes. Ci sono scatole di fazzoletti di carta ovunque, anche sui piedi del signor Burns, perchè coi fazzoletti usa-e-getta Hughes evitava il contatto coi germi. E quando finalmente Burns decide di gettare tutte quelle carabattole, Smithers gli chiede "E i campioni di urina?", e Burns risponde "Quelli li teniamo", in riferimento a come Hughes conservasse la propria urina in bottiglie del latte. Divertimento memorabile.


domenica 16 febbraio 2020

"Snowden" (2016)

 "Snowden" (2016), diretto da Oliver Stone con sceneggiatura di Luke Harding (autore del libro The Snowden Files) e Anatoly Kucherena (autore del libro Time of the Octopus), è un film biografico e drammatico che racconta come Edward Snowden, lavorando per la CIA e la NSA a vario titolo, nel 2013 giunse alla decisione di denunciare pubblicamente l'abuso che le agenzie commettevano (e commettono tutt'ora?) intercettando e raccogliendo da internet ogni possibile informazione privata, contenuti di chat ed email compresi, sui cittadini di tutto il mondo.


 La storia di Edward Snowden, che ha occupato le cronache per mesi, è ben nota: gli Stati Uniti non gradiscono di essere stati colti con le mani nel sacco, mentre acquisiscono qualunque tipo di dato telematico internazionale per garantire la propria egemonia mondiale con ogni mezzo (dagli omicidi tramite droni ai ricatti), e trasformano quindi un occhialuto nerd millenniale, biondino ed educato, nel nemico numero, riservandogli un trattamento feroce degno di un terrorista,  finchè questi non trova rifugio in Russia.

 Genio informatico e "smanettone", definito dagli amici "un po' un automa", Snowden era cresciuto a pane e patriottismo, e nel suo fervore idealistico, nutrito dalla ben nota propaganda nazionalista statunitense, si era arruolato nelle Forze Speciali dell'Esercito Statunitense, convinto di dover fare la propria parte per liberare il resto del mondo dall'oppressione, portando la salvezza della democrazia. Fallita questa esperienza per motivi di salute, aveva offerto la propria, brillante mente alla nazione, lavorando per CIA e NSA, e sviluppando interi sistemi di sorveglianza elettronica, senza mai rendersi pienamente conto del potenziale negativo di simili strumenti. La sua ingenuità era tale da fargli guadagnare il soprannome di Snow White (Biancaneve) da parte dei suoi ben più smaliziati colleghi. Successive esperienze, fatte più o meno sulla propria pelle, lo condussero ad attriti con certi colleghi ambiziosi e spregiudicati, che usavano le informazioni carpite in segreto senza alcuno scrupolo verso le vite che distruggevano. Nel 2013, ci fu la proverbiale goccia che lo spinse a mollare tutto e a denunciare il comportamento di NSA e CIA, colpevoli di aver tradito lo spirito non solo della Costituzione degli Stati Uniti, ma anche tutti gli ideali dello stesso Snowden, che fino a quel momento aveva tenuto duro (anche a prezzo della propria salute), proprio nella convinzione di dover continuare a impegnarsi per garantire la sicurezza del proprio paese, a prescindere dalle mele marce in cui si imbatteva.

 Inevitabilmente, il regista Oliver Stone si è tuffato a pesce nell'occasione di narrare per immagine una vicenda intrisa di elementi in perfetta risonanza con le sue passioni socio-culturali e intellettuali, sposando senza esitare la causa della versione raccontata da Snowden: mentre altri critici hanno messo in dubbio l'onestà intellettuale del personaggio (che è comunque il creatore consapevole di molto del software di cui poi la NSA ha abusato), Stone crede invece allo Snowden idealista, con gli occhi pieni delle stelle e delle strisce della bandiera USA, forse un pochetto autistico, convinto di agire nell'interesse di tutti, e fondamentalmente incapace di concepire che nell'ambiente dello spionaggio si possano muovere personaggi meno che patriottici o addirittura disonesti.
 A riprova di ciò, Stone pone l'accento sullo spirito di sacrificio di Snowden, la cui abnegazione è tale da portarlo a immolare anche il proprio corpo sull'altare del dovere, prima distruggendosi le ossa delle gambe nelle Forze Speciali e poi rifiutando i medicinali per controllare l'epilessia, in quanto lo privano della lucidità necessaria per il proprio lavoro di informatico: come può qualcuno che dedica tutto se stesso alla causa, ci dice Stone, non essere sincero?
 Anche i colleghi di Snowden, in almeno due casi, sembrano essere stati consapevoli della peculiare ingenuità e sincerità del soggetto, tanto da volerlo aiutare e proteggere con discrezione: è il caso del personaggio interpretato da Keith Stanfield, che occulta la scheda microSD di Snowden con i dati trafugati prima che venga vista dai loro superiori, oppure dell'esperto di spionaggio elettronico Ben Schnetzer, che mostra a Snowden come funziona veramente il mondo in cui è immerso, e gli consiglia di fuggire prima che la sua crescente resistenza interna venga scoperta.

 Nel percorso di risveglio della coscienza di Snowden, Stone esalta il progressivo risveglio  dell'idealista che fa i conti con la realtà, ma ha anche cura di non dipingerlo come un ingenuotto che non ha capito nulla di come funziona il mondo: infatti, con l'intelletto che si ritrova, Snowden è in grado non solo di formulare (con mirabile proprietà di linguaggio) una denuncia del sistema, ma anche di montare una controffensiva che scoperchi il nido di vermi, mettendone a nudo gli inconfessabili segreti per dare al popolo la libertà di scegliere tra i diritti e la sicurezza, invece che subire le decisioni prese da altri. E' questa la vera essenza della Costituzione statunitense, è questo il vero spirito degli USA, ed è così che Stone smentisce i livorosi personaggi che lo accusano di non amare la propria patria, mostrando cone questi siano incapaci di accettare che qualcuno la voglia criticare per rimuoverne le storture e gli errori.

 Molto esplicita nelle metafore e nei paralleli (come il drone che precipita nel bel mezzo della festa hawaiiana, o la freddezza di Snowden quando va a caccia), la regia contrappone, con una fotografia limpida e luminosa, le ambientazioni naturali a quelle tecnologiche e claustrofobiche delle basi super-sicure di NSA e CIA, seguendo esclusivamente la parabola del protagonista, tramite il quale si scopre quanto necessario sui comprimari.
 La narrazione segue il classico schema della sequenza temporale portante ambientata nel presente (Snowden, già in fuga, incontra alcuni giornalisti investigativi in un albergo di Hong Kong) che si alterna alle sequenze della sua vita lavorativa passata che espandono le rivelazioni che lui fa progressivamente.

 Tra le numerose facce note degli attori, come il Ben Schnetzer del telefilm "The Truth About the Harry Quebert Affair" e Zachary Quinto e il figlio di Clint Eastwood, spicca per impegno e bravura l'attore protagonista, Joseph Gordon-Levitt.
 Gordon-Levitt incarna mirabilmente le peculiarità del personaggio di Snowden, coniugando la sua razionale e fredda pacatezza nell'approcciare la vita (o la sua "roboticità", come dice Snowden stesso) e i suoi sentimenti più profondi e mai esplicitati in modo emotivo, dal senso dell'etica e del dovere verso la patria (o meglio, verso i cittadini) all'amore che lo lega alla sua compagna: si tratta di una personalità atipica, rara, lontana dai canoni superomistici statunitensi e hollywoodiani, ma nello stesso tempo facilmente convogliabile nel solco squisitamente statunitense dell'eroe involontario e altruista, che una volta aperti gli occhi fa infallibilmente la cosa giusta.
 Sempre estremamente serio e riflessivo, il personaggio di Gordon-Levitt contribuisce a rafforzare la paranoica tensione che permea sottilmente tutta la storia: insieme all'ossessione di essere costantemente spiati, c'è infatti anche la gravità con cui Snowden vive il compromesso quotidiani tra i diritti del cittadino e gli abusi a fin di bene compiuti dalla NSA. E' quindi incredibilmente catartico e travolgente il momento in cui Snowden, dopo aver finalmente voltato le spalle a queste organizzazioni corrotte e deciso di smascherarle, si lascia andare in un liberatorio sorriso che simboleggia esplicitamente la rimozione del fardello morale che lo opprimeva. E' questo il momento in cui la soffocante tensione del film, che grava sullo spettatore col terribile peso della consapevolezza che l'argomento è atrocemente reale, si scioglie per dare una svolta redentrice, epica e piena di speranza, declinata dai limpidi e intelligenti dialoghi con cui Snowden (imbranato nella vita privata, ma incisivo e chirurgico sui mezzi di comunicazione) illumina letteralmente l'intera vicenda, spazzando via le menzogne del governo USA come un raggio di sole che perfora le nuvole. Stone sa benissimo che, sulla lunga distanza, CIA e NSA stringeranno semplicemente il laccio dei loro consulenti informatici, ma almeno per ora decide di chiudere con un finale di speranza, in cui confida che ci sarà sempre una persona con un minimo di decenza e umanità a dire di no alle perversioni in cui gli psicopatici a capo di aziende governative e multinazionali finiscono per trascinare tutti.

 Sorpresa finale: nell'ultima intervista che Snowden rilascia, Gordon-Levitt cede il posto al vero (e genuinamente più imbranato come attore) Edward Snowden, chiudendo il film con una accentuazione della componente documentaristica, a ricordarci che, per quanto ben filmato e diretto, ciò che abbiamo visto è tutto vero, e non avrà mai fine, non importa quanto noi si possa vigilare. 

giovedì 6 febbraio 2020

"Oblivion" (2013)

 "Oblivion" (2013), scritto e diretto da Joseph Kosinski, è un film di fantascienza avventurosa di grande effetto visivo, fortemente concentrato sulla figura del protagonista, un tecnico che manutiene la tecnologia su una Terra spopolata e devastata, finchè non smaschera le menzogne alla base della propria esistenza.


 Nel 2077, il tecnico-49 Jack racconta di essere uno dei pochi esseri umani rimasti sulla Terra, devastanta da una guerra senza quartiere contro invasori alieni chiamati Scavengers (sciacalli). Quelli come Jack, coordinati da una stazione orbitale chiamata Tet, si occupano dellla manutenzione e protezione delle idrotrivelle, colossali macchinari che prelevano l'acqua degli oceani per alimentare la fusione nucleare che sostenta il resto dell'umanità, trasferitasi su Titano, una delle lune di Saturno. Dopo essere sopravvissuto a un incontro con gli Scavengers che ancora infestano la superficie, Jack scopre che gli alieni hanno attirato sulla Terra una capsula di salvataggio contenente astronauti umani, rimasti ibernati sin da prima della guerra. Inspiegabilmente, questi astronauti sono sterminati dagli stessi droni da guerra che Jack manutiene quotidianamente e che fungono da guardiani delle idrotrivelle contro gli assalti degli Scavengers superstiti, Da questo momento, la vita di Jack cambia radicalmente, vedendo crollare tutte le premesse su cui era fondata.

 Ideato e diretto dallo stesso regista di "Tron: Legacy", questo film sfoggia fondamentali cifre stilistiche comuni, dall'algida narrazione che procede senza alcuna fretta, agli sterminati e desolati panorami disabitati in cui il protagonista si avventura durante l'epopea, passando per le vertiginose prospettive dell'asettico e perfetto appartamento ipertecnologico in cui abitano i protagonisti, collocato sopra le nuvole tempestose del pianeta. E' un fascino gelidamente elegante e stilizzato, quello che promana da questo immaginario di un futuro distortamente orribile, ma nello stesso tempo raccontanto con una rassicurante calma impersonale che consente allo spettatore di metabolizzarne gli aspetti angoscianti e di concentrarsi invece sul magnetismo ipnotico dell'esplorazione di un mondo divenuto nuovamente estraneo alla specie che lo dominava.
 Ambientazione e trama hanno ben poco di originale, ma è la confezione a fare la differenza, così ricercatamente fredda nella fotografia, nella limpidezza dei colori (anche nel deserto, sembra fare freddo) e nella purezza distaccata della colonna sonora elettronica (altro elemento che riporta a "Tron: Legacy").
 Altrettanto familiare è la definizione del protagonista. Non stupisce apprendere che Tom Cruise si sia interessato al progetto sin da prima del 2011, e abbia contribuito alla caratterizzazione del protagonista: il tecnico-49 Jack è un inconsapevole eroe per natura, che condivide con Cruise passioni quali la motocicletta (uno dei prodigiosi veicoli del futuro che Jack pilota con maestria), e che vive un'avventura disperata ed epica, da nobile guerriero solitario contro l'intero mondo, con toni che oscillano continuamente tra "La guerra dei mondi" (2005) e "L'ultimo samurai" (due film ben noti per essere stati fortemente plasmati dal divismo di Cruise).
 Anche in questo caso, l'usato sicuro funziona: Tom Cruise dà vita a un eroe d'azione che è anche astutamente rassicurante con la sua umanità e la sua innata bussola morale, compiacendo lo spettatore con il classico epilogo in cui l'uomo trionfa sempre sulle macchine, non importa quanto intelligenti, grazie al vantaggio di provare sentimenti d'amore che neppure la scienza più radicale può cancellare.

 Per gli appassionati di fantascienza realistica, lo scenario descritto da Jack risulta implausibile (e quindi sospetto) sin dall'inizio: l'idea che l'umanità, dopo una guerra globale, abbia le risorse per trasferirsi in massa fin su Titano (lontanissima luna di Saturno) è poco plausibile; che l'umanità, una volta giunta fin là, abbia bisogno proprio di prelevare acqua dalla lontanissima Terra per usare la fusione nucleare, è ridicola (l'idrogeno è presente in grande abbondanza ovunque, nel sistema solare; si stima che il 75% di Saturno sia composto da idrogeno). Ma è proprio la consapevolezza di questa falsità di fondo che aumenta il coinvolgimento nella visione, spingendo lo spettatore a notare consapevolmente tutte le piccole bizzarrie che indicano che qualcosa non torna, in questo scenario post-apocalittico gestito con la metodica organizzazione di un'azienda all'avanguardia. E quando finalmente tutti i pezzi del rompicapo vanno al loro posto, è ancora più stimolante cercare di immaginare una possibile soluzione che derivi dai pochi mezzi a disposizione degli umani superstiti (tra cui, ovviamente, la scaltrezza inspiegabilmente superiore e il cuore dell'uomo).

 Incentrata com'è sul personaggio interpretato (e definito) da Cruise, la trama non concede molto spazio ai comprimari, nonostante nomi quali quello di Morgan Freeman e di Olga Kurylenko, i quali si limitano a svolgere un compito funzionale al risveglio o alla realizzazione dell'eroe. Gli sviluppi, quindi, ristretti al solo personaggio di Jack, sono necessariamente lineari, per quanto di portata cosmica; l'azione è adeguatamente bilanciata e mescolata allo sviluppo del mistero che ruota intorno al vero destino della Terra e dell'umanità, e contribuisce a definire la caratterizzazione dei personaggi, per altro abbastanza schematica, anche se con il progedire della storia si comprende come in certi casi essa debba essere obbligatoriamente tale. Apparentemente confinata proprio a questo tipo di ruolo stereotipato e secondario, Andrea Riseborough svolge in realtà un efficace lavoro nello sviare lo spettatore, che cade nella trappola di classificarla come l'ennesimo "luogo comune" sulla moglie che attende a casa il marito che lavora.

 Come già si era capito in "Tron: Legacy", l'estetica visuale è un feticcio principe del regista, che in questo film ha dato a se stesso l'opportunità di scatenarsi con visioni planetarie di fortissimo impatto concettuale. Tra panorami immensi e surreali, dove piramidi capovolte fluttuano sopra gli oceani morenti, e ricurve tecnologie veicolari si dispiegano con leggerezza nei cromatismi del bianco e delle sfumature di grigio-azzurro , la visione più memorabile è probabilmente il bagno notturno nella piscina dal fondo trasparente, sospesa al di sopra di un tumultuoso cielo colmo di nubi ribollenti di lampi: un trionfo di immaginazione futuristica, lineare e pulita, grandiosa e trascinante, nella sua impossibile e fredda perfezione.

 E' stato osservato che, contrapponendo la tecnologia malvagia all'uomo "primitivo", con questo film Joseph Kosinski sembra regredire, e rinnegare la filosofia transumanista del suo precedente "Tron: Legacy", dove invece è una tecnologia estremamente avanzata a generare le nuove forme di vita del futuro, in un ambiente del tutto artificiale.
 Ma "Tron: Legacy" è del 2010, e non è stato scritto da Kosinski, mentre l'idea di "Oblivion" è opera sua, ed esiste sin dal 2005 (in forma di racconto breve): che sia questa, la visione più intima del regista?


mercoledì 5 febbraio 2020

"Magic in the Moonlight" (2014)

 "Magic in the Moonlight" (2014), scritto e diretto da Woody Allen, è una arguta e beffarda commedia cripto-sentimentale ambientata nei ruggenti anni 1920, incentrata sullo scontro tra una presunta sensitiva e un celebre illusionista che smaschera abitualmente i cialtroni.


 Il famoso illusionista Stanley Crawford, invitato sulla Costa Azzurra da un collega, si ritrova a dover sbugiardare una giovane medium statunitense, che si sta approfittando dell'ingenuità della ricca famiglia che li ospita. Ma non sembra esserci trucco, nei "numeri" della sensitiva, la quale non solo vede oltre l'identità fittizia di Crawford, ma ha "visioni" dei fatti più intimi della sua vita. Da sprezzante e implacabile scettico che era, Crawford inizia a dubitare: forse esiste davvero un mondo oltre a quello fisico?

 Con un ritmo vivace, dialoghi affilati e caratterizzazioni nitide, l'elegante e agile narrazione di questo film cattura persino lo spettatore meno interessato all'argomento di facciata, e cioè lo spiritismo d'epoca, condito con venature romantiche così sardoniche e cerebrali che a fatica giustificano l'etichetta "sentimentale" per una narrazione interessata soprattutto a discutere dell'eterna contrapposizione tra materialismo e spiritualismo, tra il desiderio di credere nell'aldilà per avere conforto psicologico e la volontà di vivere pienamente la vita senza aggrapparsi a illusorie promesse vincolate a un arbitrario bagaglio di regole, imposizioni e divieti superstiziosi.
 Nonostante l'argomento apparentemente oneroso, la narrazione mantiene sempre un tono brillante e leggero, sottilmente beffardo, anche grazie alle ambientazioni lussuose delle classi agiate in cui è ambientato il film, alla ricostruzione sontuosa di ambienti e abbigliamento, ai suggestivi panorami naturali, alle musiche deliberatamente scelte tra i pezzi più famosi e accattivanti, affiancati alle energiche sonorità dei Ruggenti Anni Venti.
 Per quanto più che l'umorismo sia il sarcasmo a dominare i toni dei dialoghi, la sardonica e raffinata cifra stilistica di Woody Allen risalta chiara, tanto nello sviluppo narrativo, quanto nel disincantato e logico carattere del protagonista, che affronta il cambiamento del proprio modo di essere (prima casca nella fola dello spiritismo, poi si lascia tentare dal "pensiero magico" della religione, e infine scopre cosa sia il vero, irrazionale amore) con un'impassibile accettazione, ma senza mai rinunciare a un approccio analitico, colto, involontariamente comico tra le righe, dominato costantemente dalla sua distaccata razionalità.
 La parabola narrativa che ne deriva mette inizialmente a disagio lo spettatore più razionale, che difficilmente digerisce uno sviluppo secondo cui il soprannaturale esiste, e per di più si manifesta quotidianamente con gli spiriti dei defunti che vanno alle sedute spiritiche per sollevare una candela; ma, in un secondo tempo, lo spettatore scope di essere stato beffardamente ingannato, con un colpo di scena "magico" (che peraltro lo spettatore a quel punto inizia a sospettare, ma anche a desiderare) a cui fa seguito un secondo finale riparatore, dove la razionalità trionfa, ma non senza aver fatto una generosa concessione al sentimento e ai bisogni emotivi dell'animo umano.

 Ottimamente scelti, gli attori interpretano con bravura e spontaneità i "tipi" che la sceneggiatura di Allen ha già definito puntigliosamente. Colin Firth affronta il ruolo più difficile ed esigente, incarnando lo studioso acculturato e razionale, costantemente sarcastico e sprezzante nei confronti degli ignoranti (di ogni ceto) che lo circondano, ai quali non risparmia osservazioni causticamente oneste sulle illusioni di cui infarciscono le loro vite. Notevoli sono i suoi dialoghi, dal lessico curato, forse un poco snob, ma soprattutto attento a utilizzare a pieno la ricchezza del vocabolario della lingua inglese. Emma Stone gli tiente testa senza fatica nel dare vita all'incantevole finta medium dallo sguardo candido e dal sorriso affascinante, mescolando astuzia e ingenuità nella sua fresca figura di giovane provinciale statunitense. Eileen Atknins, nei panni della vecchia e amabile zia del protagonista, è più un archetipo che un personaggio: con la sua saggezza spassionata e tranquilla, ma arguta, sembra essere un altro volto della personalità dello stesso Woody Allen (che ovviamente è la vera natura del protagonista).

giovedì 30 gennaio 2020

"Alexander" (2004)

 "Alexander" (2004), è un film storico e drammatico scritto e diretto da Oliver Stone.

Scheda di "Alexander" su wikipedia

 Alessandro III, figlio di Filippo II di Macedonia, gli succede al trono e inizia la sua campagna di conquiste dell'Egitto, della Persia e dell'India, diffonendo l'ellenismo in una vastità di culture e popolazioni, fino a essere eliminato dai suoi stessi generali, ansiosi di porre un freno al suo idealismo e di spartirsi il potere di quel colossale ma fragile impero.

 Ambizioso e molto schietto, il regista Oliver Stone fa poche concessioni al gusto del pubblico statunitense, e va apertamente controcorrente nel modo di raccontare la vita e le imprese di Alessandro Magno, insistendo sulla sua umanità e sulla conflittualità delle sue pulsioni, della sua psicologia, della sua sessualità e delle diverse influenze educative dei suoi genitori. La scelta di Stone di evidenziare la componente omosessuale degli amori di Alessandro (da Efestione allo schiavo persiano Baoga) è probabilmente ciò che ha ingenerato l'alzata di scudi del pubblico statunitense, scandalizzato dalla scarsa "moralità" di Stone e deluso dalla mancata edulcorazione in stile soapoperistico della materia, come invece era accaduto con il castrato film "Troy" (che narra proprio le gesta di Achille, sulla cui mitica figura Alessandro Magno modellò la propria esistenza, al punto di recare sempre con sè una copia dell'Iliade).

 Emotivamente tormentato fino all'ultimo, Alessandro insegue un ideale senza mai raggiungerlo, e più corre, più ha bisogno di correre, senza rendersi conto del prezzo che richiede al proprio esercito, formato da persone comuni incapaci di condividere la sua grandiosa visione. Perennemente "tradito" da chi lo circonda, andando dalla spietata madre Olimpiade ai suoi generali dell'esercito Macedone, fino alla moglie Rossane che non riesce a concepire un figlio, Alessandro è dipinto da Stone non come un invincibile e perfetto conquistatore semi-divino, ma come un uomo, con tutte le sue fragilità, incertezze e debolezze, con i conflitti affettivi irrisolti, con speranze che lo spingono avanti e delusioni che lo sconfortano. E' un ritratto sfaccettato in stile moderno, ma non dozzinale, che può deludere chi si aspettava un'epica celebrativamente fracassona e facilona.
 Paradossalmente, però, questa ambiziosa ricercatezza di introspezione si scontra con una certa inaccuratezza nella cornice, e cioè nella ricostruzione storica di alcuni aspetti visivamente cruciali della vicenda, come l'abbigliamento e l'organizzazione dell'esercito persiano di Dario III, ma anche l'improbabile etnia africana della prima moglie di Alessandro, Rossane (interpretata da Rosario Dawson), che era invece figlia del satrapo di Battriana (nell'odierno Afghanistan). Lo stesso Stone ha dichiarato di aver volutamente fuso le battaglie di Isso e del Granico nella battaglia di Gaugamela, per semplificare questo aspetto della narrazione, ed è difficile contestare questa scelta, considerando che anche così il film ha l'incredibile durata di 214 minuti nella versione "finale".

 Colossale e dispendioso nella ricostruzione delle due battaglie cruciali della saga (la già citata Gaugamela e quella del fiume Idaspe, contro il re indiano Poro) come anche nelle ambientazioni della Persia (da Babilonia alle montagne dell'Hindu Kush), il film è abile e incisivo nel rendere la dimensione epica dell'epopea dell'esercito macedone che, armato di convinzioni sul mondo destinate a essere riscritte, parte dalla piccola Macedonia all'esplorazione e conquista di territori remotissimi e popolati da civiltà e animali impensabili. E' la stessa dimensione che raggiunge la componente mitologica del film, con Alessandro che sin da giovane è iniziato sia dal padre che dalla madre ai volti misterici della religione greca: i Titani sepolti nel Tartaro, Zeus che uccide del genitore Crono, Medea e il sacrificio dei figli, la leggenda della paternità divina dello stesso Alessandro. Ben diverso è lo spessore degli insegnamenti del padre Filippo (il rito di passaggio all'età adulta simboleggiato dai miti più cruenti) e della madre Olimpiade (perennemente attorniata dai suoi amati serpenti, afferma di aver concepito Alessandro da Zeus, e per tutta la vita ne manipola le emozioni per mantenerlo sempre sotto il proprio controllo, impedendogli di giungere quindi a una vera maturità).

 La narrazione è strutturata su tre diversi livelli: nel presente, un anziano Tolomeo rievoca i propri giorni al fianco di Alessandro, in una narrazione degli eventi bellici che si alterna a flashback sulla giovinezza dello stesso Alessandro (i quali a Tolomeo non possono essere noti); in questi ultimi, sono  le voci di Filippo II e del filosofo Aristotele (precettore di Alessandro) a fare da ulteriore filtro narrativo, dopo quella di Tolomeo: lo scopo è quello di fornire allo spettatore gli strumenti per una comprensione completa della figura di Alessandro, dal versante militare a quello culturale, psicologico e introspettivo.

 Oltre che per le scelte narrative oneste e commercialmente impopolari, il film paga anche la presenza di un attore protagonista come Colin Farrell, un piccoletto irlandese e moro che poco si addice alla figura di Alessandro Magno che si è radicata nell'immaginario collettivo. Paradosalmente, però, Farrell è invece una scelta storicamente accurata, in modo quasi inquietante: basso, tozzo, con occhi di colore diverso e capelli rossicci che tingeva di biondo, il vero Alessandro Magno era ben diverso dallo stereotipo dell'eroe greco, biondo e atletico, e aveva in comune con Colin Farrell persino la voce aspra. Con la sua aria da cane bastonato, qui adeguatamente attenuata ma sempre presente, Farrell consegue perfettamente gli obiettivi di umanizzazione del mito che Stone si prefigge di conseguire, ma ha così scontentato il pubblico più grossolano.
 Nei panni dell'ambiziosa e intrigante Olimpiade, principessa dell'Epiro e presunta strega, Angelina Jolie incarna con gelida intensità il personaggio di una madre tanto spietatamente ambiziosa quanto morbososamente attaccata al figlio, sempre enigmatica nelle sue vere intenzioni, celate da un'espressione di bellezza indecifrabile che ben si addice al personaggio storico. La nomea di strega di Olimpiade è probabilmente il motivo per cui si è scelto di far invecchiare il personaggio solo con tocchi cosmetici secondari, senza appesantire il volto di Jolie con un pesante uso di trucco e protesi, rafforzandone l'aura enigmatica e misterica (non solo misteriosa). Jolie recita la propria parte con un bizzarro accento, scelto per sottolineare come Olimpiade sia una straniera, rispetto ai Macedoni di cui ha sposato il re; lo stesso dettaglio si ritrova nella parlata dei personaggi persiani, di Rossane, dell'eunuco Bagoas, per rendere in inglese l'effettiva commistione di lingue che Alessandro Magno e il suo esercito si trovò ad affrontare nel viaggio in Persia e India. Da notare anche il trucco delle lettere scritte da Olimpiade non in greco, ma in inglese, con un tipo di carattere che imita la spigolosità degli alfabeti antichi.
 Poco utilizzato, Anthony Hopkins interpreta il vecchio Tolomeo, che fu fra i successori di Alessandro e regnò sull'Egitto: il suo ruolo è quello di fornire una cornice narrativa che guidi lo spettatore lungo la vita di Alessandro, sottolineando quale sia la disponibilità di fonti oggettive su quell'epoca, oltre all'aspetto culturale che Alessandro portò con sè nel mondo (ogni città di  Alessandria da lui fatta costruire fu dotata di una biblioteca, la più famosa delle quali è proprio quella di Alessandria d'Egitto).

  Era dal 1980 che il cinema non proponeva la propria versione dell'epopea di Alessandro Magno, mentre l'animazione nipponica aveva proposto nel 1999 l'esoterica interpretazione di Alexander - Cronache di guerra di Alessandro il Grande, serie in cui certe scene mostrano una suggestiva  affinità con quelle del film di Stone (la cerimonia dell'apoteosi di Filippo come tredicesimo dio olimpico, l'ingresso a Persepoli, e la danza dell'esotica ballerina davanti alla corte di Alessandro).




lunedì 13 gennaio 2020

"mother!" (2017) - "madre!"

"mother!" (2017), in Italia "madre!", rigorosamente con la emme minuscola,  scritto e diretto da Darren Aronofsky, è un film in bilico tra il surreale, il drammatico e l'orrore, fortemente metaforico e visionario, che farà impazzire lo spettatore nel tentativo di decifrare il vero significato degli eventi che si dispiegano e dei simboli che lo intridono.

Scheda di "madre!" su wikipedia

 La giovane compagna di uno scrittore in crisi creativa, più anziano di lei, ha ricostruito da zero la casa di campagna di lui, distrutta da un incendio. Ciò che la giovane non sa, però, è che tutto il suo mondo, situato nel mezzo di una natura vergine, è scaturito letteralmente dalle ceneri, come anche lei, per opera di un misterioso cristallo pulsante che lo scrittore custodisce gelosamente nel proprio studio.
 La comparsa di un enigmatico estraneo, dai modi volgari e aggressivi, a lei molto sgradito ma inspiegabilmente accolto con calore da lui, altera il loro idillio solitario. Il visitatore viene raggiunto dalla moglie, che si rivela persino più maleducata e insolente di lui, e insieme i due violano la volontà dello scrittore, prendendo il suo prezioso cristallo e mandandolo accidentalmente in frantumi.
 Da quel momento, le visite di estranei si susseguono: prima, persone in visita per il lutto di uno dei due figli maschi della coppia di zoticoni; poi, i seguaci adoranti della nuova, bellissima fatica letteraria dello scrittore, interpretata da ognuno in modo diverso. Infine, il caos di gruppi politici, campi di sterminio, eserciti in guerra. Nella devastazione della casa ormai annichilita dalla pazzia di queste genti che transitano come maree inarrestabili, la giovane protagonista, dopo aver sopportato tutto stoicamente per amore del compagno, perde il figlio appena partorito e scatena una terribile reazione.

 E' quasi impossibile commentare questo film senza svelare gli intenti visionari e metaforici del regista: per più di un terzo della pellicola, Aronofsky ci fa credere di essere davanti a un thriller psicologico dai tocchi orrorifici, a metà tra Misery e Rosemary's Baby, con la protagonista incapace di comprendere il complotto che gli altri stanno tessendo alle sue spalle; poi, gli eventi precipitano in modo apertamente surreale e travolgente, assumendo una dimensione colossalmente storica ma circoscritta alle mura della casa, costringendo lo spettatore a interpretare attraverso un'altra ottica gli indizi finora raccolti, e a chiedersi se sia il caso di cercare un senso tradizionale per vicenda.
 Infatti, l'intera narrazione ha un tono fortemente onirico, e la logica dei sogni la fa pesantemente (e mirabilmente) da padrona, basti pensare a quando la giovane protagonista assiste a scene che per gli altri  non sono accadute, o quando le persone giungono alla sua casa in mezzo al verde senza traccia di veicoli (o di strade), o quando la casa in questione viene invasa continuamente da orde di estranei che ne dispongono come credono, anche con violenza, ignorando le proteste della padrona di casa, o quando la stessa casa si altera in maniera organica, quasi fosse il corpo di un essere vivente, nell'indifferenza di tutti.

 Ma alla fine, gli elementi significativi si separano da quelli squisitamente narrativi e deliberatamente fuorvianti, e le valenze dell'affresco concepito da questo allucinato regista si chiariscono: lo scrittore in crisi è il dio delle religioni abramitiche; la casa nel mezzo della natura verdeggiante è l'Eden; il primo visitatore è Adamo, raggiunto dalla moglie Eva con cui vìola il comandamento divino del "frutto proibito", rompendo il cristallo che non dovevano toccare; i due figli maschi sono Caino e Abele, col primo che uccide il secondo; l'opera dello scrittore è il testo sacro della religione rivelata; le folle di appassionati dello scrittore sono i fedeli di dette religioni; i disordini che seguono rappresentano il fanatismo religioso, il comunismo, il capitalismo, le grandi guerre, le pulizie etniche e ogni altro possibile eccesso dell'umanità; il bambino partorito da Gea, e offerto alla folla adorante che finisce per ucciderlo, è Gesù Cristo.
 E la giovane donna? La giovane donna è Gea (o la Terra, che lo scrittore chiama "mia dea" e che il film identifica come "madre" nel senso più globale di "madre Terra"), disperatamente tesa a tenere insieme un fragile ecosistema e a tollerare la brutalità e i danni che l'uomo, nel suo sterminato parassitismo, le infligge per il proprio capriccio egocentrico e individualista.

 Il film è stato sia celebrato sia disprezzato, dando origine a una netta divisione tra chi lo ha odiato visceralmente e chi lo ha adorato: fischi alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, candidature ai Razzie Awards, inclusione nella classifica dei 25 migliori film dell'anno dalla rivista Sight & Sound, recensioni professionali positive sui siti specializzati in critica cinematografica, pagine di Wikipedia che ne dicono apertamente bene in inglese e subdolamente male in italiano, e così via.
 Gli attori protagonisiti Jennifer Lawrence e Javier Bardem sono stati a loro volta lodati o stroncati con ferocia, spesso e volentieri per colpire non la loro recitazione, coerente e professionale, ma il contenuto dell'opera.

 E noi cosa ne diciamo?
Tecnicamente il film è di ottima fattura, con fotografia limpida, regia accurata nell'esporre solo il punto di vista esclusivo della frastornata Gea, narrazione che bilancia le sequenze di caos e violenza con i momenti lenti e introspettivi, dialoghi surreali quanto l'impostazione favolosamente onirica dell'intera vicenda, tematiche accuratamente mescolate, occhio attento alla moda del momento di presentare il patriarca come la causa di tutti i mali e la donna come vittima, conclusione con rivelazione del "mistero" allegorico che non viene fornita apertamente nel finale ma lasciata quasi tutta allo spettatore.
 Dal punto di vista complessivo, il film è una sfida difficile e frustrante, ma anche un'esperienza illuminante e trascinante, che costringe lo spettatore a immergersi nel punto di vista della protagonista, pur conoscendo un dettaglio cruciale che lei ignora (la scena iniziale della rigenerazione di tutto) e che in seguito viene apparentemente relegato a semplice fantasia (Adamo rompe il cristallo, ma non accade nulla, quindi forse la scena iniziale era solo un sogno). Come interpretare, quindi, la realtà contraddittoria e onirica in cui Gea è immersa? Come non cadere vittima dell'angoscia che la attanaglia, prigioniera com'è di un microcosmo da cui non sa come uscire, dato che ogni via logica le viene preclusa dalla follia degli altri? E, infine, come non esaltarsi nel momento in cui la rivelazione della colossale e frastornante allegoria ci coglie, trasformandoci in invasati adoranti (esattamente come gli appassionati dello scrittore) e spingendoci a riesaminare e interpretare tutti i momenti chiave della pellicola sotto una nuova luce?
 Lo scopo non è accettare il messaggio, che purtroppo è quello che ogni persona razionale ha già da tempo conseguito in autonomia esaminando spassionatamente la storia dell'umanità e i risultati a cui è giunta. Lo scopo è decifrarlo fino in fondo e vincere così la sfida lanciata dal regista.
 E ovviamente, in seguito, bisogna anche trovare la risposta alla domanda cruciale: stiamo parlando di una revisone della tesi gnostica?
 Il dio di questa narrazione, incapace di capire il dolore che il suo operato d'amore genera, è Ialdabaoth, cioè un essere incapace e quasi malvagio, corrotto dalla materia, creatore di un universo dolorosamente imperfetto e fallimentare, il quale deve continuamente essere azzerato nel fuoco perchè nulla funziona come il dio aveva progettato?
 E la presenza di Gea come divinità sua pari, e non come sua creazione, è un ritorno alle radici del politeismo babilonese cui la Bibbia ebraica attinge sin dall'inizio, con la dualità tra Yhaweh e l'Oscurità (Marduk e Tiamat nella mitologia babilonese)?

giovedì 9 gennaio 2020

"Primer" (2004)

 "Primer" (2004), scritto, diretto e interpretato da di Shane Carruth, è un film indipendente di vera fantascienza dei viaggi nel tempo, come mai se ne sono visti prima; una produzione modesta, a basso costo,  ma dotata dell'incommensurabile valore di coinvolgere intellettivamente, intrigare, far ragionare e farsi ricordare.

Scheda di "Primer" su wikipedia

Abe e Aaron sono due ingegneri legati da grande amicizia, che nel tempo libero lavorano con i colleghi in un'autorimessa-laboratorio in cui sperano di realizzare l'invenzione che li renderà ricchi. L'idea più audace di Abe, un generatore di campo che nega in parte la gravità, ha un effetto collaterale imprevisto: può spostare un oggetto in un anello temporale che va dal momento di attivazione a quello di spegnimento del generatore. L'oggetto, privo di volontà, riemerge sempre dall'anello al momento dello spegnimento. Ma che accadrebbe se nel campo entrasse un essere umano capace di decidere quando uscirne?
Un bel giorno, sotto gli occhi stupefatti di Aaron, Abe gli rivela di essere giunto dal futuro con questa tecnica, e gli mostra il "se stesso" del presente che si appresta proprio a entrare nella macchina che lo riporterà a sei ore prima. La logica causa-effetto è rispettata, a quanto pare: basta evitare di interagire col proprio doppio. E la strada alle manipolazioni del passato recente è aperta...

  Ovviamente mai presentato in Italia, questo film indipendente a basso costo brilla per originalità e atipicità, che gli conferiscono la forza e il fascino di un prodotto unico e irresistibile nella sua natura contemporaneamente grezza (dal punto di vista tecnico, volutamente semi-amatoriale)  e criptica (dal punto di vista dell'esposizione narrativa, volutamente realistica e di complessa decifrazione).

 Il tema è quello della scoperta della scienza/tecnologia dei viaggi nel tempo, raccontata con lo stile di un documentario, e incentrata sullo scenario estremamente realistico dell'effettiva genesi delle invenzioni rivoluzionarie, che nel mondo reale è stata più volte conseguita in un'autorimessa trasformata in laboratorio economico. A contribuire al "verismo" della vicenda vanno anche i dialoghi tra gli ingegneri, volutamente formulati in gergo tecnico, sincopati e non esplicativi, perchè si svolgono tra addetti ai lavori che non hanno bisogno di spiegazione; ma, soprattutto, è l'accuratezza realistica dell'idea del meccanismo del balzo temporale, corredata con varie regole e accortezze pratiche per riuscire a utilizzarlo in maniera adeguata (e senza morire), a convincere lo spettatore che la vicenda potrebbe accadere davvero.

 Girato con uno stile quasi dilettantesco, fatto di immagini sfocate, telecamera in movimento, sonoro a volte indecifrabile, il film è fortemente parlato, e deliberatamente involuto nel raccontare la parabola della scoperta scientifica in questione, con la successiva attuazione della stessa, in un crescendo di scene apparentemente quotidiane, ma tutte basate su spostamenti all'indietro nel tempo che producono un intreccio sempre più cerebrale e difficile da districare.

Schema esplicativo "definitivo" dei balzi temporali di "Primer"
 Questi "viaggi nel tempo" sono vincolati da una logica e da limiti ben precisi, e risultano quindi atipici per la fantascienza cinematografica (realizzata a uso e consumo del grande pubblico, non esattamente composto da gente brillante). Non a caso, i due protagonisti sono anche e soprattutto ingegneri, e possiedono quindi la metodicità necessaria per affrontare sotto tutti gli aspetti una faccenda così rivoluzionaria, non solo comprenendone empiricamente la fisica che lo sostiene, ma soprattutto  capendo come utilizzarlo (senza restarci secchi) al riparo di paradossi temporali, e prevedendo soluzioni alternative a qualunque eventualità che possa andare storta.
 Ma ognuno dei due personaggi agisce anche segretamente nei confronti dell'altro, e quindi le cautele prese da entrambi danno vita a una serie di colpi di scena e a un crescente accavallarsi di divergenze temporali (del tutto personali) che li spinge a prendere il posto dei loro "doppi" del passato per migliorare la linea temporale o correggerei cambiamenti da loro stessi indotti.
 Ad aumentare il realismo di questa narrazione di una vicenda dal tono così prosaicamente pionieristico, intervengono fattori incontrollabili, come le alterazioni biologiche e neurali che i loro corpi subiscono a causa della grezza tecnologia temporale utilizzata, gli improvvisi arrivi di "doppi" da un futuro ancora sconosciuto, e le incomprensioni caratteriali che li trasformano radicalmente, portando il primo a voler impedire la nascita della tecnologia temporale, e il secondo a volerla realizzare su grande scala.

Lo scarso capitale a bilancio e la produzione indipendente, causa della breve durata del film, sono probabilmente ciò che spinge il regista a condensare e riassumere oralmente troppi eventi della parte finale del film, quando emergono i segreti dei due protagonisti e la quantità di viaggi all'indietro nel tempo cresce esponenzialmente, ma resta monca delle motivazioni che hanno spinto i due personaggi non solo al viaggio, ma anche a tenere certi comportamenti: il risultato è di effetto, per lo sconcerto dello spettatore che deve reinterpretare certi indizi sotto una luce nuova, ma c'è anche l'inevitabile insoddisfazione della mancata spiegazione che è un requisito fondamentale per il tipo di spettatore che il regista ha scientemente selezionato con le sue scelte narrative.

 E' impossibile non trovare affinità con il nipponico Steins; Gate, altra intrigante e originale esperienza narrativa multimediatica che racconta analogamente la scoperta e l'uso privato della tecnologia dei viaggi nel tempo, con il conseguente generarsi di divergenze temporali in cui diverse
iterazioni degli stessi personaggi intervengono per modificare o rettificare gli eventi storici recenti.
 Le possibili parentele, però, si fermano qui, perchè il film, della durata di soli 75 minuti, non ha modo di sviluppare nel dettaglio le numerose ramificazioni che i viaggi nel tempo paralleli possono causare, e sceglie quindi di condensarle tramite l'artifizio di una voce narrante registrata su audiocassetta di uno dei protagonisti, che registra ogni conversazione per poterla poi replicare con la certezza di non introdurre variazioni nel flusso temporale: il risultato è che, mentre la trama diventa finalmente comprensibile, la narrazione degli eventi si condensa e accelera, ritornando a mettere alla prova la prontezza mentale dello spettatore che si è finalmente rilassato, costringedolo a tenere la mente vigile e partecipe fino all'ultimo secondo della pellicola.

martedì 7 gennaio 2020

"Maryland" (2015) - "Disorder - La guardia del corpo"

"Maryland" (2015), in Italia "Disorder - La guardia del corpo", diretto da Alice Vinocour e scritto da lei con Jean-Stéphane Bron, è un film belgo-francese in bilico tra nero, lo psicologico e il sociologico, nascosti dietro la facciata del thriller senza azione.


 Vincent, soldato dei corpi speciali francesi, soffre di disturbi post-traumatici che spingono i medici a negargli di partecipare ad altre missioni. Impiegatosi contro voglia sulla Costa Azzurra, come guardia del corpo della moglie di un ricco affarista libanese, si ritrova a fronteggiare una serie di tentativi di rapire la donna, mentre tiene a bada i crescenti disturbi che lo affliggono.

 Tecnicamente ben eseguito per la distaccata regia e la limpida fotografia, il film è diretto e scritto da una regista che mostra una certa ambizione stilistica nel voler costruire un'algida e impersonale narrazione incentrata quasi esclusivamente sulle immagini, trattando in modo quasi documentaristico il tema del disordine mentale nella vita "civile" dei soldati reduci.

 Ansiosa di raccontare la psicologia di un uomo come la racconterebbe un uomo, ma nello stesso tempo decisa a evitare tutti gli stereotipi hollywoodiani del film d'azione (azione che, infatti, è fortuntamente assente se non in pochissime scene di crudo realismo), la regista mette in scena il classico personaggio del colosso forte, silenzioso e un po' cupo, che affronta i propri problemi da solo, senza mai farne parola con anima viva, sforzandosi di tenerli sotto controllo con la medicina e la volontà: questo stereotipo, sebbene trattato senza giungere agli sviluppi più ovvi e beceri (il soldato che impazzisce e fa una strage), insieme a una sceneggiatura apparentemente un po' lenta, e alla suddetta regia fredda e lontana, finisce per respingere lo spettatore più impaziente, che non riesce a capire dove voglia andare a parare il film.
 La risposta a questa domanda non è immediata neppure per chi invece ne accetta la tecnica narrativa, e si lascia conquistare dalla sottile ma costante tensione visiva che si innerva per tutta la pellicola con la forza tipica del "non detto", e scorre letteralmente sotto la pelle del protagonista, il quale sembra sempre sul punto di cedere alle pressioni psicofisiche della sua malattia e a dare sfogo a una follia terribile su coloro che dovrebbero proteggere.
 Questo percorso si sviluppa in parallelo a quello professionale di Vincent, che svolge il proprio lavoro con ammirevole efficacia, a volte vittima di allucinazioni e trattato con scetticismo dai colleghi, più spesso costretto a da affrontare stoicamente individui mascherati in carne e ossa, che tentano di rapire la donna da lui protetta, e sempre senza mai un gemito di dolore nonostante le ferite e le batoste riportate.
 Credibile nella sua violenza cruda e non compiaciuta, credibile nelle tattiche adottate e nella prontezza di riflessi, credibile nelle conseguenze fisiche e psicologiche dei suoi disturbi, Vincent risulta caratterizzato in modo esagerato e sopra le righe solamente per via del suo ostinato silenzio, che va ben oltre la difficoltà di comunicare di un reduce militare.
 E' comunque questa sua situazione a portare alla catarsi finale; una catarsi introspettiva, fortemente anticlimatica, che mette in difficoltà gli spettatori in attesa di sviluppi più clamorosi: sempre arroccato nella sua solitudine, Vincent diventa consapevole che i suoi amici sanno della situazione che lui cerca di occultare, e tragicamente è costretto a rendersi conto di non poterla controllare, quando cede a una violenza sfrenata proprio davanti alla donna con cui sognava di iniziare una vita, proteggendo lei e il figlio.
 Ed è su questa amarissima nota di consapevolezza/illuminazione che si chiude il film, con Vincent che sceglie di restare solo con le proprie allucinazioni, ancora una volta senza chiedere aiuto, per il bene della donna (che pure sembrava finalmente voler quasi ricambiare) e del figlio di lei.

 Matthias Schoenaerts si cala con convincente intensità nel ruolo del nerboruto soldato silenzioso (ma sensibile), soggetto ad allucinazioni e dipendente da ansiolitici, prono a ira inconsulta ma nello stesso tempo affidabile e protettivo. Come da intenti della regia, Schoenaerts si muove sul filo del rasoio, dando l'impressione che il suo personaggio potrebbe in ogni momento rivolgersi contro gli stessi che vuole proteggere, ma rivelando anche il timido e impacciato desiderio di relazionarsi con gli altri (attratto dalla donna che protegge, ma sempre rigorosamente rispettoso; paterno con il figlio di lei, ma a volte troppo autoritario, come se emergesse il ricordo di una figura paterna scomparsa troppo presto).
 Diane Kruger, nel ruolo della bella moglie (oggetto?) del ricco libanese (decisamente pià anziano di lei), interpreta con fatica (e lesinando i dialoghi) un personaggio confuso e contraddittorio, che forse neanche lei sa come gestire, perchè sembra quasi cucito su misura per indurre certe reazioni nel protagonista: bella, giovane, moglie di un magnate, è inspiegabilmente senza amici, inutilmente fredda od ostile, incapace di godersi il benessere in cui è immersa, priva delle ambizioni che ci si aspetta in una donna arrivata a quel livello sociale, a volte ingenuamente ignara della situazione in cui si trova e a volte palesemente complice dei traffici criminali del marito (un mercante d'armi, si scopre in seguito) ma del tutto priva di motivazioni per una simile scelta.
 Gli altri attori interpretano tutti ruoli  minori, conferendo ancora una volta un aspetto anomalo di particolare interesse a questo film che riesce a raccontare la propria storia con un numero di attori da pezzo teatrale.

 Come la regia, anche la colonna sonora è minimale e si concentra a sua volta sul solo protagonista, escludendo tutti gli altri punti di vista: le musiche e i suoni sono quelli ambientali, o quelli metaforici che risuonano nella sua mente quando si scatenano le sue presunte turbe psichiche, e che confondono lo spettatore stesso, impedendogli di distinguere tra paranoia ed effettivo pericolo, finchè non è troppo tardi.

Il "Maryland" del titolo originale è il nome della villa sulla Costa Azzurra dove si svolge gran parte del film. La versione italiana è il solito affastellamento ridicolo di tutte tematiche del film in inglese e in italiano, per far capire agli spettatori tutto subito.

lunedì 6 gennaio 2020

"The Recruit" (2003) - "La regola del sospetto"

 "The Recruit" (2003), in Italia "La regola del sospetto", diretto da Roger Donaldson su soggetto di Roger Towne, Kurt Wimmer e Mitch Glazer, è un film di spionaggio divertentemente paranoico con l'immancabile venatura romantica.

Scheda di "The Recruit" su wikipedia

 Un giovane e brillante informatico viene notato da un reclutatore della CIA e si sottopone a lunghi giorni di duro addestramento in cui gli viene insegnato in ogni modo che le apparenze ingannano. Quando fallisce un test che gli causa l'espulsione, e si sente raccontare che la compagna di corso di cui si è invaghito è un doppio agente, il giovane sceglie di rientrare in gioco come NOC (agente sotto copertura non ufficiale) per individuare i suoi mandanti.

 Film di puro intrattenimento, senza nessuna pretesa di realismo, "The Recruit" si lascia vedere soprattutto per il divertente e continuo gioco di capovolgimento della situazione, come ben fa capire la versione italiana del titolo: ogni volta che il protagonista agisce secondo l'istinto (e gli ormoni), scopre di essere stato messo alla prova, e lo sconforto che lo assale è enorme, soprattutto visto il grande concetto che ha di se stesso. Ma cosa succede quando non c'è più la rete di sicurezza del corso dell'Agenzia, a salvarlo da errori fatali? Fino a che punto dobbiamo, noi spettatori, applicare la paranoia che il corso della CIA ha insegnato al protagonista? E' questa gara non dichiarata con il regista a mantenere viva l'attenzione per 115 minuti, con lo spettatore che cerca ossessivamente di interpretare ogni indizio e di costruire ipotesi alternative alla versione ufficiale dei fatti che anticipino il prossimo colpo di scena.
 E, alla fine, ovviamente, lo spettatore è appagato perchè i suoi sospetti sono stati tutti confermati. Questo semplice dettaglio dovrebbe confermarci che, in generale, questo film è di qualità non eccelsa, ma l'aspetto ludico continua ad avere la meglio e a farcelo comunque apprezzare per quell'enorme giocattolo cerebrale che è (e la cui stesura palesemente ha divertito moltissimo gli sceneggiatori). A ciò contribuiscono anche le colossali esagerazioni informatiche di software come Spartan o Ice-9, capaci di diffondersi attraverso la rete elettica o di accedere a qualunque computer senza neppure una tecnologia "bluetooth", tutte legittimate dalle continue citazioni a Kurt Vonnegut (scrittore famoso proprio per la sua fantascienza satirica).

 All'interpretazione volenterosa di Colin Farrell, la cui eterna espressione da cane bastonato triste è qui più azzeccata e necessaria che mai, si affianca la classica istrionia di Al Pacino, che delinea con la solita perizia un verboso istruttore della CIA capace di incarnare una figura paterna insieme a quella di un freddo docente e di un folle spietato e manipolatore.

 Regia e colonna sonora sono all'altezza degli obiettivi del film, onestamente coerenti e scrupolose, più interessate a creare un'atmosfera che a ricorrere agli effetti speciali o al sensazionalismo.

 Il ritmo della narrazione non perde colpi nel costruire la storia del protagonista e assemblare i tasselli di tutti gli inganni tessuti, e i dialoghi risultano credibili, definendo una caratterizzazione dei personaggi che (escludendo il protagonista, il cui punto di vista è quello più onesto della pellicola) appare convenzionale ma riesce a trarre in inganno lo spettatore quando serve.

Per quanto un impiegato della CIA, recensendo questo film, lo abbia definito "ridicolo" agli occhi suoi e di tutti i suoi colleghi, la sensazione che rimane dopo la visione del film è la stessa descritta da Morando Morandini, e cioè che la sceneggiatura abbia accontentato parecchie richieste provenienti da funzionari governativi.