mercoledì 27 novembre 2019

"World War Z" (2013)

 "World War Z" (2013), diretto da Mark Foster e basato sul romanzo di Max Brooks, è un film che mescola orrore, fantascienza, dramma, brivido e azione, e ha conseguito un notevole successo di critica e pubblico, grazie all'astuta formula commerciale con cui addomestica l'anarchico e deprimente mito degli zombi, riscrivendolo in un'amichevole chiave avventurosa da videogioco, molto compatibile con l'intrattenimento per famiglie.

Scheda di "World War Z" su wikipedia

 La fattura tecnica del film, professionale e curata nella regia, nella fotografia, nella recitazione, nelle tese musiche orchestrali ed elettroniche di Mark Beltrami, negli effetti speciali usati con sobrietà, nelle grandiose scene di massa, è un biglietto da visita che si accompagna a una narrazione scattante, dove l'azione si sviluppa quasi senza sosta, la suspense è sempre elevata (oppure compare di colpo per annientare i pochi momenti di tregua, che lo spettatore aveva accolto con gioia, invece che annoiarsi), i dialoghi sono di accurata chiarezza, la caratterizzazione è convenzionalmente solida, e soprattutto c'è un senso di partecipazione e immedesimazione che solo la caccia agli "indizi" (in questo caso, atti a capire come fermare l'epidemia) a fianco del protagonista può fornire.

 E' su questo versante che si cela sicuramente uno dei fattori che hanno decretato il successo del film: la sua impostazione palesemente consolatoria, dichiarata sin dal momento in cui Brad Pitt si presenta come protagonista della pellicola. Lo spettatore si sente fortemente rassicurato dal fatto che, per quanto la situazione si faccia sempre più tetra e disperata, l'eroe troverà sicuramente un rimedio l'epidemia degli zombi, non importa da quanti "porti sicuri" debba fuggire rovinosamente dopo che le loro protezioni si sono sfasciate.
 Come in un videogioco di qualità, lo spettatore se la gode un mondo, a saltare da uno scenario di orrore all'altro che sembrano proprio tratti dalle schermate di un'avventura virtuale (Philadelpia, un grattacielo di Newark, una base militare nella Corea del Sud, l'Israele fortificata, l'aereo di linea bielorusso, il centro di ricerca britannico), sapendo che per quanto ogni volta le cose vadano immancabilmente a rotoli sotto l'ondata inarrestabile di morti viventi, il protagonista riuscirà fortunosamente e intelligentemente a uscirne rocambolescamente vivo per il rotto della cuffia, acquisendo ogni volta un nuovo tassello del puzzle che deve ricomporre.

 Tutto quanto è da manuale, negli sviluppi della trama, studiata a tavolino per dare allo spettatore proprio ciò che desidera, in termini di intrattenimento, brivido e trovate risolutorie che lo fanno sentire così simile all'eroe sullo schermo. E' una narrazione gratificante, che solletica l'ego di ognuno di noi, raccontandoci l'illusoria fiaba della certezza di riuscire sempre a spuntarla e a sopravvivere contro qualunque avversità. Che differenza con la terrificante e cupa disperazione senza sbocco delle invasioni di zombi dei film di George Romero, dove l'aspra satira politica è seguita dall'annientamento senza speranza dell'umanità (e dei protagonisti), completamente priva delle capacità e delle risorse per contrastare l'invasione dei morti viventi.

 La visione scientifica della natura dell'epidemia (un misto di rabbia e influenza aviaria che fa il balzo da animali a uomini) contribuisce ulteriormente a confortare lo spettatore, eliminando il deprimente tono di incontrollabilità e incomprensibilità dell'origine soprannaturale degli zombi di Romero ("quando non c'è più spazio all'inferno... i morti camminano sulla Terra"): se è un virus o un'altra forma di infezione, infatti, ci deve essere un modo per fermarlo. Se è opera della natura, può essere compreso, e anche ingannato.

 Neutralizzata quindi la componente orrorifica del concetto di zombi, quella di natura psicologica e metaforica, perchè troppo angosciante e quindi indigesta al pubblico pagante e agli interessi di botteghino, ciò che resta è il puro intrattenimento spensierato, capace comunque di proporre molti momenti di genuina inquietudine per le situazioni disperate che si accavallano e si risolvono secondo uno schema ricorrente.
 Particolarmente memorabile è la rampa di corpi che gli zombi creano per scavalcare le (biblicamente simboliche) mura dell'Israele fortificata, dopo essere stati innescati dall'idiozia del gruppo di zeloti religiosi oltre le mura, i quali sentendosi al sicuro pensano bene di intonare un inutile e fragoroso inno religioso, con tanto di megafoni ad amplificare il suono, e questo nonostante sia chiaro a tutti che gli zombi trovano le loro prede seguendo anche il minimo suono con una determinazione e una pervicacia inarrestabili.

 La prospettiva globale della narrazione, oltre alle sfaccettature geopolitiche (notevole l'idea di come la Corea del Nord ferma l'epidemia con una operazione odontoiatrica di massa), esercita un fascino considerevole, e i consistenti fondi consentono di dare vita a numerose, esaltanti scene di massa ambientate in città di diversi continenti, invase da maree letterali di zombi, visualizzando il classico e sempre apprezzato elemento della fragilità su cui si basa la nostra "civiltà", la cui struttura frana istantaneamente sotto la spinta di una simile emergenza. Paradossalmente, anche questa visione ampia del fenomeno contraddice la soffocante claustrofobia dei film a basso costo di Romero, che si concentra su poche ambientazioni e tiene i personaggi all'oscuro della situazione mondiale, generando così un effetto di sconfortante e opprimente claustrofobia, assai difficile da metabolizzare se si desidera solo intrattenimento spensierato.
 Tra le situazioni da videogioco, quella finale e risolutoria dell'irruzione nell'ala infestata di un centro di ricerca britannico è sicuramente la più scoperta e dichiarata, coi suoi corridoi labirintici, gli zombi che spuntano ovunque, le trovate per distrarli e gli scontri "singoli".
 Come tutto il resto della pellicola, anche il finale si dimostra prevedibile, ma nello stesso tempo desiderabile: non c'è un solo spettatore che non lo abbia intuito e che non segua la vicenda con l'aspettativa di vederlo messo in pratica.
 Le caratterizzazioni da manuale dei personaggi sono l'ulteriore carta vicente del film: eroici guerrieri capaci di altruismo nel nome del bene comune, oppure freddi calcolatori che devono sacrificare le persone e le emozioni sull'altare della sopravvivenza del genere umano, tutti quanti sono però descritti come persone decenti, degne di rispetto e forse anche di ammirazione per la loro fortezza di spirito nel fronteggiare una crisi colossale, e per la competenza e capacità di agire sempre e comunque nel nome dell'umanità, e non per i propri meschini interessi personali (al contrario di ciò che accadrebbe nella realtà, e ancora una volta, si torna alla consolazione dello spettatore con una narrazione generosamente bugiarda).

 Dopo la visione del film, a riconferma della perizia tecnica con cui è stato confezionato, nello spettatore che si alza e si allontana dallo schermo resta impressa ancora a lungo nella mente la sensazione di dover incappare in uno zombi a ogni svolta del corridoio: è il risultato dell'ottima resa visiva degli zombi (in realtà persone infette), dei gemiti che emettono, dei loro movimenti innaturali, della ferocia frenetica con cui progredisce l'infezione nelle persone che vengono morse, dell'ossessività con cui gli zombi si scagliano contro ogni ostacolo o anche nel vuoto pur di agguantare altri esseri umani. E' un orrore di grande realismo, ma nello stesso tempo anche "ripulito" e algido, nettamente omologato per non causare quel livello di repulsione che è tipico dei film di Romero e dei suoi emuli e che finisce per allontanare una certa fetta di pubblico non appassionato.






venerdì 22 novembre 2019

"Looper" (2012) - "Looper - in fuga dal passato"

 "Looper" (2012), in Italia anche "Looper - in fuga dal passato", scritto e diretto da Rian Johnson, è un'efficace, lineare e intrigante rarità nel panorama della fantascienza cinematografica, incentrato sul delicato tema dei viaggi nel tempo.


 Elegantemente realizzato in termini di sceneggiatura, dialoghi, ritmo, regia, musiche e recitazione (di cui parleremo in seguito), questo film spicca soprattutto per l'argomento trattato, la competenza sul tema e il rispetto nei confronti di certi suoi illustri predecessori. In sintesi, un'azzeccata "trappola" per l'appassionato, ma anche per il non-iniziato, che viene condotto alla scoperta delle meraviglie della fantascienza nel più amichevole dei modi.

 Come già osservato per 12 Monkeys Army, un film hollywoodiano di fantascienza ben fatto e incentrato sui viaggi nel tempo è cosa rarissima, perchè i produttori finiscono sempre per rimbecillirne i contenuti e negarne la logica, timorosi che il pubblico sia così ritardato da non riuscire a comprenderlo.
 Naturalmente non esiste una vera logica dei viaggi nel tempo, semplicemente perchè non ci sono riscontri sperimentali (se non a livello quantistico) sul tema e tanto meno le tecnologie necessarie (o anche solo la matematica teorica). Esiste però una enorme produzione letteraria in cui talenti più o meno fini si sono scervellati sulle possibili meccaniche e sulla logica del viaggio nel tempo, e "Looper" ne ha letto le opere e ne fa tesoro, costruendo una trama che parte dal presupposto che il tempo si autocorregga, man mano che un viaggiatore altera il proprio passato, eseguendo aggiustamenti più o meno drastici anche sul corpo e la memoria del viaggiatore, ma concedendogli anche una certa autonomia nell'esistere comunque al di fuori del flusso degli eventi. Quest'ultimo dettaglio è il più importante e difficile da capire: per viaggiare nel tempo, un uomo deve potersi "astrarre" fisicamente dal proprio presente e separare dal flusso temporale: un simile risultato si ottiene solo se il viaggiatore si libera dal vincolo di causa ed effetto; possiamo dire che il viaggiatore è protetto da un campo  probabilistico che garantisce in parte la sua esistenza, anche mentre si trova nel passato, e a prescindere (in parte) dalle alterazioni che apporta alla storia.
 E' un concetto del tutto ipotetico, pura speculazione da appassionati, senza alcun riscontro, ma appaga il desiderio di logica e coerenza di chi ama la fantascienza. E' chiaro, esposto così? Oppure è spaventosamente cervellotico e macchinoso? E che effetto farebbe al pubblico, una simile spiegazione, in un film hollywoodiano?
 Probabilmente il pubblico la ignorerebbe, mentre i produttori terrorizzati farebbero di tutto per tagliarla.
 "Looper" supera brillantemente questo scoglio, eludendo i produttori e mostrando semplicemente gli effetti di questa teoria, lasciando alla fetta di spettatori arguti il piacere di ricostruirla da soli nella propria testa, senza scuotere dal torpore cerebrale il resto  della platea.

 Con un consapevole e dichiarato citazionismo, gli elementi dei paradossi temporali si susseguono con un tono solidamente classico, godendo di un'esposizione tanto succinta quanto efficace: il paradosso della predestinazione che si capovolge, il flusso temporale che si riscrive in base ai mutamenti apportati nel futuro, l'incontro tra il protagonista giovane e il protagonista anziano, le linee temporali divergenti che esistono finchè non si ricongiungono in un nodo (loop) inestricabile, la drammatica ed eroica soluzione finale da "nodo gordiano"... il tutto declinato tramite un Bruce Willis dai ricordi confusi, giunto dal futuro come gli accadeva "12 Monkeys Army", mentre la sua implacabile avanzata per  ammazzare un bambino prima che nel futuro divenga uno spietato capo criminale è quasi l'archetipo della serie cinematografica di "Terminator".

 In modo assai minore, ma comunque riconoscibile, anche Joseph Gordon-Levitt si auto-cita, ma al contrario: interpretando il protagonista Joe, delinea la figura del giovanotto immaturo, insensibile e avido di piacere e immediatezza che poi riproporrà in "Don Jon" (2013).

 Il contesto futuribile della narrazione, che si svolge nel 2044 e riceve visitatori dal 2074, getta nel calderone anche l'elemento delle mutazioni genetiche (una piccola fetta di popolazione nasce con un debole talento telecinetico: in apparenza un elemento per fare "colore fantascientifico", esso è invece fondamentale in termini di trama e risoluzione del mistero principale, dove conferisce alla vicenda un tono vagamente orrorifico (nel filone dei bambini maledetti).
 Ironicamente, il 2044 qui descritto è un futuro divenuto in breve tempo non più credibile. Non solo per il bassissimo livello personale di connessione digitale e di contaminazione cibernetica (rispetto a ciò che già avviene adesso, nel 2019), ma anche e soprattutto per l'assenza dalla narrazione dei crescenti stravolgimenti climatici, con tutte le loro conseguenze sociali e migratorie. E' però un futuro più che credibile in termini di aumento della popolazione povera e della pervasività del crimine organizzato, persino nelle aree rurali statunitensi in cui il film è astutamente ambientato (proprio per giustificare le carenze digitali e cibernetiche di cui sopra).

 Spostandoci a un livello più convenzionale di valutazione della pellicola, "Looper" è un film dalla regia lucida e competente, basato su una scrittura solida, logica e senza sbavature. La narrazione scorre come un meccanismo ben oliato, mentre esplora l'intreccio delle diverse linee temporali, i cronoparadossi e la miscela di disperazione e violenza del presente, mescolando la cerebralità di una fantascienza realistica all'azione e alla violenza grottesca ed esagerata dei "neri" urbani e hard-boiled. E' particolarmente felice e spiazzante la sequenza temporale che riassume gli eventi di una possibile linea temporale in cui Gordon-Levitt invecchia fino a divenire Willis, con un'operazione di trucco ed effetti speciali che ci convince che i due attori siano davvero la stessa persona in diverse epoche: se fino a questo momento il film è stato efficace e coinvolgente in termini di fascino cerebrale dell'affascinante contesto spaziotemporale che illustra con chiarezza, da qui in poi il film diviene invece coinvolgente a livello più viscerale, emotivo e intimo, perchè lo spettatore inizia a identificarsi con entrambi i personaggi, Joe Giovane e Joe Vecchio, comprendendo il punto di vista di entrambi e divenendo incapace di scegliere per chi parteggiare nella loro lotta per salvare ciò che hanno di prezioso nella vita.

 Bruce Willis interpreta quasi se stesso, nel proporre il classico personaggio dell'uomo d'azione (veramente qui un sicario) che è stanco e solo e ha perso tutto, ma non vuole mollare.
 Gordon-Levitt è perfettamente a suo agio nei (soliti) panni del "fighetto" arrogante e scattante, elegante e agile, che si sposta senza fatica dalla vita godereccia dei night-club agli ammazzamenti a comando, dai quartieri della malavita organizzata alla tranquillità della casa in campagna dove lo attende una seducente e volitiva Emily Blunt (impegnata nel solito ruolo della donna vedova con figlioletto, che diventa una tigre per difenderlo, e tira fuori la grinta e fa tutto ciò che farebbe un uomo nel mandare avanti una sterminata coltivazione di granturco da sola).

 Come la fotografia è scrupolosamente corretta e professionale nell'illustrare le periferie urbane decadute e la campagna automatizzata, così anche la colonna sonora si impegna per produrre veloci  musiche tecno-urbane in cui mescola la freddezza "industriale" e certi ritmi vagamente tribali, con cui sottolinea la regressione dell'umanità (nel suo insieme) in questo futuro per nulla distopico.

 La risoluzione narrativa del film merita probabilmente una nota a parte, sfiorando il rischio di rovinare la sorpresa. In essa si mescolano logica, coerenza, eroismo, nobiltà e sacrificio, quando Gordon-Levitt porta immancabilmente alla maturità il proprio personaggio, chiudendo il cerchio ("loop") in tutti i sensi, dalla crescita personale al paradosso temporale, fino alla risoluzione dei destini che incombevano sui comprimari: è letteralmente l'epica fantascientifica, riassunta fulmineamente in un solo, emozionante gesto minimalista.

lunedì 11 novembre 2019

"Southbound" (2016) - "Southbound - Autostrada per l'inferno"

 "Southbound" (2016), in Italia "Southbound - Autostrada per l'inferno", diretto da un gruppo di registi e scritto da diversi sceneggiatori, è un misconosciuto ma eccellente film dell'orrore "d'autore" (anzi, di autori), con una classica struttura apparentemente antologica, in omaggio a storici programmi televisivi come Twilight Zone e Tales From the Cript, corroborata da una ricchezza di livelli di lettura da renderlo un'esperienza totalmente appagante e nettamente da non perdere.

Scheda di "Southbound" su wikipedia.

"The Way Out"
"Siren"
"The Accident"
"Jailbreak"
"The Way In"

 Cinque diversi episodi, ognuno dei quali si conclude innescando il successivo, raccontano fulminanti storie in cui il protagonista si trova in viaggio su una interminabile strada sperduta nel nulla (ma immancabilmente diretta a sud) di un qualche deserto degli Stati Uniti. Gli elementi tipici sono tutti presenti: desolate stazioni di servizio in cui gli indigeni trascorrono fiaccamente una giornata vuota, abitazioni isolate in cui vivono famiglie eccentriche, borghi squallidi dove gente abbrutita trascorre le giornate in bar fatiscenti, personaggi disadattati e loschi che "sanno" cose ignote ai viandanti di passaggio. E, soprattutto, l'emersione improvvisa o la presenza strisciante del soprannaturale, del macabro e del depravato, tutti declinati in maniera sobria e intelligente, persino quando si tratta di scene sanguinolente, di violenza o di mostruosità demoniaca esplicita. Tra gli elementi che si ripetono occasionalmente, in maniera sottile, emerge un filo conduttore, che tocca immancabilmente un passato atto di violenza commesso proprio da uno dei protagonisti

 Ogni regista racconta l'orrore a modo proprio, ma gli stili e il genere orrorifico dei diversi episodi si amalgamano in modo inatteso, e soprattutto incisivo, nella sua secchezza nitida e penetrante. Le  atrocità sono abilmente centellinate (di fatto più sconvolgenti in termini psicologici che visivi) e le singole vicende si concludono con un crescente senso di incompletezza (da dove venivano i personaggi? Cos'è accaduto nel loro passato? Dove sono andati i superstiti? Qual è la natura dei mostri alati che ricorrono in ogni episodio?) che è ciò che instilla il vero orrore nella mente dello spettatore, perchè esso sopravvive ai titoli di coda e resta a tormentarlo sullo sfondo della consapevolezza, proprio come una delle creature fluttuanti che sorvegliano i protagonisti.
 Come capita sempre coi film ben realizzati, infatti, la loro efficacia si rivela dopo la visione, quando ci si ritrova a ponderarne gli elementi notati solo di sfuggita, che magari erano stati liquidati come secondari, ma che dopo la visione complessiva dell'opera acquistano un nuovo significato e valore: "Southbound" fa proprio questo effetto, prima nella ricostruzione delle singole storie dei protagonisti partendo dai pochi indizi sul loro (violento) passato, poi trovando il sibillino filo conduttore che connette tutti gli episodi e fornisce la chiave di lettura complessiva del film, scartando finalmente tutte le ipotesi formulate durante la visione dei singoli episodi.

 Il lavoro di riflessione e ricostruzione è coinvolgente quanto gli episodi del film stesso, perchè ci si ritrova a partecipare sotto una diversa ottica a una serie di vicende in cui ci si era già immedesimati a livello istintivo (come si può non fare il tifo per l'unica delle tre musiciste, ospiti di una accogliente e solitaria coppietta, ad accorgersi che la cena è a base di carne umana, e che la coppietta agisce secondo un sinistro piano?), e questa volta si riesce anche a tirarne le fila, godendo non solo del livello narrativo immediato, ma anche di quello più intellettuale che vi è stato profuso.

 Tecnicamente variegato ma sempre ben diretto, parco nell'uso degli effetti speciali, con una colonna sonora ridotta al minimo e molto d'atmosfera, il film punta su un equilibrato connubio di immagine e dialogo per costruire situazioni che colpiscano sia a livello emotivo primordiale sia a livello intellettivo, mantenendo costanemente i personaggi (e lo spettatore) sul confine tra l'istinto e la ragione, consapevoli che un solo passo falso può costare la vita.

 Gli attori sono tutti ragionevolmente sconosciuti, tanto che in certi casi sono anche regista e sceneggiatore (per esempio, Matt Bettinelli-Olpin), e la sensazione generale che se ne ricava è quella di una produzione indipendente, di nicchia, magari con stanziamenti abbastanza ridotti, ma tenacemente e intelligentemente realizzata, con maggiore attenzione alla qualità e all'aspetto artistico, che non al botteghino.


 Il resto di questo commento è da leggere solo dopo aver visto il film.

 Il vero significato di "Southbound"

 L'ispirazione per la trama viene da "Carnival of Souls" (1964), un film che dentro "Southbound" compare ripetutamente sui televisori, a diretta conferma della vera chiave di lettura del film: l'autostrada e il deserto sono rispettivamente il purgatorio e l'inferno.
 I mostri volanti, che compaiono in ogni episodio, magari anche solo brevemente, sono angeli (o demoni) il cui scopo è tormentare/punire le anime dei peccatori. Per fare ciò, assumono aspetto umano, inscenando le situazioni dei vari episodi, allo scopo di far rivivere all'anima peccatrice una situazione in cui le sia ricordato il suo peccato.
 In certi casi, sembra che alle anime sia data la scelta di comportarsi diversamente, e quindi di pentirsi e redimersi: è probabilmente ciò che accade nell'episodio "The Accident", quando il protagonista decide di fermarsi a soccorrere la donna che ha investito, facendo di tutto per salvarle la vita, e ricevendo un'assoluzione a fine episodio dopo aver patito a sua volta orribilmente.
 In altri casi, le anime sono prigioniere di una possibile ciclicità, come suggeriscono con forza  gli episodi collegati di "The Way In" e "The Way Out": non solo perchè sono collocati a inizio e fine del film, e il secondo episodio fa da prologo al primo, ma anche per l'esplicita scena in cui, fuggendo per la strada, i due protagonisti tornano sempre alla stessa stazione di servizio, finchè uno dei due non decide di affrontare le creature fluttuanti che li inseguono, ma senza essersi pentito degli omicidi commessi.
 A questo luogo metafisico è possibile accedere anche fisicamente: il protagonista di "Jailbreak" arriva fin lì per liberare la sorella, colpevole di aver ucciso i genitori, spara agli angeli/demoni dicendo "Non so se posso uccidervi, ma di certo questo deve farvi un gran male", svela alcuni dei segreti relativi alla facciata di questi luoghi desertici, e infine commette l'errore di abbandonare la strada asfaltata, cadendo nelle mani delle vere anime dannate, quelle dell'inferno che non prevede espiazione, che lo dilaniano.

domenica 3 novembre 2019

'71 (2014)

 '71 (2014), diretto e concepito da Yan Demange con sceneggiatura di Gregory Burke, è un film di guerra ambientato a Belfast, nel 1971, durante il cosiddetto Conflitto Nordirlandese.

 Separato dal proprio plotone durante un'operazione di assistenza alla Polizia nei quartieri dei Cattolici Indipendentisti di Belfast, un giovane soldato inglese viene aggredito dalla folla, e deve poi sopravvivere a una lunga notte di violenza e inganni, durante la quale deve fare i conti anche con le inconfessabili connivenze tra le forze in campo. Gli assassini della Provisional IRA (Irish Republican Army) lo braccano, mentre la britannica MRF (Military Reaction Force) vorrebbe recuperarlo e riportarlo a casa, ma nello stesso tempo deve occultare i propri metodi brutali con cui manipola il conflitto. Sulla strada, civili di entrambe le fazioni cercano di aiutarlo, ma finiscono per pagare tragicamente le loro scelte.

 Eufemisticamente chiamato "the troubles" (i disordini), il conflitto nordirlandese è stato invece una guerra civile che ha insanguinato l'Ulster per alcuni anni, vedendo contrapporsi i cattolici (che volevano riunirsi all'Irlanda) e i protestanti (invece fedeli al Regno Unito). Pur essendo l'ultimo di una lista di autori che se ne sono occupati, il regista Demange lo racconta a modo suo, con una compassata e analitica narrazione a più livelli, che ruotano tutti intorno al simbolico giovane soldato in fuga che viene travolto dalla mostruosità scatenata dai suoi simili.
 Con un tono aspro e duro, ma anche asettico come un documentario storico, il film illustra le dinamiche della guerra civile dell'Ulster, senza mai schierarsi, tenendosi lontano dalle ideologie, descrivendo con agghiacciante schiettezza i crudi fatti, ma soprattutto l'abietto cinismo e il cieco fanatismo ipocrita che animano i capi e gli attivisti di entrambi gli schieramenti.
 Con una cinepresa a mano che insegue il protagonista e si agita forsennatamente, e con una sceneggiatura incalzante che non si ferma neppure davanti alle scene più allucinanti, il film è una vicenda di tensione e azione,  intrisa di un realismo brutale e sporco, con inseguimenti (a piedi), sparatorie, tranelli, bombe artigianali che esplodono quando non devono, e soprattutto personaggi che incarnano le persone comuni; quelle che, nella violenza, restano ferite, sanguinano, soffrono e arrancano.
 Con un'accortezza da esperto tessitore di trame politiche, il film delinea progressivamente, soprattutto in maniera visiva, il divario tra i puri e ingenui (come il tenente Armitage dell'esercito, o l'ufficiale anziano Boyle dell'OIRA) e gli sprezzanti pragmatici che detengono il vero potere (Browning della RMF, e Quinn della PIRA) a costo della morte dei loro stessi seguaci.
 Con una narrazione compatta e solida come le case popolari del quartiere cattolico di Belfast, spesso abbandonate e degradate, ma capaci anche di svelare ambienti interni in cui qualcuno si impegna inutilmente per conservare una traccia di decenza e di umanità, il film trova sempre i momenti giusti per soffermarsi a indagare sulla personalità del protagonista (come quando il soldato si ferma a osservare in silenzio la brutalità della RUC, la polizia protestante, su donne inermi) o a esporre le amare conclusioni personali del regista (l'ex medico militare irlandese che ricuce le ferite del soldato gli spiega che a nessuna delle organizzazioni militari in lotta importa alcunchè della vita dei giovani che manda in campo a combattere, e tanto meno del loro futuro).
 Ed è quest'ultima osservazione la chiave di lettura dell'interno film che riprende e unifica tutte le precedenti, trasformandole in strumenti per giungere a una disincantata e sconsolata analisi della storia umana.
 L'idealismo (incarnato dal fallimentare tenente britannico Armitage) sulla lunga distanza è sempre destinato a fallire.
 Qualche idealista potrà di tanto in tanto ottenere un qualche posto di rilievo, ma sarà sempre una "preda", e finirà per essere stritolato dall'altra categoria umana, i "predatori", cioè gli psicopatici, incapaci di empatia, per i quali contano solo l'appagamento personale, e le cui caratteristiche li porranno sempre in cima alla catena di comando, perpetrando in eterno il ciclo di sfruttamento e sofferenza dei loro simili (ma sono davvero "simili"?).
 Chi nella vita esita ad approfittarsi degli altri, in nome dell'umanità (il "terrorista" della PIRA, Bannon, che per due volte non se la sente di sparare al soldato, e finisce quindi ammazzato da un poliziotto britannico), è destinato a essere sbranato dai suoi stessi simili.
 In guerra, non c'è mai un'ideologia "buona", ma solo interessi contrapposti che manipolano le masse, spingendole a immolarsi in una lotta dove a vincere è il profitto dei potenti.
 Credere di poter cambiare il mondo, o di poter migliorare la vita a qualcuno impegnandosi pubblicamente, è un'illusione; per l'uomo, c'è consolazione e salvezza solo nei propri affetti privati.

 La fattura tecnica del film è coerente con gli obiettivi della narrazione, cui contribuisce con un'ammirevole compattezza di visione e intenti: l'immagine mossa e sporca; la fotografia a volte sgranata come quella degli anni 1970; le architetture desolate e ottusamente brutte dei quartieri popolari di Belfast; la ricostruzione credibile di abbigliamento, accessori e persino la moda dei tagli di capelli di quel periodo; il sonoro aspro; i dialoghi scabri come schegge di vetro; le musiche scarne, opprimenti, più simili a suoni di guerra o di battiti cardiaci che a musica.

 A contribuire al tono verista e spietato del film c'è anche la scelta degli attori, che rafforzano l'impressione costante di assistere a un documentario incentrato su persone reali: sono tutti quanti di solido talento, ma nello stesso tempo sconosciuti, o quasi; e in particolare, alcuni sono considerevolmente e realisticamente brutti, come vuole lo stereotipo sugli abitanti del Regno Unito.
 Barry Keoghan, che interpreta il giovane assassino recalcitrante, compare curiosamente in ruoli simili nel film "Dunnkirk" e nella miniserie tv "Chernobyl",  accomunati a questo film per il tema della ricostruzione della storia recente e il tono sobriamente amaro con cui raccontano le vicende di persone che fanno del loro meglio per essere decenti e sopravvivere. 
 Jack O'Connell, che interpreta il protagonista, è probabilmente il personaggio principale con meno battute del film, e quindi affronta (con notevole successo) l'immane compito di raccontare col solo silenzio lo spaesamento, la paura, la sofferenza, la disperazione, la determinazione e l'umanità del giovane soldato in fuga a Belfast (curiosamente, O'Connel, di padre irlandese, interpreta un personaggio originario, come lui, del Derbyshire). L'intensità di O'Connell è la stessa con cui lo spettatore, man mano che si immerge nella trascinante narrazione, scopre e vive questa tetra parabola dell'esistenza, giungendo alle suddette conclusioni, comuni a tutta l'umanità.
 Nonostante il finale apparentemente positivo, la lucida e sobria amarezza del sincero pessimismo narrativo di questo film si imprime nella mente come sola verità del conflitto nordirlandese. Ma, soprattutto, dopo l'inevitabile riflessione che un film del genere è destinato a ispirare, essa si rivela essere la sola verità nel rapporto tra l'essere umano e la società in cui vive, ogni qualvolta emerga un conflitto di qualche natura. Non c'è speranza per nessuno?