"No Country For Old Men" (2007), in Italia “Non è un paese per vecchi”, film di Joel ed Ethan Coen stracelebrato e pluripremiato, è un
ibrido tra il noir (una sfilza di violenti ammazzamenti a cui non si
può porre freno, personaggi squilibrati e cupi che si scontrano e si
inseguono restando sempre prigionieri della loro caratterizzazione
unidimensionale, una opprimente brutalità che avvolge tutto in un manto
di pessimismo e sfiducia nell’uomo, personaggi patetici e impotenti di
contorno che tentano invano di arginare la violenza e ne vengono
travolti o annichiliti) e il western aggiornato (il territorio di
confine tra USA e Messico, nell’epoca degli anni 1980, in cui infuriano
scontri tra bande di trafficanti di droga delle due sponde).
I
primi quaranta minuti sono interessanti e coinvolgenti, nonostante la
scarsa originalità dei personaggi. La vicenda è incentrata su una
"caccia del gatto al topo", scatenata dalla usurata figura
narrativa dell’assassino a pagamento (Javier Bardem) che impazzisce e diventa un
inarrestabile flagello per il gruppo di personaggi principali di questa
narrazione corale; il suo bersaglio è uno zoticone cocciuto (Josh Brolin), il cui
destino è prevedibile fin dall’inizio; l’anziano sceriffo (Tommy Lee Jones) che li insegue
senza mai raggiungerli ha il ruolo di macinare banalità da vecchietto
che guarda sconsolatamente un cantiere, usando la filosofia spicciola
per sopportare un mondo che chiaramente non può cambiare né frenare.
In seguito, la galoppata del film perde vigore e comincia a girare a vuoto, avendo rivelato che la tensione
narrativa iniziale sfruttava uno schema narrativo effettistico che si
ripropone con continui ritocchi cosmetici (a livello di tecnica
narrativa) atti a celare questo autoriciclo narrativo, Altri personaggi immorali
di contorno entrano in scena in pompa magna solo per essere spazzati via
poco dopo. Le pretenziose riflessioni sul fato e la necessità si ripetono stancamente, senza andare a parare da nessuna parte. Il finale anticlimatico, invece di stupire,
strappa uno sbadiglio, mentre indugia senza scopo e si dilunga intorno a tre
personaggi che non hanno più alcunchè da offrire (lo zoticone e sua moglie, quasi priva di personalità fino
all'ultimo; l’assassino la cui personalità rimane incomprensibile; lo
sceriffo, sempre meno interessato alla vicenda e sempre più preso da inutili ricordi di giovinezza); e, soprattutto, insiste a
ribadire ciò che era già stato palesato e che lo spettatore non ha alcun interesse a sentire di nuovo.
Ma forse l’interesse
degli autori non è rivolto all’esile trama e ai piatti personaggi,
quanto a ottenere una impeccabile esecuzione tecnica di regia, fotografia, sonoro
(la colonna sonora quasi non esiste), effetti speciali, virtuosismi
creativi della violenza degli ammazzamenti, citazionismo
cinematografico: un esercizio di stile che risulta quindi eccezionale
per i cinefili, ma può apparire pretenzioso e fine a se stesso ai
profani che si aspettavano un altro tipo di sostanza, invece
della impalcatura pseudofilosofica che si sono trovati davanti (e
soprattutto che impiega due ore per dire sempre la stessa cosa). Serviva
davvero questa interminabile metafora per spiegarci che la nostra società continua a
incattivirsi e degradare, specialmente nelle zone di confine dove vive
chi non ce l’ha fatta e non può godersi il lusso e i benefici di abitare
tra gli agi e i servizi delle grandi città?
Dopo i titoli di coda, quando i giochi sono chiusi, lo spettatore si accorge che c'è una sola cosa che gli resta impressa, di questo pretenzioso film che vorrebbe (?) discettare di morale ed
etica, e questa cosa è la logica conseguenza che si deve trarre dalla sequenza iniziale: se lo zoticone non
avesse ceduto all'unico impulso di umanità presente in tutta la vicenda, sarebbe
riuscito a farla franca e a scappare con i soldi.
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