martedì 7 marzo 2023

Franklyn (2008)

Franklyn (2008), scrittto e diretto da Gerald McMorrow, è un labirintico film fanta-nero che sfugge a una facile classificazione e costituisce un'avvicente e appagante sfida all'attenzione, se non all'intelletto, dello spettatore.

"Se Dio non può sconfiggere il male, allora non è onnipotente. Se può sconfiggerlo e non vuole farlo, allora Dio è malvagio. Se invece non vuole e non può farlo, allora perché chiamarlo Dio?" (Jonathan Preest)

Spiazzando completamente lo spettatore (ingannato, all'epoca dell'uscita nelle sale, da anteprime che annunciavano un film nello stile di V for Vendetta), le vicende di una brulicante e distopica megalopoli senza tempo, caratterizzata da colossali e soffocanti architetture gotiche, si alternano a quelle della Londra moderna del nostro mondo. Nella megalopoli di Meanwhile City (Città di Mezzo), dove la Polizia Clericale perseguita chiunque non aderisca a una delle innumerevoli religioni ufficiali, si muove il giustiziere mascherato Jonathan Preest, mentre a Londra si intrecciano le tormentate vite dell'artista Emilia, intenta a giocare col suicidio, del giovane Milo dal cuore spezzato, abbandonato sull'altare, e dell'anziano e religioso David, in cerca del figlio scomparso dopo essere stato dimesso da un'imprecisata istituzione.

Come queste due realtà, simili a universi paralleli o a diverse epoche temporali, giungano a connettersi, è un elemento fondamentale delo sviluppo della trama e della sua risoluzione, ed è quasi impossibile parlarne senza rovinare la sorpresa allo spettatore. Questo aspetto gioca un ruolo fondamentale nella classificazione precisa del film, tra i cui obiettivi c'è soprattutto l'analisi psicologica dei personaggi e l'indagine dei traumi infantili che li hanno condotti alla loro condizione attuale. A essa si mescola il citazionismo cinematografico colto ed esplicito, che va dai toni hard-boiled dei film neri (con la voce narrante in prima persone di Preest, la quale risuona in entrambi gli universi) alle atmosfere caotiche dell'alienato futuro di Blade Runner, passando per le visioni di governi allucinanti e oppressivi come quello di V For Vendetta o di Watchmen (due film tratti da opere dello stesso autore). Il regista e sceneggiatore, però, pur cogliendo le suggestioni di queste narrazioni classiche, ormai stratificate nell'immaginario collettivo, mira a raccontare tutt'altro genere di storia, prendendo alla sprovvista lo spettatore con il ribaltamento di prospettiva finale, che conduce alla risoluzione collettiva di tutte le trame, dopo aver seminato qua e là certi subdoli indizi (che sicuramente permettono agli spettatori più esperti di comprendere in anticipo che le cose non sono ciò che sembrano).

Volendo ricorrere ai soliti luoghi comuni, si potrebbe dire che questo non è un film per chi vuole essere intrattenuto spegnendo il cervello, perché è necessario un minimo di reazione cognitiva alla narrazione, per connettere i punti e coglierne il disegno; eppure, questo luogo comune finisce per essere falso, perché la rivelazione finale del geometrico piano su cui è stata costruita la vicenda non è solo immediata, illuminante e lineare, ma è anche esposta con la stringata chiarezza di asciutti dialoghi che, nella loro spiazzante semplicità, forniscono un'efficacissima chiave di lettura istantanea che fa chiarezza sull'intera narrazione, testimoniando l'indubbio talento dell'autore e l'accurata pianificazione di ogni elemento dell'architettura, in una simbiosi naturalmente felice tra immagine e parole. In questo momento culminante, quando ogni personaggio scopre o annuncia la propria vera natura, in una rivelazione collettiva che è anche catarsi, si coglie una sorprendente affinità con certe tematiche e idee della serie Battlestar Galactica (2003), dove a guidare i protagonisti alla realizzazione del loro destino, inteso come meta ma anche come forza attiva dell'esistenza, ci sono sfuggenti entità solo apparentemente umane, apparizioni "angeliche" che sembrano soggettive, ma hanno invece una loro oggettività, e si mescolano all'umanità senza mai esserne parte, aiutandola a contribuire a un indecifrabile disegno universale (qui ribaltato in chiave minimalista e intimista).

Da questa ambiziosa visione narrativa scaturisce un film in cui è divertente perdersi, per poi ritrovare la strada tramite gli indizi che portano alla risoluzione degli enigmi incontrati, e infine restare deliziati da come la spiegazione razionale offerta in conclusione venga comunque sfumata fino a recuperare l'ambiguità della duplice realtà iniziale: i personaggi di fantasia, svaniti quando i protagonisti raggiungono la catarsi e predono atto della realtà, non sono così immaginari come credevamo, e se ci si crede veramente, le proprie convinzioni possono divenire una realtà che si sovrappone a quella oggettiva. La spiegazione finale, con i suoi molteplici livelli di lettura, convince e affascina, evitando di sommergerci coi didascalismi, e ci riesce con tale efficacia da spingerci a riguardare il film da capo, sfruttando la consapevolezza acquisita per scoprire e apprezzarne ancora di più le sfumature e dettagli.

La produzione di questo film è stata definita "a basso costo", in quanto il ricorso agli effetti speciali è ristretto alla sola resa, molto efficace e credibile, delle incombenti architetture religiose e monumentali della tenebrosa e allucinata Meanwhile City. Proprio in questa componente, che viene superficialmente presentata come povertà di mezzi dovuta a ristrettezza economica, si scopre non solo il talento di una regia che sa raccontare le persone tramite l'ambiente in cui sono calate, ma anche la bravura di un autore che sa concedere il giusto spazio alla spettacolarità visiva (elemento ovviamente basilare per una narrazione cinematografica), e se ne serve per giungere alla sostanza delle idee e dei contenuti, i quali spaziano con intelligenza dalle suggestioni fantastiche del giallo gotico alle tematiche del disagio esistenziale che colpisce ogni fascia della società (i reduci di guerra, che vivono abusivamente in abitazioni fatiscenti, non sono tanto diversi dai ricchi figli di papà che non sanno dare un senso alla propria vita e cedono a pulsioni suicide), passando per la critica della religione e della fede, usate dal potere per controllare il popolo e dalle persone per fuggire dai propri problemi.

La caratterizzazione dei personaggi, da scoprire progressivamente, è solida e coerente, e richiede un certo impegno per essere compresa, analizzando dialoghi, comportamenti, espressioni e silenzi. L'attrice Eva Green, con i suoi lineamenti letteralmente goticheggianti nella loro incisività sofferta e allucinata, si impegna fondo nel rendere l'artista Emilia, confererendole lo spessore della verità di un personaggio traumatizzato nell'infanzia dagli abusi del padre e cresciuto quindi come persona tormentata e, quindi, caratterialmente sgradevole: nel suo realismo, è un personaggio lontano dalla resa consolatoriamente edulcorata della figura, presente in tanti film molto più facili e dozzinali, della vittima per la quale si è subito portati a simpatizzare perché descritta, faziosamente e ipocritamente, in modo patetico, ruffiano e psicologicamente fasullo.
Non è un caso che finisca per incontrare e scontrarsi con l'altro protagonista, il tenebroso giustiziere interpretato da Ryan Philippe, il quale incarna la follia incontrollabile e violenta dell'uomo, annidata dietro una rassicurante facciata di bell'aspetto, stile e ricercatezza quasi modaiola (basti notare l'eleganza della sua tenuta da giustiziere, che si oppone radicalmente alle bizzarrie straccione dell'umanità demente di Meanwhile City, e che non casualmente la regia descrive con un'accuratezza insistente e quasi maniacale); dove Emilia comunica la propria disperazione soprattutto per immagini (più o meno artistiche), Preest si serve invece della parola, essendo sua la cupa voce narrante alla Raymond Chandler che accompagna la missione di quello che ci viene presentato, ingannandoci abilmente, come un sofferto anti-eroe in lotta da solo contro il sistema, per il quale ci sentiamo di parteggiare sin dall'inizio. Nel confronto con questi due personaggi così fortemente caratterizzati, il terzo protagonista, Sam Riley, scivola in secondo piano, sebbene il suo aspetto di eterno adolescente, un po' caricaturale nei suoi tratti britannici, si adatti molto bene al ruolo che deve interpretare.
 
La colonna sonora, come la regia, si dimostra duttile e adattabile, e scivola dalle musiche grandiose e orchestrali delle titaniche visioni monumentali di Meanwhile City ai toni intimisti e sommessi delle sofferte storie personali dei personaggi londinesi.

Chi o cosa è Franklyn, nel film? Curiosamente, non è né uno dei personaggi nè un luogo: si tratta del cognome (o del nome) sulla targhetta del citofono dell'appartamento abbandonato in cui il personaggio dalla doppia identità di Ryan Philippe si stabilisce quando la collisione tra le trame principali e le due realtà parallele diventa apparente, fungendo quindi da fulcro e snodo cruciale dell'impianto narrativo (lo stesso citofono viene in precedenza inquadrato, come muto testimone nell'incontro casuale tra altri personaggi).
 
 

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