giovedì 10 ottobre 2019

"Bad Times at the El Royale" (2018)

 "Bad Times at the El Royale" (2018), in Italia "7 sconosciuti a El Royale", è un film che viene classificato come thriller drammatico.

  Fortemente ispirato all'opera di Quentin Tarantino (ormai padre di uno stile che è anche un genere, a prescindere dall'epoca dell'ambientazione) e consapevole anche dei lavori di David Lynch, questo film racconta le vicende di alcune persone le cui vite si incrociano durante il 1969 all'El Royale, un hotel che sorge esattamente sopra il confine tra California e Nevada (ed è opportunamente suddiviso in tutta la sua lunghezza da una linea rossa di demarcazione che i personaggi normalmente scavalcano senza calpestare): ognuna di queste persone ha un qualche segreto che ne guida le azioni, e che la porta a intrecciare il proprio percorso con quello degli altri, in maniera a volte sordida, spesso sanguinosamente violenta e infine persino catartica.
 In realtà, nel discutibile titolo italiano si dovrebbe parlare di otto personaggi, dato che l'albergo, come tutti loro, è in decadenza e ha due volti, dietro i quali nasconde morbosi segreti che si sveleranno progressivamente e segneranno la sua distruzione (curiosamente però gli autori non danno alcuna rilevanza a questo aspetto, nè lo fa la critica).

  Il film ha tra i suoi punti di forza un'elevata cura della forma, uno stanziamento economico sostanzioso che ha permesso di dare vita alle lussuose scenografie anni 1960 dell'El Royale, una sceneggiatura abilmente calcolata per far combaciare con grande cura tutti i segmenti narrativi, una regia e un montaggio astuti che seguono alternatamente ogni personaggio, avendo cura di evidenziare e collegare gli incastri e le connessioni che si creano col procedere della narrazione, e infine una prima metà del film composta da piani temporali più o meno sfasati che catturano l'attenzione dello spettatore, spingendolo a elaborare attivamente la narrazione.

  Sebbene sia un prodotto gradevole, la pellicola soffre anche di alcuni difetti che emergono già durante la prima visione: l'atmosfera narrativa alla Tarantino sa di già visto; il meccanismo degli sconosciuti che si incontrano in un luogo particolare che fa emergere i loro segreti è usurato sin dai tempi del telefilm "Lost" (e in alcune scene a effetto sembra di vedere una delle tante serie di "American Horror Story", quasi si trattasse solo di un telefilm portato sul grande schermo con dispendio di mezzi); i personaggi sono interessanti solo finchè i loro segreti non cominciano a dipanarsi; la narrazione corale a singhiozzo fa presa finchè non diventa lineare e unificata (e ovvia); le tematiche degli anni 1960 (Nixon, la guerra in Vietnam, la CIA di J. Edgar Hoover, il fermento civile delle minoranze) sono ormai state elaborate e sviscerate fino alla nausea, dato che praticamente ogni regista statunitense si sente in dovere di dire la sua in merito, ogni anno, ormai da decenni.
 Il freddo metodo calcolatore è però il maggior punto debole del film: la sceneggiatura non riesce a dissimulare fino in fondo gli stereotipi modaioli odierni, inseriti appositamente per compiacere la tendenza del momento e assicurarsi quindi riconoscimenti della critica basati sull'ideologia e non sulla qualità, nonchè candidature dovute alle quote obbligatorie e non al talento degli attori. E' con una certa noia che lo spettatore nota che nella trama cinicamente "nera" c'è un solo personaggio totalmente positivo, che è la prevedibilissima quota femminile di colore (vittima delle discriminazioni di gente malvagia, e caratterizzata con profonda umanità e mancanza di difetti, che la rendono perfetta), mentre il male assoluto è incarnato dall'immancabile maschio bianco eterosessuale (Chris Hemsworth, santone a capo di un culto che rifiuta le religioni organizzate, si rivela un inetto, fragile, violento, manipolatore, infido e avido di sesso e denari e potere): quante altre volte ci è già stato rifilato questo schema così trito, manicheo e schierato? A poco serve che ci siano personaggi di contorno che in apparenza mitigano questo contrasto, perchè la sceneggiatura, a un certo punto, deve per forza di cose giungere al dunque e lo può fare solo mettendo questo schema in primo piano, imponendolo come chiave di lettura di tutta la vicenda e tradendo il proprio oppportunismo.

  La recitazione di Jeff Bridges (ladro che si finge un prete, ed è pure vittima del morbo di Alzheimer) è sicuramente la migliore del reparto degli attori, anche per via dell'ottimo ruolo non ideologico che gli è toccato.
 Lewis Pullman è simpatico ed efficace nel suo triste ruolo di concierge ed ex soldato nella guerra del Vietnam, con tutta la ghirlanda obbligatoria di traumi nel fardello, e inatteso quanto godurioso riscatto finale in cui il suo addestramento riemerge in tempo per fare una esaltante strage degli scagnozzi armati della setta.
 Dakota Fanning è tanto bella quanto sottoutilizzata, nel suo imbarazzante ruolo stereotipato fino al dilettantismo, che gli autori utilizzano per compiacere un certo pubblico, ma che non sanno minimamente come gestire o valorizzare: chi non ha visto almeno 35 volte la figura (inesistente) della ragazzina volitiva e tosta che, per salvare la sorellina dal padre manesco, diventa dura e spietata e imbraccia le armi e combatte il mondo intero?
 Volenterosi e in linea coi personaggi tutti gli altri attori, compresa la quasi-beatificata Cynthia Erivo, che, essendo una cantante, e non un'attrice, si limita a ripetere i testi agiografici che le hanno messo in bocca e a sfoderare un repertorio di espressioni adeguato, che va da "sono una quote con una grande umanità" a "io prego dio perchè ho paura".

  Gradevole colonna sonora, con molte obbligatorie incursioni nella musica dell'epoca, nonchè una sfilza di interminabili canzoni cantate da Erivo, delle quali una risulta veramente valida in termini di narrazione, mentre le altre sono minutaggio in più per un film già fin troppo lungo (e no, il fatto che lo faccia Tarantino non autorizza i suoi emuli a fare altrettanto).

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