martedì 10 dicembre 2019

"Vantage Point" (2008) - "Prospettiva di un delitto"

 "Vantage Point" (2008), in Italia "Prospettiva di un delitto", diretto da Pete Travis su soggetto di Barry Levy,  non è certo un giallo come il titolo nostrano lascerebbe credere, ma invece un film d'azione con una costruzione narrativa atipica  e una verniciatura "politica" ed edificante, volenterosamente onesta, ma abbastanza superficiale.


 A Salamanca, in Spagna, il presidente USA interviene a un convegno sulla guerra al terrorismo, ma è oggetto di attentato durante il suo discorso al pubblico nella Plaza Mayor. Tutto ciò accade nei primi minuti di film, sotto gli occhi di una produttrice tv che coordina le riprese per la copertura mediatica dell'evento. Da quel momento, la narrazione si "riavvolge" per cinque volte, ripercorrendo gli eventi secondo l'ottica sempre diversa di vari personaggi: il problematico veterano, agente della sicurezza del presidente USA; il presidente USA stesso; il buon poliziotto spagnolo sotto copertura; il generoso e umano turista statunitense; il terzetto di terroristi a capo dell'operazione.
 Ogni sequenza svela nuovi aspetti dell'attentato, ma soprattutto fa cadere le maschere di doppiogiochisti e infiltrati vari, finchè le fila di tutti i personaggi non si riannodano nel presente e la storia riparte, prendendo un'estenuante piega da film d'azione, con un interminabile inseguimento a colpi di utilitarie europee. In un meccanismo a orologeria ben studiato dal punto di vista drammatico, ma fortemente basato sulle coincidenze dal punto di vista logico, la fragorosa risoluzione è conseguenza indiretta di eventi che proprio l'attentato iniziale ha scatenato.

 Dal punto di vista dell'intrattenimento, questo film funziona molto bene: personaggi con le facce giuste, narrazione serrata, gioco dei flashback che coinvolge per via dei nuovi indizi che vengono progressivamente svelati, linearità narrativa, spettacolarità dell'azione (la devastazione causata dalle esplosioni di due bombe), emozioni che sconvolgono ma che sono mediate da personaggi forti e rassicuranti nel loro nobile eroismo, coinvolgente meccanismo di interconnessioni e incastri, buoni sentimenti, retorica patriottica statunitense camuffata, e la rassicurante promessa che il bene (gli USA) vince sempre sul male (i terroristi).

 Ma il meccanismo "sperimentale" dei flashback multipli, da alcuni paragonato alla tecnica dello storico film "Rashomon" di Akira Kurosawa, spinge anche lo spettatore a riflettere sulla struttura della narrazione, e a notare i difetti non da poco che alla prima visione erano fuggiti alla mente conscia, troppo distratta dal concitato incalzare degli eventi e dalla voglia di dipanare subito la matassa narrativa.
 L'ingerenza delle coincidenze.
 Troppe cose capitano nel momento giusto, nello sviluppo della trama, specialmente nelle scene di inseguimento in cui l'inseguitore di turno viene seminato, ma per puro caso compie sempre la scelta giusta per tornare sulla pista del terrorista.
 La dimensione geografica di Salamanca è incomprensibile: nonostante il labirinto di strade in cui avviene l'inseguimento principale, le automobili come i personaggi appiedati arrivano tutti "al sottopassso dell'autostrada" nello stesso istante utile. O a Salamanca ci sono troppe scorciatoie, oppure tutte le strade portano al sottopasso.
 La fiera degli stereotipi.
 Il nobile presidente USA che decide di non contrattaccare (bombardando un villaggio in Medioriente) ma di dare un segnale di forza con la volontà di pace, non va neanche commentato: gode di meno credibilità che tutte le dette coincidenze messe insieme.
 Il turista nero è un luogo comune vivente: il bonaccione statunitense che, col suo gran cuore, salva tutti quanti; anche se è un anziano in sovrappeso, macina chilometri e chilometri di corsa per arrivare in tempo al sottopasso, senza neppure un doloretto alla milza; anzi, ha ancora il fiato per tuffarsi e salvare la bambina senza la madre.
 La bambina senza la madre, vittima dell'insensata violenza dei terroristi, è il simbolo dell'innocenza violata, parecchio telefonato. Ed è pure l'elemento catartico finale che ferma i malvagi. Un po' troppo.
 Il terzetto di terroristi, tra cui un improbabile doppio agente che ha militato per anni nella sicurezza presidenziale statunitense, è cattivo e basta: il loro scopo è tradire e uccidere perchè la guerra infurii per sempre. E che senso ha?
 Come se non bastasse, questi terroristi sono spietati assassini che sparano, ammazzano, piazzano bombe, torturano. Però frenano se una bambina gli attraversa la strada mentre viaggiano su un'ambulanza con a bordo il loro prigioniero. (Volendo, questo dettaglio, derivante dal brevissimo contatto visivo che il terrorista aveva stabilito con la bambina poche ore prima, in un bar, si riallaccia al generale discorso di riscoperta dell'umanità fondamentale delle persone che questa pellicola sembra portare avanti: anche la produttrice televisiva, cinica e serva del potere, mostra un lato umano quando prende dolorosamente atto della morte della giovane inviata, con cui aveva avuto un diverbio sugli argomenti "politici" e "scomodi" che bisognava omettere dal servizio televisivo).

 Regia e fotografia sono tipicamente da Hollywood: giustamente spettacolari; molto attente a esaltare l'urbanistica della città con ariose inquadrature aeree; maniacali nel descrivere lo spericolato inseguimento automobilistico; attente ai dettagli della narrazione; abili nel descrivere il caos che segue l'attentato e le esplosioni, evidenziando con le diverse scene soggettive quanto uno stesso fatto possa essere oggetto di più interpretazioni ed equivoci. L'ambientazione spagnola è sempre convincente, sebbene Salmanca non sia proprio Salamanca (le scene della piazza sono state girate in Messico).

 Tra gli attori, spicca la presenza di Sigourney Weaver, forse perchè sottoutilizzata. Weaver, come altre celebrità (relative) quali William Hurt e Dennis Quaid, eroga una recitazione onesta e competente, senza possibilità di approfondimento o di grande analisi, come d'altra parte richiede il genere di film in questione (che, lo ripetiamo, non è un giallo, ma un film d'azione con una particolare struttura).

 Il resto degli attori, con la simpatica presenza di Matthew Fox (reso celebre dal telefilm "Lost"), si impegna a fondo, soprattutto nel correre e sparare.

 La locandina, con la sua immagine a mosaico, risulta così suggestiva da promettere molto più di quanto il film riesca a mantenere: il potenziale caleidoscopio di prospettive annunciato dall'immagine composita viene effettivamente messo in scena, ma  in un modo che, in ultima analisi, risulta annacquato e banalizzato: le caratterizzazioni sono deboli e convenzionali; la molteplicità di interpretazioni viene ricondotta a una sola sequenza di azione e "intrigo" assai lineari e convenzionali; il messaggio e la morale edificante sono parecchio manicheistici, proprio come da tipica e dozzinale produzione hollywoodiana che mira al botteghino e deve quindi compiacere un pubblico facilone e semplicistico

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