martedì 15 ottobre 2019

"No Country for Old Men" (2007)

 "No Country For Old Men" (2007), in Italia “Non è un paese per vecchi”, film di Joel ed Ethan Coen stracelebrato e pluripremiato, è un ibrido tra il noir (una sfilza di violenti ammazzamenti a cui non si può porre freno, personaggi squilibrati e cupi che si scontrano e si inseguono restando sempre prigionieri della loro caratterizzazione unidimensionale, una opprimente brutalità che avvolge tutto in un manto di pessimismo e sfiducia nell’uomo, personaggi patetici e impotenti di contorno che tentano invano di arginare la violenza e ne vengono travolti o annichiliti) e il western aggiornato (il territorio di confine tra USA e Messico, nell’epoca degli anni 1980, in cui infuriano scontri tra bande di trafficanti di droga delle due sponde).


 I primi quaranta minuti sono interessanti e coinvolgenti, nonostante la scarsa originalità dei personaggi. La vicenda è incentrata su una "caccia del gatto al topo", scatenata dalla usurata figura narrativa dell’assassino a pagamento (Javier Bardem) che impazzisce e diventa un inarrestabile flagello per il gruppo di personaggi principali di questa narrazione corale; il suo bersaglio è uno zoticone cocciuto (Josh Brolin), il cui destino è prevedibile fin dall’inizio; l’anziano sceriffo (Tommy Lee Jones) che li insegue senza mai raggiungerli ha il ruolo di macinare banalità da vecchietto che guarda sconsolatamente un cantiere, usando la filosofia spicciola per sopportare un mondo che chiaramente non può cambiare né frenare.
 In seguito, la galoppata del film perde vigore e comincia a girare a vuoto, avendo rivelato che la tensione narrativa iniziale sfruttava uno schema narrativo effettistico che si ripropone con continui ritocchi cosmetici (a livello di tecnica narrativa) atti a celare questo autoriciclo narrativo, Altri personaggi immorali di contorno entrano in scena in pompa magna solo per essere spazzati via poco dopo. Le pretenziose riflessioni sul fato e la necessità si ripetono stancamente, senza andare a parare da nessuna parte. Il finale anticlimatico, invece di stupire, strappa uno sbadiglio, mentre indugia senza scopo e si dilunga intorno a tre personaggi che non hanno più alcunchè da offrire (lo zoticone e sua moglie, quasi priva di personalità fino all'ultimo; l’assassino la cui personalità rimane incomprensibile; lo sceriffo, sempre meno interessato alla vicenda e sempre più preso da inutili ricordi di giovinezza); e, soprattutto, insiste a ribadire ciò che era già stato palesato e che lo spettatore non ha alcun interesse a sentire di nuovo.

 Ma forse l’interesse degli autori non è rivolto all’esile trama e ai piatti personaggi, quanto a ottenere una impeccabile esecuzione tecnica di regia, fotografia, sonoro (la colonna sonora quasi non esiste), effetti speciali, virtuosismi creativi della violenza degli ammazzamenti, citazionismo cinematografico: un esercizio di stile che risulta quindi eccezionale per i cinefili, ma può apparire pretenzioso e fine a se stesso ai profani che si aspettavano un altro tipo di sostanza, invece della impalcatura pseudofilosofica che si sono trovati davanti (e soprattutto che impiega due ore per dire sempre la stessa cosa). Serviva davvero questa interminabile metafora per spiegarci che la nostra società continua a incattivirsi e degradare, specialmente nelle zone di confine dove vive chi non ce l’ha fatta e non può godersi il lusso e i benefici di abitare tra gli agi e i servizi delle grandi città?
 Dopo i titoli di coda, quando i giochi sono chiusi, lo spettatore si accorge che c'è una sola cosa che gli resta impressa, di questo pretenzioso film che vorrebbe (?) discettare di morale ed etica, e questa cosa è la logica conseguenza che si deve trarre dalla sequenza iniziale: se lo zoticone non avesse ceduto all'unico impulso di umanità presente in tutta la vicenda, sarebbe riuscito a farla franca e a scappare con i soldi.

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